Vorrei qui riprendere la mia ipotesi “E se …” sull’eccidio detto di Porzûs, che ebbe luogo a Topli Uorch il 7 febbraio 1945, per analizzare alcuni contesti.

Galliano Fogar, che fu segretario e presidente dell’Irsml, non certo in odore di avere in tasca una tessera del P.c.i., nel suo: La tragedia di Porzûs. A proposito di una lettera a “Il Piccolo”, in Qualestoria n. 2 settembre 1987, pp. 133-140, rispondendo ad attacchi su quanto aveva affermato sull’argomento in una trasmissione televisiva, precisava che:

i gappisti garibaldini autori della strage non dipendevano dal Comando del IX Korpus sloveno ma formalmente dal comando generale del gruppo Divisioni Garibaldi-Friuli, che venne a conoscenza dell’attacco contro il comando della Ia brigata Osoppo ad eccidio avvenuto;

il gruppo GAP di Giacca non dipendeva, all’epoca dei fatti, neppure dalla Divisione Garibaldi Natisone, essendo stato alle sue dipendenze solo per breve periodo, nel corso della Zona Libera del Friuli Orientale, per poi abbandonare la zona difensiva a lui affidata, e che il comando della Natisone aveva dato l’ordine di arrestarlo e processarlo per diserzione, venendo salvato dalla Federazione udinese del Pci, che ne aveva ricordato i meriti nella lotta. (Galliano Fogar, La tragedia di Porzus, cit. pp. 134 e136).

Quindi continuava affermando che la Divisione Garibaldi- Natisone, i primi di febbraio del 1945, «operava lontano nella zona del IX Korpus sloveno fra la selva di Tarnova ed il vecchio confine», mentre Mario Lizzero si stava adoperando per unificare i comandi Garibaldi Osoppo. (Cfr. documentazione presente in irsml, Fondo Magrini).

«Osservava il Lizzero che le responsabilità di malintesi, pregiudizi, incomprensioni “sarà da dividersi fra tutti noi dirigenti delle due formazioni” e che era giunto il momento di una severa autocritica per tutti “assumendosi quelle responsabilità di passati errori per imporsi decisamente di correggerli in futuro”». (Galliano Fogar, La tragedia di Porzus, cit. p. 137).

Fogar, poi, sottolineava come non si potesse più far riferimento solo a quanto emerso nei due processi, di Lucca secondo Fogar più rigoroso nella ricostruzione dei fatti e Firenze, (che si erano conclusi, su stessa documentazione, con due sentenze diverse ma concordando i giudici che non si potesse condannare alcuno per tradimento della patria) ma si dovesse prendere in considerazione la nuova documentazione emersa e pure tener conto del fatto che circolassero anche versioni infondate di fatti, come quella che asseriva che i comunisti sloveni avessero denunciato alle SS esponenti del Pci triestino, fra cui Frausin, rivelatasi poi «un falso storico prodotto dalla violenta polemica senza esclusione di colpi fra cominformisti ed anticominformisti» esplosa nel 1948-1949. (Ivi, p. 139).

Sosteneva, infine, che l’eccidio di Porzûs «era stata una tragedia italiana, un “fratricidio” (partigiani italiani che uccidevano loro compagni di lotta)» (Ivi, p. 134) e che, a suo parere, quanto accaduto a “Porzûs” andava letto «alla luce delle tensioni politiche, ideologiche e nazionali accumulatesi in una zona di incontro fra la resistenza italiana e quella slovena in una fase di grave crisi della resistenza italiana dopo i violenti attacchi nazisti in Friuli dell’autunno-inverno 44-45» (Ivi, p. 139).

E sul contesto, sulla cornice di quel fratricidio a cui anche Fogar accenna, vorrei soffermarmi, senza entrare in dettagliate analisi dei rapporti fra i vertici del Partito Comunista Italiano e quello Sloveno, non sempre così lineari, ma contraddistinti nella realtà anche da contrasti ed accordi, su cui vi è certamente chi è più esperto di me. Infine non si deve dimenticare che il quadro di riferimento era quello della seconda guerra mondiale, ove l’Italia, come Nazione, come Stato, era considerata dagli Alleati un paese vinto, e gli antifascisti italiani «da tener lontani dal governo o sotto tutela in esso, […] – secondo Churchill – perché altrimenti potrebbero “allargare le pretese italiane”». (Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, vol 5°, La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, 1975, p. 425), mentre l’Esercito di Liberazione Jugoslavo, comandato da Josip Broz nome di battaglia Tito, era, anche per gli Angloamericani, un esercito alleato che combatteva insieme a loro.

Infine non bisogna dimenticare che l’Urss era alleata di Americani, Inglesi, Esercito di Liberazione Jugoslavo nella guerra contro il nazifascismo, e che le azioni per avanzare liberando il territorio occupato dal nazismo furono concordate, come le zone di influenza del dopoguerra, nell’incontro di Mosca fra Churchill e Stalin, detto Conferenza di Mosca, tenutosi dal 9 al 17 ottobre 1944. (Pierluigi Pallante, Il P.C.I. e la questione nazionale Friuli Venezia Giulia 1941-1945, Del Bianco ed., 1980, p. 177).

Quindi la chiave di lettura di premesse e contesti che fecero scattare l’eccidio “fratricida” di Porzûs, deve tenere conto di alcuni aspetti non solo locali, che provocarono tensioni interne ed inasprirono gli animi. Ma, al tempo stesso, come pensa pure Galliano Fogar, fu fatto isolato, non collegabile a contesti internazionali, e non fu commissionato in modo alcuno dal IX° Corpo d’Armata jugoslavo, stando alla documentazione nota.

Ma vorrei qui velocemente sintetizzare gli avvenimenti che si succedettero, dall’aprile 1944, a livello internazionale.

L’11 aprile 1944, facendosi chiamare “compagno Ercoli”, Palmiro Togliatti, segretario del PCd’I, (anche e frequentemente nei testi Pci o P.C.I. o anche P.C.) faceva sentire da Napoli la sua voce, affermando, per il dopoguerra, che: «Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza esser schiacciata dai gruppi […] del capitale monopolistico. Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sull’esistenza o sul dominio di un solo partito. In un’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti, o almeno quelli che […] hanno un programma democratico e nazionale, mantengano la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo».  (Palmiro Togliatti, Discorso di Napoli dell’11 aprile 1944, da https://it.wikipedia.org/wiki/Palmiro_Togliatti).

Il 6 giugno 1944 gli Alleati sbarcavano in Normandia, quindi, il 15 agosto, nella zona di Saint Raphael, sempre in Francia.

L’ avanzata alleata in Francia e quella sovietica dal Baltico ai Balcani, disegnavano, in qualche mese, una geografia europea nuova.

Roma viene liberata il 4 giugno 1944, Parigi insorge il 18 agosto ed il 25 è libera, gli Alleati raggiungono il 3 settembre Bruxelles, la Francia libera acclama De Gaulle. Ad Est l’avanzata sovietica è travolgente, le perdite tedesche spaventose. Sui fronti della Carelia e di Leningrado, lo sfondamento è di 400 chilometri. Il 4 settembre la Finlandia rompe le relazioni diplomatiche con la Germania, e quindici giorni dopo chiede l’armistizio all’Urss. La Bielorussia, molti paesi Baltici, una parte considerevole della Polonia sono liberati. In Ucraina le armate guidate dal generale russo Ivan Stepanovič Konev raggiungono le rive della Vistola e le pendici dei Carpazi, mentre quelle di Rodion Jakovlevič Malinovskij, alla fine di settembre, liberata quasi tutta la Romania, raggiungono i confini dell’Ungheria e della Jugoslavia. Alla stessa data è liberata anche la Bulgaria mentre l’armata di liberazione jugoslava entra, il 20 ottobre 1944, a Belgrado. All’epoca Atene è già insorta. (Paolo Spriano, Storia del Partito cit., pp. 421-422).

Dopo la liberazione di Roma, il 19 giugno 1944, il vecchio governo del cosiddetto Regno del Sud, diretto da Pietro Badoglio, instauratosi dopo l’8 settembre, viene sostituito da un Governo dell’Italia Liberata, composto da rappresentanti dei vari partiti presenti nel Cln centrale, ed alla sua guida viene posto Ivanoe Bonomi, politico anziano e presidente dello stesso, personaggio non certo rappresentativo di una svolta decisa nella politica italiana verso il rinnovamento, dopo aver ottenuto  l’approvazione del Consiglio Interalleato. Un unico veto è posto dagli Inglesi: ed è quello a Carlo Sforza al Ministero degli Esteri, in quanto non erano state gradite le sue dichiarazioni a favore di una futura Italia repubblicana. (Paolo Spriano, Storia del Partito cit., pp.423-424).

Al Sud, ove gli Alleati sono sbarcati nel 1943, si scontra la «distanza fra promessa e realtà». (David Ellwood, Liberazione/occupazione, in: AA.VV., 1943-1945. La lunga liberazione, a cura di Eric Gobetti, Franco Angeli ed., 2007, p. 21) E sulla politica alleata contano sia la «diffidenza britannica» e il «disordine materiale ed umano della burocrazia post-fascista», sia «la riluttanza di scegliere tra la continuità dello stato e la volontà di rinnovamento espressa dalle nuove forze post-fasciste». (Ivi, p. 20). Inoltre la situazione della popolazione civile, alla fame, è difficilissima, e le idealità complesse e variegate di rinnovamento in Italia si scontrano ben presto con una realtà che mostra l’esercito americano non tanto come portatore di ideali di libertà ma per l’«opulenza […] che alimentava criminalità e mercato nero, inflazione e speculazione ovunque». (Ivi, p. 21).

Nel contempo iniziava quel “lungo dopoguerra”, quella transizione verso un nuovo assetto europeo ove l’analisi di cosa accadde nel Mezzogiorno d’Italia, a cui guardavano tutti, risulta interessante, perché «le modalità con cui nel Sud avviene il passaggio dalla guerra alla pace, […] è parte intrinseca della storia complessiva del paese perché […] influenza e condiziona l’intero processo di genesi dell’Italia repubblicana». (Gloria Chianese, Italiani liberati dalla Sicilia a Napoli. 1943, in: AA.VV., 1943-1945. La lunga liberazione, cit., pp. 95-96).

Scrive Claudio Dellavalle nella prefazione al volume sopraccitato: «di fronte alle pesanti ipoteche poste dagli Alleati sulla politica italiana dell’immediato dopoguerra, i ragionamenti di una manciata di intellettuali antifascisti sul futuro dell’Italia e dell’Europa e sull’ipotesi federalista appaiono oggi vani […]», anche se non fu del tutto così. Inoltre dopo la liberazione, (termine che venne riempito di diversi significati), «gli interessi in gioco erano molteplici e la situazione fluida» e si misurarono sia le grandi potenze uscite vincitrici, che «gruppi politici e intellettuali che vennero poi spesso rapidamente marginalizzati» (Claudio Dellavalle, Prefazione, in: AA.VV., 1943-1945. La lunga liberazione, cit., p.9), ma è anche vero che molti europei ed italiani si aspettavano, nel dopoguerra, qualcosa di più della semplice modifica di una classe politica dirigente e sognavano un “mondo nuovo” per sé e per i loro figli, e che alcuni obiettivi furono realizzati altri no.

Inoltre secondo James E. Miller, mentre gli italiani si spendevano in sogni ed idealità, sul loro futuro avrebbero inciso anche aspetti legati alla politica internazionale, ed a quella “minaccia comunista” che gli angloamericani volevano far sparire. In particolare gli americani crearono un’alleanza a lungo periodo con De Gasperi e la Democrazia Cristiana, e tentarono di influenzare gli elementi di orientamento socialdemocratico, repubblicano e conservatore moderato. (James E. Miller, La questione della democrazia. Pianificazione statunitense e ricostruzione italiana. 1943-1948, in: AA.VV., 1943-1945. La lunga liberazione, cit., p. 172).

Infine la visione di Churchill e dei conservatori inglesi ed il loro dichiarato anticomunismo influirono anche su alcune scelte fatte nell’ autunno 1944, in previsione della liberazione dell’Italia ancora occupata dai nazifascisti e collaborazionisti. «Churchill temeva […] l’avanzata del comunismo in quelle parti d’Europa in cui a spingersi in avanti erano gli eserciti inglesi ed americani […]». (Paul Addison, La visione di Churchill dell’Italia liberata, in: AA.VV., 1943-1945. La lunga liberazione, cit., p. 147). E gli stavano particolarmente a cuore le sorti post- belliche di Grecia, Italia, Spagna, ove temeva un possibile avanzata del comunismo, e su questa base ricercò una posizione comune anglo americana contro quella che egli, da inglese e conservatore, vedeva solo come “la pestilenza bolscevica” (Ivi, pp. 150-151) non distanziandosi molto dal pensiero fascista e nazista su questo tema. Così nessun ostacolo venne posto al proseguimento della dittatura di Francisco Franco in Spagna (Ivi, p. 148) e gli americani non ebbero problemi ad usare in Italia la Cia, sempre in funzione anticomunista. (James E. Miller, cit, p. 174).

Il 21 agosto Churchill è a Roma, dove incontra anche Papa Pio XII, con cui si intrattiene, in modo particolare, sul pericolo del comunismo, a tal punto non gradito da limitare, pare, ogni vento di rinnovamento reale anche nel dopoguerra. Il 9 ottobre Churchill vola a Mosca, ove incontra Stalin, ed i due alleati si spartiscono le reciproche zone di influenza. È ben strano il concetto di influenza che esce da quell’incontro, e che scaturisce da quel concetto di «equilibrio continentale» tanto caro a Churchill ed agli Inglesi (Paolo Spriano, Storia del Partito cit., p.429). Così la decisionalità popolare in alcuni casi passa in secondo piano ed in Grecia, nel dicembre 1944, gli Inglesi stroncano l’EAM, cioè l’Ethniko Apeleftherotiko Metopo, il Fronte di Liberazione Nazionale, controllato da KKE, cioè dal Partito Comunista greco e l’ELAS, Esercito Nazionale Popolare di Liberazione, è costretto ad accordarsi con loro, capitolando, l’11 gennaio 1945. E quanto era accaduto in Grecia fu visto da alcuni come un segnale forte di come sarebbe andato, per alcuni paesi, il dopoguerra.

Bisogna però anche ricordare che molti alleati persero la vita nella lotta contro il nazifascismo, ed in particolare cittadini dell’URSS, e che senza di loro neppure l’Italia sarebbe stata liberata.

Ma ritorniamo a noi.

Nella tarda primavera 1944, a Nord della linea gotica si ritiene imminente l’arrivo degli alleati, e, come da indicazioni del Clnai e Cvl, si iniziano a costruire Zone libere. L’ipotesi di Churchill, poi abbandonata, di uno sbarco alleato in Istria, fa sperare in una rapida fine del conflitto in Friuli e nella Venezia Giulia. Ma nel settembre 1944 le condizioni atmosferiche sull’Appenino, la pioggia, il fango, unitamente ai combattimenti durissimi, che provocano gravi perdite alleate in uomini e mezzi, e la tattica tedesca delle linee di resistenza successive frenano l’avanzata alleata, e si giunge all’inaspettato Proclama Alexander. (Paolo Spriano, Storia del Partito cit., p.421, e Alberto Turinetti Di Piero, La guerra da Cassino alla linea Gotica, in: AA.VV., 1943-1945. La lunga liberazione, cit., p.117).

Quindi una serie di considerazioni e di significati anche su quanto riportato in documenti e lettere di noti rappresentanti del Pci non può esulare da quanto essi vedevano stava accadendo in Sud Italia, che ritenevano non rispondesse pienamente a quella nuova democrazia governata da una pluralità di forze politiche ipotizzata da Togliatti, e che tendeva, invece, a riproporre soluzioni simili a quelle che avevano preceduto la dittatura fascista.

I vertici del Pci, che guardano al dopoguerra, pensano che gli Alleati, al loro arrivo, disarmeranno i combattenti, non permettendo loro di creare una democrazia nuova, che favorisca anche un ruolo attivo delle masse operaie e contadine e delle donne attraverso i loro rappresentanti, come a lungo si è sognato. Ma d’altro canto sanno che per gli accordi presi a livello internazionale, gli Alleati hanno però lasciato al governo dell’Esercito di Liberazione Nazionale Jugoslavo piena libertà di organizzazione sotto questo punto di vista. I vertici del Pci pare di capire, ritengono quindi, ad un certo punto, che sarebbe stato opportuno per i partigiani italiani unirsi ai combattenti dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, entrando sotto il loro comando operativo, anche perché a livello logistico sono i più vicini, in particolare quelli che compongono il IX° Corpo d’Armata. I partigiani dell’Ozak hanno lottato insieme contro nazismo e fascismo, si può ipotizzare, quindi, dopo la sconfitta del nazifascismo, una fase di transizione ove non tutto sia lasciato alle decisioni angloamericane, e si possa giungere a scelte di governo maggiormente partecipate.

Ma sono ipotesi per il futuro, perché il primo obiettivo resta la lotta al nemico comune dato che i nazifascisti non sono ancora sconfitti e son presenti sul territorio del Friuli e della Venezia Giulia. Si pensa, si ipotizza … anche sui confini, ma non si decidono soluzioni definitive, si teme un governo come quello dell’Italia del Sud, si sa di essere fra i perdenti a fine guerra.

Se leggiamo poi il testo non si sa da chi scritto, pubblicato su La Nostra Lotta il 13 ottobre 1944, tanto per fare un esempio, il fatto che si pensasse allora ad una liberazione della Venezia Giulia da Est, pare chiara. Le truppe anglo americane stanno avanzando da sud ovest, quelle dell’Unione Sovietica, alleata alle prime, da est, per liberare i territori occupati da tedeschi e fascisti.

E si spera in una fine imminente della guerra.

«In conseguenza degli avvenimenti militari in Italia e nei Balcani è da prevedersi l’eventualità che a breve scadenza le forze popolari del Maresciallo Tito, appoggiate dal valoroso Esercito Sovietico […] inizino operazioni di grande respiro per la cacciata dei tedeschi e dei fascisti anche dalla Venezia Giulia e dai territori dell’Italia Nord-Orientale.

Noi salutiamo questa eventualità come una grande fortuna per il nostro paese e un gran passo sulla via della liberazione, perché l’azione congiunta in Italia delle forze Anglo Americane al Sud, delle forze Jugoslave all’Est, alleate e unite alle forze partigiane italiane che si battono sugli Appennini, sulle Alpi, e nella Pianura Padana non può che accelerare la fine dell’oppressione nazifascista in Italia, la fine delle sofferenze, delle rovine e dei lutti per il nostro popolo.

Noi dobbiamo accogliere i soldati di Tito non solo come liberatori (non occupanti n.d.r.) allo stesso titolo con cui sono accolti nell’Italia liberata i soldati Anglo Americani, ma come dei fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta e della vittorio contro l’occupante nazista ed i traditori fascisti, e che ci apportano […] la libertà malgrado le colpe di cui, nei loro confronti, le nostre caste imperialistiche e il fascismo, coprirono il popolo italiano con la loro più che ventennale opera di oppressione e di persecuzione nazionale.

Noi dobbiamo accogliere in particolare i soldati di Tito come i creatori di nuovi rapporti di convivenza e di fratellanza, non solo fra i popoli jugoslavi ma fra tutti i popoli, come i creatori della nuova democrazia sorta nel fuoco della guerra di Liberazione Nazionale.

Essi vengono come fratelli perché non solo i territori slavi da essi liberati, ma anche quelli italiani non saranno sottoposti a regime di armistizio ma considerati territori liberi, con proprio autogoverno rappresentato dagli organismi del movimento di liberazione, nei quali i diritti e le aspirazioni nazionali di ogni popolo e di ogni gruppo nazionale trovano immediata e sicura espressione democratica, in uno spirito di fraterna solidarietà. A presidio dei territori liberati staranno le forze popolari dell’Esercito di Tito e le formazioni partigiane italiane che avranno combattuto per la liberazione e che saranno rispettate nella loro organizzazione e nelle loro caratteristiche […]». (Testo integrale dell’articolo in: Pierluigi Pallante, Il P.C.I., cit, p. 205- 207).

Ma anche se prendiamo in considerazione i contenuti sostanziali della lettera attribuita a Vincenzo Bianco, e ipoteticamente datata 24 settembre 1944, si evincono alcune considerazioni che si riferiscono ad un contesto preciso.

Nella prima parte del testo si nota come l’autore ritenga che la sconfitta della Germania nazista sia vicinissima e tema «certe mene reazionarie imperialistiche, col preciso e ben determinato fine di impedire che i popoli possano risolvere, sulla base della democrazia popolare, tutti i problemi, che portarono all’attuale conflitto, così pure alla soluzione, in senso democratico e progressivo e secondo gli interessi del popolo lavoratore, i numerosi problemi sorti nel processo stesso della guerra.». (Ivi, p. 192). Quindi si passa a descrivere i meriti dell’U.RS.S e dell’esercito di Tito per la liberazione dei popoli, pensando, probabilmente, come chi ha scritto su La Nostra Lotta, ad una liberazione da Est, ma anche, forse, per superare l’odio verso i comunisti, gli slavi, la Russia bolscevica  sostenuto e propagandato da fascismo e nazismo.

«Nel campo dei nostri Alleati Anglo-americani, non si negano tutti questi fatti e meriti. …. Però non hanno ancora rinunciato ai loro meschini sogni di opporsi alla soluzione in senso democratico e popolare di tutti i problemi della guerra. Come pure non rinunciano ai loro tentativi di dominio non solo in Europa ma nel mondo. Cercano con tutti i mezzi di tenere in disparte le masse onde nuovamente giungere ad isolare l’Unione Sovietica, ad indebolire il più possibile la nuova Jugoslavia […].

Nel campo economico, i circoli reazionari e imperialistici angloamericani, cercano, con piani di ricostruzione in Europa, di creare un organismo finanziario, dove il capitale anglo-americano abbia una posizione dominante che gli permetta non solo di mantenere le vecchie posizioni, ma di conquistarne delle nuove […]. (…). Esempi concreti di tale politica già vengono esperimentati nel Sud Italia, […].  Certo la lotta continua, e gli alleati in questi ultimi tempi hanno dovuto fare delle concessioni o ma esse sono ancora minime in confronto dei bisogni.

Nel campo politico prendendo come esempio il Sud Italia, noi assistiamo ad un certo rafforzamento degli elementi reazionari, che hanno tutto l’appoggio dalle autorità di occupazione militari e politiche. (…).

Nell’ Italia del Sud grazie a questi circoli reazionari non si agisce nei confronti dei banditi fascisti con l’energia che la liberazione del paese lo esige, è a tutti noto come la radio Londra rimproveri al popolo di Roma di avere giustiziato il famigerato direttore delle carceri di Roma» (Ivi, p. 194).

Ora la chiave di lettura della situazione del Sud Italia da parte dei vertici del Pci risente certamente del punto di vista, della terminologia, del pensiero e degli schemi che seguivano i comunisti italiani ma anche internazionalisti dell’epoca, e non so come potrebbe essere diversamente, come accade per qualsiasi altro partito ed ideologia, ma d’altro canto ora si può dire che alcuni aspetti evidenziati ed alcuni sospetti erano pure realistici.

Nella parte successiva della missiva pare di cogliere una certa disillusione su come stanno andando le cose, ed a me sembra che questo lunghissimo testo difficilmente possa essere la trasmissione di ordini precisi. Inoltre non si sa ancora quale sia il testo effettivo della lettera.

Per quanto riguarda la città di Trieste, così scrive Palmiro Togliatti, in forma privata, il 19 ottobre a Vincenzo Bianco: «Non possiamo ora impegnare una discussione sul modo come sarà risolto domani il problema di questa città, perché questa discussione può solo servire oggi a creare discordia tra il popolo italiano ed i popoli slavi. Quello che dobbiamo fare è, d’accordo con i compagni slavi e nella particolare situazione che si sta creando in quella regione, portare il popolo di Trieste a prendere nelle sue mani la direzione della vita cittadina, garantendo che alla testa della città vi siano le forze democratiche ed antifasciste più decise e disposte alla collaborazione più stretta con il movimento slavo e con l’esercito e l’amministrazione di Tito. I nostri compagni devono comprendere e fare comprendere a tutti i veri democratici triestini che una linea diversa si risolverebbe, di fatto, in un appello all’occupazione di Trieste, da parte delle truppe inglesi con tutte le conseguenze che ciò avrebbe (cioè: disarmo dei partigiani, nessuna misura seria contro il fascismo, instaurazione di un’amministrazione reazionaria, nessuna democratizzazione, ecc…)». (Paolo Spriano, Storia del Partito cit., p. 437). Quindi Togliatti continua dicendo che si sarebbe dovuto cercare di reclutare operai, contadini, intellettuali italiani nelle file dell’esercito di Liberazione di Tito, essendo, tra l’altro, l’unico modo per evitare il disarmo dopo la cacciata dei tedeschi. (Ivi). Spriano specifica che copia della lettera con l’avvertenza «segreto» si trova in APC, Corrispondenza Roma-Milano, /90-2. Non si capisce però, se detta lettera contiene le direttive di Togliatti concordate con gli sloveni (Ivi, p. 436), perché debba restare segreta. Comunque non ho cercato l’originale.

Inoltre questo testo deve esser analizzato nel contesto di tutto il carteggio dell’epoca, relativo al Pci, come per quello di ogni altro partito, ed all’interno dello scambio di opinioni e desideri, e tentativi di accordo fra Pci e Pcus, o meglio fra Kardelj e Pci, di cui non sono assolutamente tecnica, in un’ottica in cui si pensava ad una liberazione imminente. Ma poi giungeva il Proclama Alexander, il lungo inverno 1944-45, che decimava le file partigiane, come la primavera 1945.

Infine così scrive Galliano Fogar rispetto alla situazione internazionale creatasi nel dicembre 1944: «Fu in quella situazione e in conseguenza dei successivi sviluppi politici e militari nell’area giuliana ed adriatica dall’autunno ’44 in poi, con l’arresto dell’offensiva angloamericana sulla linea “Gotica” e il consolidarsi dell’egemonia partigiana jugoslava fra l’Isonzo e il vecchio confine (oltre che della posizione e prestigio politico acquisiti anche sul piano internazionale dal movimento jugoslavo) ed a seguito delle esperienze fatte dagli inglesi in Grecia nel cruento scontro con i partigiani comunisti e di sinistra dell’Elas nel dicembre ’44, che gli angloamericani decisero di rivedere tutti i loro originari progetti che miravano ad insediare il loro Governo Militare Alleato (GMA) su tutta la Venezia Giulia fino al confine del 1940. (…). Sulla base di questa revisione di piani, che implicava il trasferimento del problema a livello diplomatico […] con un rapporto diretto con Tito, il comando generale alleato del Mediterraneo ordinò a tutte le missioni in Friuli e nella Venzia Giulia di non farsi assolutamente coinvolgere nei contrasti etnico -nazionali e fra forze partigiane comuniste e non comuniste locali e di non favorire la formazione di schieramenti in opposizione agli jugoslavi (quali ad esempio fra CLN di Trieste e le brigate Osoppo). Ordine che fu mantenuto e osservato anche dopo la tragedia di Porzûs quando i capomissione alleati si preoccuparono soprattutto che la Osoppo riorganizzasse i suoi reparti e continuasse i sabotaggi contro i tedeschi». (Galliano Fogar, La tragedia di Porzus, cit., pp. 138-139). Ma anche per il Pci la questione dei confini era rimandata al dopoguerra, e probabilmente anche per l’Esercito di Liberazione Jugoslavo, e scrivo così solo perchè dovrei leggere documentazione nel merito per affermarlo in modo certo e documentato.

Per quanto riguarda il Pci, così riporta Spriano da una lettera indirizzata “Al Comitato Centrale del Partito Comunista Jugoslavo” datata 29 gennaio 1945, firmata “La Direzione del PCI per l’Italia occupata”, in APC, Corrispondenza Roma-Milano, A 90/2 (Paolo Spriano, Storia del Partito cit., p. nota 3 p. 438):

« I nostri compagni della Venezia Giulia più difficilmente riescono a trovare l’accordo con i locali compagni sloveni perchè questi tendono sempre ad andare oltre al problema  immediato dell’occupazione per porre come già risolto quello dell’appartenenza futura di Trieste e degli altri territori misti. Il compagno Ercoli (Togliatti n.d.r.) dice che noi dobbiamo in tutti i modi favorire l’occupazione delle regioni giuliane da parte delle truppe del maresciallo Tito ma non dice affatto che noi dobbiamo porre la questione dell’annessione di questa regione alla Jugoslavia, anzi ci dà proprio un avvertimento contrario». (Ivi, p. 438).

Ho scritto le righe precedenti per chiarire il clima di tensione, per i partigiani friulani e carnici, sia garibaldini che osovani, in quel periodo, tensione data da diversi fattori, fra cui i primi restano il nemico, il freddo e la fame, l’essere soldati in guerra, ma anche da una diversa visione del dopoguerra. Penso quindi si possa proprio concordare con Fogar quando scrive che l’ottobre 1944 è un periodo critico, ma anche che la strage di Porzûs non fu che un fatto marginale nella situazione che si stava venendo a creare, e non vedo un motivo valido per cui il IX Korpus o il P.C.I avrebbero dovuto dar ordine al gruppo di Giacca di sterminare i pochi osovani rimasti alle malghe di Topli Uorch.

Non si può però negare che «i fatti di Porzŭs, con le ripercussioni che ebbero in seguito, per parecchi anni, in Italia, furono certamente dei fatti estremamente negativi per il PCI e per il movimento garibaldino». (Pierluigi Pallante , Il P.C.I., cit., p. 238).

Ma è anche vero che la storiografia relativa a Porzûs e dintorni ha sinora preso in considerazione in particolare le differenti linee politiche dei partiti in vista del dopoguerra, talvolta togliendole dal contesto di riferimento, mentre si è poco interessata alla vita dei partigiani al fronte, nelle zone operative, e dimenticando che vi era ancora la Zona di Operazioni del Litorale Adriatico.

Queste sono mie considerazioni personali documentate, sulla base delle mie letture, cercando di capire, come mi ha sempre insegnato Romano Marchetti,  e che possono permettere un dibattito e precisazioni nel merito.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso,  da: https://it.wikipedia.org/wiki/Alleati_della_seconda_guerra_mondiale, e rappresenta i 3 grandi Alleati: Josip Stalin, Franklin Delano Roosevelt  e Winston Churchill alla conferenza di Teheran (28 novmebre – 1 dicembre 1943). Articolo coperto da copyright dell ‘autrice. Si può citare parti citando la fonte. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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