Vorrei chiarire relativamente alla storia del confine d’Italia ad est, dopo la seconda guerra mondiale, alcuni aspetti che portano a riflettere sulla versione emotiva dei fatti, che tende a travisarli, cercando di uscire dalle interpretazioni politicamente connotate.

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In primo luogo non fu solo questo nuovo confine ad essere oggetto di discussione da parte degli Alleati, in un contesto ove l’Europa intera era caduta sotto il giogo nazista. Parte degli italiani, con una scusa o l’altra ma anche in buona fede, hanno dato un’importanza grossissima al confine orientale d’Italia, nella ricostruzione storica, dimenticando i quattro anni precedenti, il fascismo ed i fascisti, ed i motivi che spinsero la popolazione della penisola a combattere e lottare, e scordandosi, pure, che gli Alleati, inglesi ed americani, dominarono la scena del dopoguerra. E c’erano anche nella Venezia Giulia, tanto che Giampaolo Valdevit dedica un intero articolo, documentato, a “Politici e militari alleati di fronte alla questione della Venezia Giulia, in: Qualestoria n. 3, ottobre 1981. E gli anglo- americani si mossero principalmente con una azione diplomatica verso il nuovo potere jugoslavo, ma tenendo conto, pure, di piani e iniziative di carattere militare che coinvolgevano il Mediterraneo intero.  (Giampaolo Valdevit, op. cit., p. 83).  

Dopo l’entrata dell’ Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo a Trieste, fu siglato, il 6 maggio 1945, un accordo provvisorio jugoslavo- britannico, (Diego Gon, Il problema di Trieste, 1945- 1954, CEMISS, Supplemento all’Osservatorio Strategico, n.7, luglio 2004, p. 12), quindi, il 9 giugno 1945,  fu firmato dal generale Alexander per gli Alleati e dal Maresciallo Josip Broz, detto Tito per la Jugoslavia, l’accordo di Belgrado che istituiva la linea Morgan creando le zone ‘A’ e ‘B’. Esso divenne operativo il 12 giugno, e pertanto, in quella data, l’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo abbandonò Gorizia, Pola e Trieste (Tra confini mobili e trattati di pace (1945-1975), in: intranet.istoreto.it). Il 14 dello stesso mese venivano smantellati i tribunali del popolo e le altre istituzioni civili create dagli jugoslavi. Il 20 giugno veniva stipulato l’accordo di Duino, che definiva ulteriormente le linee operative del precedente. (Giampaolo Valdevit, op. cit., p. 84).  E non si creda, stando a Valdevit, che gli Alleati, non avessero cercato, dopo tali accordi, per quanto riguarda Trieste, di «porre sotto l’esclusivo controllo alleato i più diversi settori dell’apparato amministrativo cittadino» (Giampaolo Valdevit, op. cit., pp. 84-85).

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Inoltre se è vero che la Quarta Armata dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, entrò a Trieste il primo maggio 1945, provenendo da est, nel quadro della politica di liberazione dal nazifascismo, è anche vero che, comunque, la Seconda Divisione Neozelandese vi arrivò da ovest il giorno seguente «e occupò il resto della città, garantendo agli Inglesi e agli americani la possibilità di esercitare una certa influenza su Tito». (Paul Addison, La visione di Churchill dell’Europa liberata nel 1945, in. 1943-1945. La lunga liberazione, a cura di Eric Gobetti, Franco Angeli ed., 2007, p. 151).

E Winston Churchill, da buon conservatore, fin dall’ ottobre 1944, quando si sapeva ormai che il nazismo era vinto, iniziò a porsi come obiettivo il contenimento del comunismo, tanto da distruggere di fatto il movimento partigiano greco, nella Grecia liberata.

Non da ultimo, per i circoli ufficiali inglesi «finchè i russi combattevano battaglie eroiche sul fronte orientale, essi erano degli alleati indispensabili» (Ivi, p. 147) ma, successivamente, questi iniziarono a temere che l’Unione Sovietica avanzasse troppo, per le loro esigenze di egemonia anglosassone. E Churchill iniziò a paragonare, usando un linguaggio figurativo, l’Urss ad una grande bestia, pronta a divorare tutto (Ibid.), ed a muoversi fra il continuare il confronto con la Russia, temendo l’abbandono Usa dell’Europa, ed il dare istruzioni al suo staff di redigere piani di emergenza per una guerra anglo-americana contro l’URSS. (Ivi, pp. 152-153). Ma se le «ansie verso l’Unione Sovietica», condivise dal governo britannico, potevano paventare anche questo scenario, grande era la diversità nel vedere le cose del popolo inglese, «e sarebbe stato impossibile raccogliere consenso a favore di uno scontro con un alleato che aveva accumulato così ampie riserve di gratitudine ed ammirazione». (Ivi, p. 153).
Spesso, allora come ora, le paure di alcuni politici non furono condivise dal popolo, ed il modo di pensare dei vertici militari non coincise sempre con quello della popolazione.

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Inoltre La definizione di ‘corsa per Trieste’ fu coniata da Geoffrey Cox, ufficiale di intelligence della seconda divisione neozelandese che, nel 1947, intitolò un suo libro: The Race to Trieste”, (https://danieledemarco.com/2014/02/10/i-giorni-di-trieste-1945-la-corsa-per-trieste/) creando una immagine altamente evocativa ed emotiva della liberazione dai nazifascisti della città giuliana, ma che andava bene per un romanzo post- bellico o al massimo per i neozelandesi. Infatti Trieste fu conquistata dall’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo combattendo, aprendosi la via, attraverso il Monte Nevoso, alla valle di Prestranek, accerchiando così il XCVII° Corpo d’armata tedesco, ed iniziando a muoversi verso Trieste. Ma l’esercito tedesco continuò a cercare di respingere l’avanzata dell’esercito jugoslavo attestandosi sul Carso presso Opicina e Basovizza, e trincerandosi in alcuni luoghi della città. (AA.VV., La Slovenia durante la seconda guerra mondiale, Ifsml, 2013, pp. 365-366). Così le forze militari jugoslave, non riuscendo ad espugnare la roccaforte tedesca di Opicina, si divisero, e mentre un troncone continuava a combattere ivi, la 31^ Divisione deviò riuscendo ad entrare a Trieste da nord, senza incontrare resistenze. (Ivi, p. 366).   
Non fu quindi per il NOV i POJ, una corsa od una passeggiata, ma l’avanzare sconfiggendo od aggirando il nemico verso Trieste, che aveva già cercato di insorgere, con i collaborazionisti che cercavano di salvare vita e credibilità voltando gabbana, qui come là. 

Infatti vi erano state, alla fine di aprile, nella città, due insurrezioni popolari, una diretta dal Comando di piazza di Trieste, l’altra dal Comitato Nazionale di Liberazione Giuliano, a cui parteciparono pure unità del Corpo Volontari della Libertà, appartenenti alla Guardia Civica, ed alle forze repubblicane, collaborazioniste fino ad un momento prima. Questo aspetto e le trattative del Comitato Nazionale di Liberazione Giuliano con il comando tedesco per la resa, vennero viste negativamente dall’ Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo (Ivi, p. 365). Inoltre fra partigiani e combattenti del Corpo Volontari della Libertà vi furono, pure, sporadici scontri, finchè il Comando di piazza di Trieste procedette al disarmo dei partecipanti all’insurrezione del CNLG. (Ibid.). 

Invece la Divisione neozelandese dell’8a Armata britannica, motorizzata, giunse a Trieste il giorno dopo partendo dal Po, e raggiunse Trieste da ovest in due giorni e mezzo, senza combattere, e trovando la città già praticamente liberata. (Ivi, p. 366). Quindi la 1a e la 3a Armata dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia e l ‘Armata rossa, che entrò a Vienna, passarono a liberare la Slovenia, la Stiria e la Carinzia, superando con grande difficoltà le linee fortificate lungo i fiumi, mentre le forze tedesche in ritirata costruivano, lungo la loro strada, nuove fortificazioni provvisorie. Ma già il 26 aprile 1945 le forze anglo americane, che avanzavano da ovest, superando l’Elba, avevano raggiunto quelle sovietiche che avanzavano da est, ed a Torgau avvenne lo storico incontro tra il generale Emil F. Reinhardt e il generale Vladimir Rusakov, che sanciva la vittoria finale. Non fu facile battere l’esercito tedesco per nessuno. Inoltre ad est si ritiravano, oltre l’esercito tedesco, l’esercito croato, i cetnici che tentavano di fuggire riparando anche in Italia, altri, e la situazione a fine guerra era composita. (Ivi, pp. 367-373).

Quindi «Gli arresti, le deportazioni e le uccisioni riguardarono persone molto diverse. Il […]  denominatore comune non era la volontà di eliminare gli italiani come nazione, come spesso il problema veniva rappresentato dalla propaganda di parte italiana, ma il desiderio di punire i crimini fascisti e in parte anche di eliminare chi non considerava l’Esercito jugoslavo un esercito liberatore. Tra gli arrestati e gli uccisi la maggioranza era in qualche modo legata al fascismo e alla collaborazione con l’occupatore nazista». (Ivi, p. 382).

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Militari e civili croati, cetnici bosniaci, montenegrini e serbi, la gran parte delle truppe collaborazioniste slovene, e parte dei domobranci sloveni (che si erano, all’ultimo momento, unificati dandosi il nome di Esercito nazionale sloveno) si arresero agli inglesi, e furono chiusi nel campo di concentramento di Viktring, vicino Klagenfurt. Quindi, il 4 maggio 1945, il comando alleato decise di non accettare la resa di collaborazionisti jugoslavi, e così 26.000 appartenenti per la gran parte alle forze armate dello Stato indipendente croato di Ante Pavelić, furono consegnati agli jugoslavi. (Ivi, p 373). I domobranci sloveni e qualche centinaio di civili, come altri croati, serbi, montenegrini, furono rinchiusi nei campi di Šentvid e Thearje.  Alcuni furono uccisi subito, altri furono trasportati in una area carsica, furono fucilati e gettati nelle foibe (ivi, p. 373). Pertanto non è vero che furono giustiziati solo italiani perché erano tali, ma che vi fu una epurazione, di cui erano a conoscenza pure gli alleati, di collaborazionisti, filonazisti, filofascisti, sia italiani che di altre nazioni, e che questi ‘nemici’ furono uccisi e gettati nelle foibe carsiche o internati, indipendentemente dalla loro nazionalità. E ricordo che chi consegnò i cosacchi all’Urss, come da accordi internazionali, sapendo benissimo a cosa sarebbero andati incontro, furono gli Inglesi. Insomma spesso parliamo della seconda guerra mondiale come fosse stato un gioco, come essa avesse interessato solo italiani e sloveni che si contendevano un po’ di terreno, povero e magro, nella cosiddetta Venezia Giulia, dimenticando i contesti mondiali ed europei ed anche la shoah, che fu di proporzioni enormi, con la morte di circa 6 milioni di ebrei, niente a che vedere, anche se qualcuno lo vorrebbe, con i numeri dei morti complessivi a fine guerra tra i collaborazionisti dei tedeschi o ritenuti tali.  E se la Venezia Giulia poteva interessare all’Italia dopo la prima guerra mondiale nell’ottica di aprirsi la via per i Balcani, tutti avrebbero dovuto capire che ormai, alla fine della seconda,  tale progetto era terminato.       

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E passiamo ora al termine ‘foibe’ per indicare gli arresti, gli internamenti, i morti nel 1943 e 1945 da parte di sloveni e slavi. Nessuno credo neghi questi accadimenti, collocati in due precisi momenti storici, ma uno dei problemi è l’uso del termine emotivo ‘foibe’, onnicomprensivo e la errata contestualizzazione del fenomeno in una pulizia etnica italiana, mai esistita, per guadagnare un po’ di terreno di doline e non certo fertile.

Raoul Pupo e Roberto Spazzali sono gli autori del libro “Foibe”, prima ed. 2003, superatissimo dagli studi successivi e ristampato, credo in un’ottica politica, da ‘Il Giornale’, per il 10 febbraio 2018, che lo vende, ora, a 8,50 euro. Detto volume, a quindici anni dalla sua uscita ed alla luce degli ulteriori studi, appare discutibilissimo sia per il modo in cui è costruito, sia per la scarsa documentazione, di cui si sa, in certi casi, solo che è visionabile presso l’irsml ma non se sia di derivazione giornalistica, diaristica, da fonte orale, ed è privo totalmente di contestualizzazione non iper – locale, come il confine ad est d’Italia fosse argomento a sé, fosse un contenzioso tra italiani e jugoslavi che non avevano passato tutta la seconda guerra mondiale ed il periodo antecedente alla stessa. Pertanto quando i due autori dichiarano, in premessa: «Questo libro lo abbiamo scritto perché ce lo hanno chiesto», credo loro ciecamente, perché appunto potrebbe trattarsi, per loro stessa ammissione, di un pamphlet prodotto per chi poneva domande continue e solo sulle foibe. Ma per ritornare all’argomento che mi sta a cuore, anche Pupo e Spazzali scrivono che «Quando si parla di “foibe” ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in prevalenza italiani, scatenatesi nell’ autunno 1943 e nella primavera 1945 in diverse aree della Venezia Giulia», e che questo è «un uso del termine consolidatosi ormai, oltre che nel linguaggio comune, anche in quello storiografico, e che quindi va accolto, purchè si tenga conto del suo significato simbolico e non letterale». (Raoul Puppo, Roberto Spazzali, Foibe, ed. Il Giornale, p. 2).

Però a me questo modo di ragionare da parte di due studiosi ritenuti degli storici pone davvero qualche problema. È come se, dato che nel linguaggio comune gli organi sessuali femminili vengono globalmente indicati con i termini, ‘la figa’, ‘la passera’, ecc. si permettesse ai medici di utilizzare detta terminologia generalizzante e popolare! Inoltre nel caso specifico, con questo uso del termine ‘foibe’, mai codificato con norma per descrivere dei fatti storici, si è dato spazio ed inizio ad una storia scritta con toni da romantico noir, che nulla ha a che fare con la storiografia seria, e che ha dato alimento e linfa ai nuovi fascismi, ben poco interessati alla scientificità.

Infatti così la ‘foiba’ diventa una specie di ‘oggetto simbolo’ di tutto il male possibile, che si attribuisce ai ‘titini’, comunisti rossi, invasori e ladri di terra, contrari agli italianissimi, e che volevano cancellare l’italianità e via dicendo, trasferendo una realtà storica contestualizzabile nella fine della seconda guerra mondiale, in una visione politica appartenente alla sfera dell’immaginario dell’estrema destra razzista. E che questa visione delle cose fosse figlia dei repubblichini, non lo dico io ma Enzo Collotti. (Cfr. Enzo Collotti, prefazione, in: Giacomo Scotti, “dossier foibe”, Manni 2005, p. 14). Inoltre Enzo Collotti afferma che non è vero che delle ‘foibe’ non si sia mai parlato sino al 2001, perché vi è stato mezzo secolo di pubblicistica immensa che ha puntato alla quantificazione dei morti, esasperandola, mentre, «La destra post-fascista ha pressocchè monopolizzato l’argomento delle foibe anche per distogliere l’attenzione dal ruolo svolto dall’RSI e di quanti aderirono alle formazioni nere che in Istria e nella Zona di Operazione del Litorale Adriatico combatterono agli ordini dei comandi nazisti contro i resistenti […], seminando distruzione e morte fra la popolazione civile. Questa destra post-fascista, inoltre, soprattutto a Trieste, ha cercato di coprire con urli e fragori qualsiasi voce levatasi per ricordare violenze e stragi perpetrate dai fascisti italiani in Istria e nelle zone occupate della Dalmazia, del Montenegro e della Slovenia […] dall’aprile 1941 all’inizio del settembre 1943 e, ancor prima […]». (Ivi).

E come non ricordare che l’antislavismo e l’anticomunismo furono due cavalli di battaglia del Partito Nazionale Fascista, che li utilizzò per incarcerare, picchiare, dare olio di ricino, uccidere, ridurre in povertà, ecc. ecc.?

Inoltre processi ed uccisioni di collaborazionisti e nemici non avvennero solo qui. «Già prima della fine della guerra i collaborazionisti francesi subirono arresti ed incarcerazioni, seguiti da giudizi sommari ed esecuzioni capitali, solitamente emesse direttamente dai partigiani che li avevano catturati». (https://it.wikipedia.org/wiki/Collaborazionismo_in_Francia).

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Ma, per ritornare ai fatti di fine guerra nella Venezia Giulia, corpi di uccisi dagli slavi furono sicuramente buttati nelle grotte naturali dette foibe, la cui esistenza nessuno può negare perché sono realtà geologica, o nel pozzo della miniera di Basovizza, non foiba (Raoul Pupo, Roberto Spazzali, op. cit., p. 3), e vi sono dati su questo aspetto, ma molti di più furono gli internati in campi di concentramento di cui alcuni ritornarono a casa. Ma vorrei far capire che le informazioni storiche non possono essere diffuse passando dal piano dell’analisi scientifica al piano emotivo- noir. Perché così va a finire che la visione sanguinaria della ‘foiba’ di Carlo Sgorlon: «La foiba faceva sempre pensare al sangue, all’ossario, alla macelleria, al lancio dei vivi e dei morti nell’abisso. Negli inghiottitoi si buttava la roba che si voleva eliminare, togliere per sempre dalla vista, e magari anche dalla memoria». (La foiba grande, Carlo Sgorlon) viene utilizzata per la giornata del ricordo, che ormai pare si alimenti più di Cristicchi, Casa Pound e politica che di storia e scienza. Anzi si è giunti all’intolleranza anche cattolica, con la ‘criminalizzazione’ e l’impedimento a parlare, grazie ad una giornalista, per alcuni studiosi che volevano tenere, in una sala pubblica, un convegno sulla giornata del ricordo, ed ad una preside, che mentre parlava Alessandra Kersevan ha chiamato credo la digos in borghese, a cercare non si sa quali ‘mostri’ nella stanza ove si teneva l’incontro, terrorizzando i docenti. Ma la cosa peggiore, politicamente, è che il Pd ed il governo tacciono, invitando gli altri ad esprimersi contro il fascismo.

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Anche Goradz Bajc, nel suo “Le ‘foibe’, contributo ad un dibattito storiografico in corso” in: “Atti del corso di aggiornamento ‘Revisionismo storico e terre di confine’ Trieste, 13-14 marzo 2006, pp. 195-205, utilizza il termine ‘foibe’ in senso ampio, pur riconoscendone il limite. Egli, come gli altri studiosi sia italiani che sloveni, non nega le violenze e uccisioni sommarie di persone di nazionalità italiana dopo l’8 settembre 1943 e dopo il primo maggio 1945, ma sottolinea come, a seguito delle ‘foibe’ istriane’ che contarono circa 500 morti, il terrore invase i circoli italiani locati ad est di Trieste, che iniziarono concretamente a temere di non poter  difendere efficacemente e militarmente i territori occupati dopo la prima guerra mondiale, ed i propri privilegi e posizioni sociali, e così incominciarono  insistentemente a chiedere l’occupazione della Venezia Giulia da parte anglo – americana, motivandola con il fatto che l’arrivo degli alleati avrebbe potuto prevenire i possibili progetti ‘titini’ di invasione e massacro. (Goradz Bajc, op. cit., pp. 198-199). E pare che anche la DC sostenesse tale soluzione ed avesse tali paure.  

Ed infine: mentre nessuno studioso serio oserebbe definire ‘roattiani’ o ‘grazianini’ soldati del Regio Esercito Italiano o dell’R.S.I., è ormai invalso l’uso di chiamare i partigiani dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, ‘ titini’, quasi fossero tutti dei fantocci all’ordine di un capo indiscusso, il che non corrisponde a realtà, ma al solito ‘ immaginario non scientifico’. Essi erano invece in primo luogo partigiani combattenti, uomini, persone, anche loro forse prima soldati, o renitenti alla leva tedesca, che avevano visto pure perpetrare orrori su civili, e volevano liberare dai nazifascisti la loro terra. E come in ogni esercito vi erano personalità di ogni tipo.

Comunque stiano tranquille le destre, che con i tedeschi vittoriosi non vi sarebbe stata diplomazia alcuna e Trieste italiana, ma solo asservimento alla grande Germania, di cui l’R.S.I. era una creatura fantoccio.  Non a caso, dopo l’8 settembre, si parla di nazifascisti nei documenti d’epoca.

E per ora mi fermo qui. Senza voler offendere alcuno, ma per continuare una analisi spesso interrotta da paure, levate di scudi, politica di mezza tacca, e volontà di voler avere ragione senza leggere nulla. Sperando, per aver letto qualche volume documentato e riportato qualche considerazione, di non trovarmi domani nell’ elenco dei negazionisti delle foibe, o posta fra le nuove streghe, vi rimando pure ai seguenti articoli, pubblicati sempre su www.nonsolocarnia.info, attendendo anche vostri commenti nell’ottica di una analisi costruttiva:  

10 febbraio a Torino. Su quel convegno che, per qualcuno, “non s’ha da fare”, ma non si capisce perchè.

Laura Matelda Puppini. Per la giornata del ricordo.

Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate.

Non avrei scritto queste righe se non avessi letto il titolo dell’articolo di Maurizio Cescon, Vergarolla 1946 …

Pier Paolo Pasolini, 1948: sull’uso politico di Porzûs, su cui “nulla è ancora chiarito e risolto”.

Sull’uso politico della storia.

Marco Puppini. Una riflessione su Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale.

Marco Puppini. Convegno sul confine orientale (italiano) dell’Anpi a Milano: una riflessione.

L. M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti.

Laura Matelda Puppini                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 

 

 

 

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