Continua il racconto della vita a Rigolato un tempo non lontanissimo, grazie alla testimonianza del casaro Dante Puschiasis di Valpicetto. Il testo è stato reso discorsivo da me, Laura Matelda Puppini.

SCUOLA, LAVORO, EMIGRAZIONE GIOVANILE.  

Quando io ero piccolo, prima della prima guerra mondiale, bambini e ragazzi, bimbe e ragazze potevano andare a scuola anche sino a quattordici anni, ma alcuni si fermavano alla seconda o terza elementare, altri proseguivano fino alla ottava classe elementare, che corrispondeva alla terza media dai Salesiani a Tolmezzo. E si faceva un esame di ammissione per andare in quarta. E questo succedeva prima della seconda guerra mondiale. Poi hanno creato la scuola media e quella di avviamento professionale.

E chi raggiungeva l’ottava classe, studiava molte materie: latino, francese, tedesco … E poi c’era l’avviamento al lavoro presso gli artigiani del luogo, se non si andava all’estero: falegname nella bottega del falegname e, per imparare a fare il muratore, c’era pure a scuola (1) un addetto che insegnava ad erigere muri, a fare e disfare. E questo apprendistato era gratuito, non si pagava né si veniva pagatI.  

Poi, dopo i 14 anni, i ragazzi incominciavano ad emigrare e, prima della prima guerra mondiale, andavano in Austria, in Tirolo, in Sud Tirolo … E anch’ io, come gli altri, sono andato a lavorare fuori a quell’età, a San Candido, a fare il manovale.

Giacomo Svander e Michele Gracco  di Givigliana. Foto di Giuseppe di Sopra. Anni ’20.

E fuori si viveva così, alla buona. (2). Uno di noi cucinava. Era uno di Collina di Forni Avoltri, che lavorava ed al tempo stesso, dopo aver acceso il fuoco, faceva bollire l’acqua per la polenta e ‘buttava’ la farina mezz’ora prima che gli operai giungessero a mangiare. E dovevamo fare tutto da soli: lavare, rammendare … Eh, adesso sono signori, mentre allora «dut di besoi, e i hai lavat avonde, io, veh!».

Ed imparavamo a fare la malta ed a smaltare, insomma a fare i muratori ed i carpentieri, ed era lavoro stagionale, e si rientrava per i Santi.  E le donne di casa, nel frattempo, vivevano lavorando la campagna e grazie alla mucca, facendosi aiutare dai bambini e ragazzetti e dalle bimbe e ragazze (3), e se per mangiare mancava loro la farina, dovevano comperarla usando il libretto (4), e se non pagavano subito, i commercianti imponevano loro un interesse usuale del 10% che aumentava più il tempo passava. E potevano anche togliere alle famiglie il solo pezzetto di terra che avevano se non riuscivano a pagare i debiti, … come credi abbiano fatto quelli di G.? (5).  Si sono arricchiti così. E anche quelli di D. (6) si sono arricchiti così: prima non avevano nulla e poi hanno portato via i terreni ad altri, che non erano riusciti a saldare i debiti. Ma c’erano molti che non avevano proprio nulla su cui rivalersi, né campi, né orti, e che prendevano persino la mucca in affitto.  E credo che due terzi della popolazione del comune di Rigolato avesse almeno un fazzoletto di terra, ma che un terzo non avesse nulla.

ED ANCHE LE DONNE EMIGRAVANO, PURE A FARE LA MALTA.

C’erano pure donne che emigravano, che andavano fuori anche a fare la malta. Per esempio mia mamma e mia zia sono state in Germania. «Bepine di Nuti, ca sta acavie, a fat ancje il murador, domande a Mario sa no l’è ver. A no si parave Mario, quant ca l’ha alçât regolat alì». (Beppina di Nuti, che sta qui vicino, ha fatto anche il muratore. Domanda a Mario, se non ci credi, che Mario non riusciva a starle dietro nel lavoro quando ha alzato e sistemato la sua casa).

Però non andavano a far malta da sole, ma assieme ai mariti, ai fidanzati (7). «Era nera, qui. E cosa sarebbero restate a fare in paese? Partiva il padre e partivano tutti, ed almeno guadagnavano un ‘cimbel’. “Vieni fuori e ti guadagnerai qualcosa e la spesa, e così in casa non si fa debito” – dicevano. E questo accadeva ai tempi dei miei genitori, ai primi del Novecento.

E c’era una a Rigolato, la nonna di quel giovane che hai salutato prima, che ha fatto su la casa da sola, anche la muratura. Ed era la nonna di Stasio, ed era di Tualis. Ed era il 1916».

Sapete: “La miseria forma industria”, poco da discutere, e «quello che ha buona volontà a si ingegne a fâ dut. (si adopra a far tutto). E anche la madre di Bene, mia zia, faceva di tutto: smaltava, pitturava… Ed era andata a lavorare all’estero con suo padre. E cuissà achì ce tantas a erin buinas di doprâ la cjacja! (E chissà quante, qui a Rigolato, erano capaci di usare la cazzuola da muratore!) Perché dovere è dovere! E si è dimostrato che chi non ha carattere sta lì, e magari si accontenta di una patata, ma non è mica giusto! Quando si ha buona mente e tutto a posto non sapersi arrangiare è un errore».

Giuditta Marcuzzi di Franculìn, detta “Guf” perché brontolava sempre, di Vuezzis di Rigolato, nata nel1848. Foto di Giuseppe di Sopra. Primi Novecento.

ALLORA SPESSO LE FAMIGLIE SI AIUTAVANO.

E le famiglie che avevano ben poco si aiutavano l’un l’altra, facendo in modo che tutti avessero un po’ di latte e formaggio, e andavano in affitto per i terreni, se ne trovavano a disposizione.  E in genere metà del raccolto andava al padrone, metà al fittavolo, e si chiamava “Lâ a miegjas”. Ma poi, dopo il 1927- 1928, con l’emigrazione definitiva dei nuclei familiari, questa pratica è venuta meno, per fortuna, perché era una forma di sfruttamento della gente. Infatti la legge della montagna, non scritta, non dice mai metà al padrone metà a chi lavora, perché non lo dice neppure in pianura, dove tutto è più semplice.

Al padrone si dà il terzo, e il padrone deve pagare le erariali e attivare il seme quando si deve seminare. Ma qui ci si adattava a tutto, si subiva ogni condizione perché non c’era di meglio. Insomma o accettare le condizioni del padrone o morire di fame, questo era quanto succedeva. E «io i sai di vuatris, Alido, a la su. Oh, Jesus, Jesus. No ca si seti parints strets, ma tanti voltis i soi vignut su iò cul lat, cun spesa …».
Alido dice che è vero, che Dante abitava vicino alla casa di Zef, dove aveva vissuto da piccolo, e Dante dice che la nonna di Alido era nipote di suo nonno.

UN NONNO CHE PENSAVA A TUTTO.

Dante continua dicendo che, per quanto riguarda i componenti della sua famiglia “Se occorreva una mano ne davano due” e poi, se potevano, coloro che avevano avuto ricompensavano in vario modo. Ed era il nonno che lo spediva a portare mezza ricotta qui, una pentola di minestra là … Lui stava attento, vedeva, guardava, sapeva chi era in povertà o no …
«E bastava mezza ricotta per sostenere una famiglia povera, perché con due patate bollite i suoi componenti facevano un pasto importante, e poi mio nonno dava un pezzo di formaggio o due etti di burro o del burro fuso, e così, quando avevamo bisogno di qualcuno che ci desse una mano, lo trovavi tra chi ti era riconoscente.
Da mio nonno, però, non lavoravano mai solo per un ‘grazie’ e basta, perché il vecchio “A no tirava mai iù la piel a int, chest bisugne riconoscilu (non spelava mai vivo nessuno, questo bisogna riconoscerlo)”, e non ha mai misurato il companatico ai forestieri.

Mio nonno non era povero, e forse aveva più ‘roba’ di altri del paese. Aveva complessivamente 7 bestie nella stalla, tra cui 4 o 5 mucche che si potevano mungere e un manzo, ed aveva 5 capre, e diceva che a casa sua non si sarebbe mai morti di fame.
E reggeva la casa secondo l’uso tedesco: i figli che avevano famiglia e lavoravano, dovevano pagare un tanto per anima per la spesa, ed il resto dovevano metterselo via da soli e dovevano arrangiarsi. E insegnava ai figli che chi sa conservare può avere qualcosa un domani, ma chi dilapida non dica poi: “Io ho poco e lui ha tanto”.

E quindi mio nonno faceva i conti per la festa di San Martino, e faceva pagare una quota fissa: per 5 componenti del nucleo familiare a chi ne aveva 5, per 7 a chi ne aveva 7, e non faceva distinzioni tra un figlio e l’altro. Ed aveva deciso di dividere in parti uguali fra i suoi cinque figli anche le sue proprietà alla sua morte, ed “aveva fatto tutto in tempo”: cinque figli cinque parti uguali: una mucca ad uno una all’altro, un terreno ad uno ed uno all’altro, in modo che nessuno potesse lamentarsi. Ed ha lasciato la casa ai figli che lo avevano aiutato a rinnovarla. Ed aveva deciso che poteva vivere in quella casa anche chi, tra di loro, non si fosse sposato».

Stavoli tra Magnanins e Valpicetto. Foto di Laura Matelda Puppini.

Le donne non stavano in casa ma andavano a fare le contadine in campagna, oltre a sbrigare le faccende domestiche, e alcune, che non avevano avuto ancora bambini, andavano a lavorare fuori.

E ci racconta, Dante, che in casa sua erano in sedici e che però sua nonna non parteggiava per nessuno a tavola. Ma poi giungeva suo nonno, quando il mangiare era pronto, e diceva a sua nonna: “Siediti al tuo posto, che adesso ci penso io”, e dava da mangiare prima ai più piccoli e poi, via via ai più grandi. «E una volta che un bimbo aveva mangiato, gli faceva togliere il piatto, e si andava avanti così in scala, dal più piccolo al più grande, ed alla fine si sedeva lui, a mangiare. E non accadeva, così, come in certe case dove trascuravano i più piccoli. (8). E ciò accadeva nella gran parte delle famiglie, ma “non è sistema di fare questo”. Mio nonno non la vedeva così, pensava che fare in questo modo fosse trascurare i più piccoli.

E diceva: “Quando il grande è sfamato, il piccolo è morto”. “Fa fame guardare gli altri che mangiano e non poterlo fare”. E mio nonno era un tipo che, quando diceva ‘alt’ si fermavano tutti in famiglia».

VITA DI DONNE, MALATTIE E ALIMENTAZIONE.

«Le donne salivano su, sino in alto, per segare e far fieno, ed andavano sino alla ‘plane’, sino in Vas, e poi oltre i lavori domestici, filavano, sferruzzavano (9), raccoglievano la legna per il fuoco e la spaccavano, ed andavano nella stalla, nel cjôt, per accudire il bestiame.

E le donne si ammalavano spesso di tubercolosi, a causa dei disagi che subivano, del mangiare che non c’era. “Lavorâ di strapàz, a cjapavin sudadas, non une attenzion, non un liet ricambiât, las stanzas no cjaldas”, (lavoravano sino allo sfinimento, prendevano sudate, nessuna attenzione per sé stesse, non lenzuola cambiate, le stanze fredde) queste erano le cause della malattia nella donna. A casa mia non abbiamo patito il freddo, ma in generale le case qui erano fredde».

Invece adesso la gente vive anche troppo nell’agiatezza, scalda anche troppo le stanze, e poi esce e piglia freddo. «Ed io – precisa- se non devo proprio, in casa non ci sto e non sto fermo: io cammino, cammino, faccio chilometri, ma lentamente, se no guai». (10).

«Una volta si mangiavano: polenta, patate, juf, “ca l’è uno soppo di farino cun t’un pouc di lat e sal” (che è una zuppa fatta con farina ed un po’ di latte e sale) dentro cui si mette l’ont, il burro cotto fuso, quando lo si ha (11)».

LA COOPERATIVA BIANCA DI RIGOLATO.

«C’era Rigolato una cooperativa edile bianca, sorta nel 1916 e durata fino al 1924. Aveva dei soci, uomini, che, uniti, prendevano in appalto dei lavori e li eseguivano. E c’erano, nel comune, sia una cooperativa rossa che questa bianca (12), edili, che facevano le stesse cose, che facevano fabbricati.
Sia nell’uno che nell’altro caso, uomini del comune si erano messi insieme ed avevano creato una società cooperativa, con tanto di fondo cassa per potersi mantenere. E quando il lavoro commissionato era terminato, il committente pagava, ed allora i soci accantonavano una cifra nella cassa per i periodi bui. E i soci avevano regolare tessera, “ed anche mio papà aveva quella della cooperativa bianca”. E cooperative bianche e rosse erano due società diverse ma, alla fin fine, erano uguali.

Per esempio a Forni di Sopra c’era solo una cooperativa di lavoro, che non ha mai smesso di essere operativa, continua a esistere e non è mai morta, il che pare un miracolo! E a Forni di Sopra hanno anche, in proprio, una cooperativa per i generi alimentari. E il fondo cassa disponibile a Forni di Sopra è maggiore di quello della sede centrale della Cooperativa Carnica di Tolmezzo. E non hanno alcun rapporto commerciale con Tolmezzo, E fanno tutto in proprio.

Ma anche le nostre cooperative edili non dipendevano dal Consorzio fra le cooperative di lavoro, eravamo da soli, noi. Poi, ad un certo punto, hanno finito di esistere perché i soci hanno incominciato a staccarsi dalla cooperativa, ad andare a cercare lavoro fuori, a star meglio, ed è cambiato tutto. Per esempio alcuni soci sono andati in America, ed hanno pure lasciato le loro quote partecipative alla cooperativa perché potesse tirare avanti, ma non è bastato.  Ma se fossero rimasti in paese, avrebbero concorso allo sviluppo della zona e dell’economia.

Ma secondo me non serviva che tanti emigrassero. Potevano prendere il lavoro che c’era e tirare avanti, e per tirare avanti c’era lavoro per tutti, e finché c’era un fondo cassa, si poteva vivere tutti, e non serviva cercare di fare “il grande passo”, ma “ognuno cerca per sé pane migliore”.  (14).
E quando hanno riaperto le porte dell’emigrazione, cosa è successo? Prima è partito uno, vedendo fuori da qui il benessere, poi ha chiamato a raggiugerlo un altro, e così via, ma questo è andato a totale svantaggio del paese. Certamente bisogna tener presente che a Ludaria c’erano 800 anime, 800 anime che facevano fatica a vivere e la povera gente è proprio costretta ad emigrare se non ha niente, a cercare un posto fuori di qui, dove stare meglio.

Qui sta bene chi ha qualcosa di suo, mentre i poveri possono star meglio fuori, e così anche i loro bambini. Ed erano già lotte di rimedio, quelle lì, (forse le lotte di quelli uniti in cooperative ndr.) per rimediare la situazione. Ma gli emigranti sono stati molto bravi dove sono andati. “Guardate la gioventù veneta (13), ma anche il gruppo di anzianetti sulla quarantina: hanno fatto lavori che nessuno li ha fatti. Se andate a Roma, a Cesenatico, se andate a Firenze, se girate nelle città vedrete che i Veneti hanno fatto capolavori. Carnici e veneti erano davvero bravi operai”.

E chi sa fare, e sa far bene, può diventare una guida a un ragazzo che abbia passione di lavorare, gli può insegnare il mestiere. Certamente alcune cose le può insegnare prevalentemente la madre ed in particolare alle figlie, perché il lavoro che fa la donna, l’uomo, tante volte, non lo fa, non è suo compito, non vi si dedica, e si vergogna a farlo».

Collina di Forni Avoltri, patria della prima latteria in Carnia, fondata grazie all’impegno ed alla lungimiranza del maestro Eugenio Caneva. (https://www.alteraltogorto.org/forni/collina/nonsololatteria-eugenio-caneva-e-la-sua-attualissima-eredita-oggi.html

DANTE CASARO.

«Tanti pensano, per esempio, che il mio mestiere, il casaro, non lo faranno mai le donne. Invece anche le donne possono fare il casaro, ed ho visto diplomate svolgere il mio lavoro.

Però le donne, quando hanno le mestruazioni, non possono toccare né il latte né la caglio: guai! È un fattore che rovina tutto. Se una mestruata tocca una salamoia: via, partita! E questo è accaduto a me. Senza volere l’ha toccata la moglie di mio cugino.

Avevamo due ‘brents’ due tinozze per il latte noi, ed in ognuna di esse stavano due quintali di latte. Ed avevo fuori anche del formaggio. E così le ho chiesto se le occorreva del formaggio salato, se glielo dovevo lasciare fuori: “Ti basta così o ne vuoi ancora?” – le ho detto. Ma c’era quello e basta. Allora non so cosa abbia capito mio padre o mio zio Vigjut, non ricordo chi dei due e, credendo che gliene avessi venduto troppo, ha preso il mestolo e lo ha spostato verso il formaggio, ed un pezzo dello stesso è finito dentro la caldaia, e la salmeria si è rovinata. Ed a me è bastato uno sguardo per capire subito che era da buttare. Ma ho cercato, per ogni buon conto, di togliere il formaggio caduto, ma ho dovuto buttar via tutto: formaggio e salmeria: centomila lire o più! Perché se si lascia lì tutto si rovina anche ‘il cjaldir’».

«Dovete poi sapere che io ho imparato a fare il casaro a Tolmezzo, ed abitavo lì, e poi ho fatto il casaro ad Ampezzo, ed anche allora abitavo in quel paese. Ma prima di fare il casaro ho imparato, come tanti, a fare il muratore. Per tre anni sono andato all’estero, poi basta: sempre in latteria.

Ad Ampezzo la latteria era una latteria cooperativa sociale, e nessuno sapeva qual era il suo prodotto, perché burro e formaggio venivano divisi in base al ricavo totale, al latte portato, alla resa. E a me pare più giusto così perché, con il sistema turnario, se per caso accade che un latte sia guasto, si guasta tutto il formaggio, ed il socio che lo riceve quel giorno, deve ricevere per esempio 7 o 12 o 20 formaggi guasti, che gli devono durare per tutto l’anno. Non è giusta, quella regola lì! E magari ha portato sempre e solo latte sano in latteria! Io in una latteria turnaria non ci porterei neppure un litro di latte!
Inoltre nel sistema cooperativo sociale, se a me non piace un formaggio troppo forte, posso far cambio con un altro sempre seguendo il peso che il formaggio ha quando lo si leva, prima di mettere il sale, e posso andare a prendere un formaggio magari ogni 40 giorni, senza tenerne tanti in casa».

RAPPORTI FAMILIARI.

«In tante case le donne davano del voi al marito, ma a casa mia no. Invece tutti i bimbi davano del voi al padre. Era forse una forma di rispetto, una regola, una specie di disciplina.

E mi ricordo una volta che stavo facendo il formaggio, ed è giunto, vicino a me, improvvisamente mio zio, senza che lo vedessi. E quando l’ho notato, gli ho detto: “Andate in parte, perché c’è il rischio che il mestolo vi arrivi addosso e che vi ustionate! Tiratevi in parte, per carità, non state dietro di me, non ho tempo di starvi ad ascoltare!”. Pensavo, infatti, che si fosse arrabbiato con i suoi di casa, e fosse venuto da me per raccontarmelo. Così mio zio se ne è andato, ma poi è ritornato tutto arrabbiato, e dai una volta, dai quell’altra, senza volere gli ho detto: “Lait sull’ostie!”.

Di che strade l’è rivât gno papà, cha l’ha det: “Dipo ce ca vul dî chest lavor achì? (E tu, perché parli così?)” “Cui mandistu su l’ostie? (Chi mandi sull’ostia?)” e io ho risposto: “Cui a dit nue a vou? (Chi ha detto qualcosa a voi?)” Sono bastate quelle parole per prendermi una sberla di quelle!!!»

Erano autoritari i padri, ma per loro sia che i bimbi dessero del voi che del tu era la stessa cosa, e dare del voi era come ora dare del tu. Ma fuori casa e sul lavoro è un’altra cosa. Per esempio non si deve dire: “Dipo, tu…” ma “Senta Lei …”, O “Sentite voi…” perché fuori casa bisogna usare un po’ di educazione, un po’ di rispetto, un po’ di galateo. E poi anche in famiglia, che sia come sia, uno capirebbe ugualmente quello che gli devo dire senza dirgli ‘Marzòc’. Se uno poi è un marzòc, lo si vede subito dal viso».

Malga in val Pesarina. In primo piano, con la tuta azzurra, mio marito Alido Candido con in braccio la nostra piccola Annalisa. Foto di Laura Matelda Puppini.

IO SONO STATO ANCHE IN GUERRA ….

«Io ho combattuto nella seconda guerra mondiale ed ho fatto la campagna di Grecia. E mi sono rovinato in guerra, io. Poi io dovevo esser deportato, ma non sono riusciti a portarmi in Germania!

E sono morti molti, qui a Rigolato, a causa della guerra! Ed è morto anche Marco Candido. Io l’ho conosciuto, ho conosciuto lo zio Marco. Era stato ferito ad una gamba. Poi è rientrato ma è durato quel che è durato perché, a quei tempi, non avevano tutte le cure che hanno oggi, e gli è venuta la cancrena ed è morto».

QUELLE OSTERIE SEMPRE APERTE.

«Quando rientravano gli emigranti, le osterie erano sempre aperte. Gli uomini che erano rientrati erano la loro risorsa. E “Se non piove, gocciola!”. Fuori si doveva tirar cinghia per portare due soldi a casa, ma poi, rientrati, gli uomini, sia che bevessero tanto sia che bevessero poco, andavano all’osteria, al bar diremmo oggi, a prendersi un ottavo di vino da bere in compagnia per festeggiare la fine del lavoro ed il rientro a casa. “Finalmente siamo rientrati ed abbiamo finito di faticare!”- pensavano.  E così andavano nel locale, e poi bevevano un taglietto e poi ne arrivava un altro e così via, facendo l’utile del bar.

E le osterie potevano restare aperte tutta la notte, e poteva pure accadere che le mogli dovessero andare a cercare i loro mariti nel locale. Per esempio tuo nonno e “Barbe Screta” giocavano tutta la notte a carte da “Barba Rico” (15). Là giocavano. Però erano più furbi di Barba Rico. Con il gesso segnavano sotto il tavolo, con una striscetta, i bicchieri che bevevano affinché l’oste non imbrogliasse.

Perché si può magari imbrogliare senza volere, segnare ad uno un bicchiere bevuto da un altro. Ed erano venti centesimi, che non era poco allora, e 20 lire corrispondevano a 20.000 oggi. Era moneta d’oro!
E se uno non ha segnato i taglietti consumati ad un tavolo, poteva accadere che, quando si domandava il conto, risultassero magari bevuti 20 bicchieri invece che sedici, come segnato da chi aveva consumato. E c’erano tanti bicchieri bevuti quante erano le strisce sotto il tavolo.
Anche 5 centesimi erano qualcosa, erano un lusso, per noi bambini! E quando noi avevamo 20 centesimi, si correva a portarli al nonno che si comperasse il berretto o qualcosa di utile. E con 30 lire si acquistava un paio di scarpe ad un uomo. Mi ricordo, per esempio, che il primo paio di scarpe che ho acquistato costavano 23 lire, ma sono durate 20 anni. Adesso non durano certamente così, e si pagano salate!.

Inoltre un muratore, se era bravo, portava a casa in una stagione seicento lire, e con quelle doveva vivere tutta la famiglia. Altrimenti guadagnava meno: tre, quattro, cinquecento lire, a seconda».

LA BIBLIOTECHINA SCOLASTICA POI SPARITA.

«Noi non acquistavamo i libri da leggere o scolastici, né penne, pennini ed inchiostro: li forniva il comune a ciascun alunno. E c’è stata anche una biblioteca scolastica, che poi hanno portato “lì di Cragno” (16).
L’hanno trasferita lì quando c’è stata l’invasione, nel 1943, perché non se la portassero via i russi o i tedeschi. Ma c’è stata una invasione, qui, anche nella prima guerra mondiale.
Ed era grande e bella la biblioteca della nostra scuola! Era stata realizzata dopo la ‘grande guerra’. Ma per ritornare al 1943, il maestro principale, che era quello insegnava nelle ultime classi delle elementari, il maestro Gussetti, ha preso la biblioteca e l’ha trasferita a casa sua, e l’ha messa in una stanza sotto, che era vuota e l’ha murata. Ma poi, non so perché non è più ritornata a scuola. E lì c’erano tanti libri istruttivi, di ogni tipo.
E mi ricordo che, nel 1923 o 1924, portavo 10 o 15 lire, come chiedevano di portare, e con quella cifra raggranellata comperavano libri nuovi, che poi prestavano a chi aveva passione di leggere.

Pensate. C’erano 5 armadi di libri!!! E gli scolari che sono stati licenziati dalla ottava classe in quegli anni, si può dire che erano completi nella loro istruzione, e preparati, ed avrebbero potuto girare tutto il mondo senza paura. Ed aver fatto l’ottava a Rigolato valeva come aver fatto le medie dai Salesiani. Ed io ho studiato a Tolmezzo e sono stato sempre molto bravo».

Laura Matelda Puppini

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(1) Forse nella scuola di disegno comunale serale vi era un capomastro che insegnava, (Cfr. per la scuola: https://www.nonsolocarnia.info/noe-dagaro-carnia-vita-di-uomini-e-donne-tra-lavoro-socialismo-esperienze-personali-e-tradizioni/) perché io non ho trovato da altre parti che vi fosse un mastro muratore alle elementari. Poi, dopo la creazione della scuola professionale statale, vi era nel suo organico un insegnante tecnico – pratico pure per insegnare il mestiere del muratore.

(2) Cfr. su questo argomento: “Noè D’Agaro. Carnia. Vita di uomini e donne, tra lavoro, socialismo, esperienze personali e tradizioni”, in: www.nonsolocarnia.info.

(3) Cfr. Alido Candido, Laura Matelda Puppini. Intervista a gnà Emma. In che volto, a Rigulât …Prima parte e Alido Candido, Laura Matelda Puppini. Intervista a gnà Emma. In che volto, a Rigulât … Seconda parte.

(4) È attualmente noto che il metodo di far segnare sul libretto il dovuto, era anche un metodo che si prestava ad imbroglio e usura, che poteva impoverire le famiglie.

(5) Nell’ intervista è chiaro chi sia la persona, ma preferisco omettere nome e dati indentificativi.

(6) Come sopra, vedi nota 5.

(7) Presumibilmente andavano anche con il padre o con fratelli e cugini, insomma con gli uomini della famiglia ancora intesa in senso patriarcale.

(8) Presumibilmente facevano così in molte famiglie per sostenere di più i ragazzi che lavoravano invece che i bimbi piccoli, quando le bocche da sfamare erano tante ed il cibo era poco.  E ne morivano, allora, di bambini, forse anche per malnutrizione.

(9) Il termine utilizzato da Dante Puschiasis è ‘Gugjâ”, che si traduce sferruzzare, e nonostante il gran dire da parte di alcuni, in particolare di quelli che hanno lanciato il “Gugiet” che le doone andavano su in montagna con i due ferri da calza lavorando, ciò non risponde, a mio avviso, a verità perché le donne facevano in genere calzetti ed altro che si realizzava con 5 o 4 ferri corti e sottili. Inoltre avviso l’Arlef che non si dice ‘Gucjâ’ ma ‘Gugjâ’, e ‘gugje’, e via dicendo. E spesso, mentre filavano, masticavano tabacco.

(10) Pare che qui Dante voglia sottolineare come quel camminare per percorsi anche lunghi e lentamente possa essere un toccasana per la salute.

(11) Il zuf poteva venir fatto in diversi modi, per esempio con la zucca o come polentina senza latte ed aggiungendo una costicina di maiale o un pezzo di salsiccia. L’uso di farlo con la zucca era di Cavazzo Carnico, quello di farlo con qualcosa di maiale era saurano.

(12) La differenza tra cooperative bianche rosse era politica: quelle rosse erano in mano ai socialisti, quelle bianche ai cattolici.

(13). Dante però non ha qui presente la situazione di allora, almeno così pare, e neppure le motivazioni politiche che spinsero lavoratori di sinistra ad abbandonare la Carnia.

(14) Qui Dante intende territorio delle tre Venezie.

(15) Per “Là di Barbe Rico” si intende l’osteria gestita da un Fruch a Ludaria con annessa rivendita di alcuni generi alimentari, sale e tabacco. Questo tipo di negozio/ osteria era presente in molti luoghi della Carnia.

(15) Qui, presumibilmente, la casa del maestro Guido Gussetti.

 

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