Pubblico questa seconda parte dell’intervista alla maestra Anna Umberta Squecco Plozzer, mia nonna, fatta a Tolmezzo da me e da mio marito, il 24 aprile 1978, quarant’ anni fa, (con interventi anche dell’Ispettore Scolastico dott. Geremia Puppini, mio padre, presente assieme a mia madre), oggi, giorno del ‘Minili’ di San Pietro e Paolo ma forse anche di San Giuàn  (1), che un tempo erano due, per cui si sono già raccolti ‘gimas, balças e balçûi’, come si legge su : Sei di Cavazzo se … L’intervista continua con domande e risposte sugli usi familiari, la vita e le feste a Cavazzo Carnico, e sulla Cooperativa rossa falegnami che alla sua origine si chiamava ‘Alba Proletaria’. La falegnameria era ubicata a ridosso della roggia, nei pressi della casa di Cornelia Puppini D’ Agaro, che, dopo i terremoti del 1976, l’acquistò per demolirla e modificare la sua casa e la sua proprietà. Laura Matelda Puppini 

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Anche a Cavazzo Carnico la vita delle donne era in genere faticosa.

Anna: «A Cavazzo ogni famiglia aveva un fazzoletto di terra da lavorare, e quando un vecchio veniva a mancare, tutti i figli volevano subito ereditare la loro parte, per mettersela in ditta. 
E quando ero bambina, le donne di Cavazzo andavano a far fieno fino in cima alla montagna, fin su in località ‘Forcia’, e, dopo aver falciato, facevano le ‘mede’. Seccata l’erba, facevano un fascio con il fieno che portavano in paese sulla testa. Mi ricordo che allora sentivo dire che facevano anche due viaggi al giorno, camminando per ore, e quando lavoravano per altri, guadagnavano 20 centesimi al fascio. Ed un fascio poteva pesare anche trenta o quaranta chili, ma io non credo di più, perché una donna non poteva portare più di quel peso lungo sentieri di montagna. Ma non era usuale, a Cavazzo, che le donne falciassero e trasportassero fieno per terzi, mentre a Mediis, nella valle del Tagliamento, la proprietà fondiaria era concentrata in poche mani, ed i padroni davano da lavorare la terra in affitto. E chiedevano in cambio sia denaro che prodotti, a seconda del tipo di contratto stipulato. E so che i proprietari erano fiscali con chi lavorava per loro. A Cavazzo una delle poche che aveva tanta terra, tanta campagna da lavorare, era mia nonna Anna, e so che assumeva donne a giornata per i lavori agricoli, e mi ricordo che c’era una povera anziana che stava da noi, ed andava, quando era il momento giusto, da mia nonna e le diceva: “Siore Anute, quant podio vignii a lavorâ?” – E so che mia nonna le rispondeva: “Domani no, vieni posdomani” – perché sapeva che questa povera donna aveva veramente bisogno.

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A Cavazzo Carnico si dava del voi solo agli anziani, ed i matrimoni potevano esser combinati.

Anna «Un tempo si dava del ‘voi’ a qualsiasi anziano. Ma in famiglia su usava il ‘tu’. E non vi era un sottostare della moglie all’ autorità del marito in ogni casa, e vi erano donne che accettavano tutto e donne no. Insomma fra moglie e marito mi pare che i rapporti fossero quelli di ora.

Geremia: «A Cavazzo, come nel resto dell’Italia, ci potevano essere matrimoni d’amore, ed erano i più, o combinati. Certamente vi era, come dovunque, il tentativo di adocchiare un ‘benestante’ od una ‘ benestante’, allora come ora, perché i tempi non sono cambiati, ma spesso fra i giovani fidanzati non mancava, come non manca ora, un po’ di romanticismo».

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Ed anche a Cavazzo, come in altri paesi, gli uomini frequentavano le osterie.

Geremia: «Gli uomini a Cavazzo frequentavano le osterie, come accadeva pure negli altri paesi. Sai, quando andavano a Tolmezzo a piedi e poi rientravano al paese la strada era lunga … Poi bevi un ‘tajut’, bevine due, calava la notte, e allora la moglie partiva con un lume in mano a cercare il marito. E poteva succedere che, una volta trovato, la donna si sentisse pure rimproverare aspramente».

Anna: «Mio padre non poteva bere, perché era ammalato. Così andava in osteria un’ora o due la domenica, ma non beveva troppo, e poi tornava a casa per ora di cena. E io mi ricordo di averlo visto ubriaco una volta sola. E io l’ho guardato e gli ho detto: «Orpo, papà, mi sembra che tu sia un po’ allegro stasera». E lui: «Come hai fatto ad accorgerti?» Ed io: «Stasera parli troppo, mentre di solito non parli mai».

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La festa di San Rocco ed il Carnevale.

Geremia: «Durante le feste Cavazzo si animava, e certamente gli uomini facevano qualche bevuta in più all’osteria. A San Rocco, la festa del paese, si mangiava a mezzogiorno salsiccia o altra carne del maiale allevato in casa, mentre le ossa venivano messe nella minestra di fagioli, quando la si faceva, per darle un buon sapore. E poi si suonava e si ballava. Certamente non si mangiava spesso carne come ora, e solo nelle feste e nelle migliori occasioni si mangiava o la carne del proprio maiale o carne di mucca acquistata nella macelleria di Cavazzo». Anna aggiunge che la sia famiglia comperava in macelleria, talvolta, vitello per fare spezzatino.  Geremia: «Normalmente si mangiava polenta, grandi minestroni di patate e fagioli, e formaggio, ma talvolta a fettine così sottili che per scherzo si diceva che ‘si vedeva Venezia’. Poi talvolta si mangiava frico, frittate, uova …»

Geremia: «San Rocco era una grande festa. Presto al mattino, venivano le bancarelle, ed iniziava la fiera del paese. Ed anche noi ragazzini riuscivano ad assaggiare qualche ‘cibo esotico’. Così chiamavamo, sai, tutte quelle robette zuccherate, pasticcini e noccioline dolci, insomma cose che non si vedevano il resto dell’anno. Al mattino c’erano la Messa e la processione, seguitissime, il pomeriggio, invece, c’erano i giochi per bambini e ragazzi, tipo il palo della cuccagna, la corsa dei sacchi …  E la sera vi era un grande ballo!».

Anna dice che invece, quando era piccola Lei, non si ballava la sera di San Rocco, e non c’erano giochi per bambini al pomeriggio, ma si festeggiava alla vecchia maniera. «Quando ero piccola c’erano la Messa e la processione, però non si poteva ballare, e la sera, dopo il vespero, tutte le famiglie si riunivano all’ osteria, ed i grandi comperavano ai bimbi i ‘colaz’ e bevevano insieme qualcosa.

Geremia: «A Carnevale si suonava ogni sera, passando da una cucina all’altra. Noi ci riunivamo con chitarre e mandolini, e solo successivamente è comparsa la fisarmonica, ed andavamo a suonare casa per casa. Talvolta faceva la sua comparsa anche un suonatore di ‘liron’ che faceva il basso, e si faceva festa, e si mangiavano castagne».

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L’allevamento dei bachi da seta come fonte di integrazione al reddito.

Geremia: «Devi sapere, Laura, che a Cavazzo molte famiglie allevavano i bachi da seta, ed avevano i graticci per farlo, e la campagna era piena di gelsi. A primavera inoltrata, si comperavano ed allevavano, con le giovani foglie del gelso, i bachi da seta, finché facevano i bozzoli, poi si eliminavano i bachi e si vendevano i bozzoli». Anna ricorda che i bozzoli «venivano caricati su carri, o portati con cesti sino a Venzone, dove vi era chi sapeva ricavare il filo dal bozzolo».  Geremia ricorda, invece, che vi era stato un periodo in cui anche alle scuole elementari si allevavano i bozzoli, a fini economici, e che vi erano circolari esplicative.

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Il ‘Minili’.

Geremia: «Noi non usavamo lanciare ‘las cidulas’, ma fare il ‘Minili’. La mattina del giorno stabilito, passavamo casa per casa a raccogliere le fascine di ‘vidìz’, cioè del materiale legnoso su cui si mettevano i bachi da seta per fare il bozzolo. Quindi si accatastavano le fascine nei due luoghi stabiliti, ed all’imbrunire, quando incominciava a calare la notte, si incendiavano. E vi erano due grandi fuochi che si levavano verso il cielo, uno fatto dalla ‘Villa’ di Cavazzo e l’altro dal Borgo Poscolle, e si gareggiava a chi faceva il fuoco più grande, ed in quell’occasione si facevano pure altri fuocherelli, si lanciavano torce, si faceva scherzosamente, una specie di anagrafe dei matrimoni previsti o prevedibili. E si diceva: “Par l’onor di San Pieri, San Pauli, San Giuan, la tale prende il tale … o il tale prende la tale …” (La formula riporta al fatto che il ‘Minili’ non era fuoco epifanico, come qualcuno ha ipotizzato, ma fuoco acceso nel periodo di San Giovanni Battista e San Pietro e Paolo, cioè a fine giugno ndr).  Magari, per scherzo, si univano nomi di persone che neppure si conoscevano, per esempio: oppure si accostava il nome di una bella ragazza a un vecchio ‘Colamau’. ‘Colamau’ si chiamava quello che era un po’ lo zimbello del paese, ed in questo caso come in altri, gli accostamenti non erano realistici, ma prese in giro, scherzi. Alla gara fra i ‘Minili’, seguiva poi un gran ballo pubblico in piazza, che si protraeva sino ad ore piccole.». Poi Geremia parla di un ‘altra usanza: quella di mettersi intorno ad un palo alto, od ad un alto abete, che parrebbe ricondurre ai riti di maggio anche Bretoni, ma poi non continua il discorso.

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Il pane dei morti.

«Ed ora ti racconto una usanza dei primi Novecento. Quando moriva una persona, la sua famiglia andava dal fornaio e faceva fare pane per tutte le altre famiglie del paese, sia povere che ricche, e quindi distribuiva uno o due panetti a ciascuna, ed in cambio si doveva dire un ‘L’eterno riposo’ per il defunto. E mi ricordo che io non volevo mai mangiare quel pane, perché fra bambini era corsa voce che avesse toccato la bara del morto».

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Puerpere a Cavazzo Carnico.

«Alle donne, dopo il parto, davano da mangiare ‘panada’ (zuppa con pane rammollato e con un po’ d’olio), perché dicevano che così non venivano le febbri post parto. Almeno da noi, a Cavazzo, usavano così. E nel pane ammollato mettevano, oltre che un po’ d’olio d’oliva, un uovo … e diventava una zuppa sostanziosa. Naturalmente alle puerpere non davano solo ‘panada’. E se la davano alla sera non la davano a mezzogiorno, davano minestrine. E dopo qualche giorno mangiavano quello che mangiavano gli altri.

Poteva succedere che raramente, una donna partorisse fuori casa. Io però ho sentito raccontare solo di un caso da tua bisnonna Maria Elisabetta di Sauris. Ella mi ha narrato di una donna che ha partorito in montagna, ha preso il bambino nel braccio ed è venuta a casa. Qualche caso poteva succedere. Le donne partorivano in casa, e, se non c’erano problemi, veniva ad assisterle solo la ‘comare’ (l’ostetrica ndr). Prima faceva questo servizio una donna che era pratica e basta, ma poi hanno incominciato ad esercitare ostetriche diplomate.

Inoltre le donne, dopo aver partorito, dovevano partecipare alla cerimonia detta ‘purificazione’, come in ogni parte d’Italia. Esse a Cavazzo Carnico entravano in chiesa ma restavano nell’ultimo banco. Quindi, prima della Messa, venivano raggiunte dal sacerdote, che impartiva loro la benedizione».

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Lorenzo Puppini, ‘Ninç di  Stroç’ falegname a Cavazzo Carnico, e la Cooperativa ‘Alba Proletaria’.

Geremia racconta che Lorenzo Puppini, suo padre, era figlio unico di Maria Brunetti e di Giovanni Battista (Tita) Puppini. Maria Brunetti era sorella di Lucia, Caterina e Geremia, scalpellino e scultore, che aveva lavorato anche in Austria nel duomo di Santo Stefano a Vienna; a Cavazzo Carnico, alla costruzione della torre ai caduti, ed era autore di varie chiavi di volta dei portoni cavazzini. I Brunetti abitavano in un palazzo veneziano vicino alla posta, con i pavimenti in mosaico e con una nicchia con un bell’ affresco della Madonna all’entrata.

Geremia: «Mio nonno Tita e mia nonna, avevano avuto solo un figlio, Lorenzo, mio papà, e mia nonna stava discretamente bene, dal punto di vista economico, mentre mio nonno guadagnava sufficientemente per quei tempi facendo lo scalpellino. Così Lorenzo non aveva preso la via dell’estero, come tanti altri, ma invece si era recato ad Artegna, a fare l’apprendistato come scalpellino. Quindi si è recato a lavorare alla falegnameria ‘Sello ‘ di Udine, che costruiva mobili, quando già aveva appreso bene il disegno e l’uso dello scalpello, ed era già diventato un bravo intagliatore. Ad Udine viveva con altri lavoratori che venivano da fuori, in una specie di dormitorio comune messo a disposizione dalla ‘Sello’. Per mangiare si arrangiavano come potevano, e se ogni tanto giungeva un formaggio da casa ad uno od all’altro, lo mangiavano insieme, e vivevano come in una specie di comune, di comunità.

La sera mio padre frequentava una scuola professionale, e dopo un anno di integrazione lavoro- scuola, era passato alla frequenza regolare giornaliera, lavorando nelle ore di libertà, ed aveva ottenuto, alla fine del corso mi pare biennale, un diploma, un titolo di studio allora riconosciuto dal Regno d’Italia. Sono sicuro che aveva studiato letteratura italiana, contabilità, fisica, matematica e chimica, ma in particolare aveva fatto molto disegno ed ‘ornato’, dato che la scuola professionale seguita preparava a diventare falegnami ebanisti. E tuo nonno, Laura, era bravissimo in intaglio.

Quindi era stato arruolato per combattere nella prima guerra mondiale, ma dato che era un bravissimo intagliatore, era finito a Torino (alla Mirafiori ndr.)  a costruire modellini. Poteva fermarsi lì ma era ritornato a Cavazzo Carnico per sposare la sua Mariute.

Socialista ed anticlericale, alla fine della prima guerra mondiale, aveva, con altri: Benigno, Tita, Vittorio, fondato una Cooperativa di lavoro, una cooperativa rossa di falegnami. (Il nome della cooperativa, all’inizio degli anni ’20 e prima della dittatura era:‘Alba Proletaria’. Ndr.). Avevano acquistato i macchinari insieme, grazie pure ad un prestito della Cooperativa Carnica, del Consorzio tra le Cooperative Carniche di Lavoro, e si dividevano gli introiti, quando ne avevano. Ma all’inizio lavoravano bene. Poi quando Vittorio Cella ed altri sono andati in Francia alla caccia di nuovo lavoro, alcuni cooperative ed il Consorzio sono crollati a causa di certi giochi finanziari che hanno tolto i fondi, ma la Cooperativa cavazzina rossa di falegnami, è riuscita a rimanere in piedi.

Quando è venuto il fascismo, mio papà si è preso la responsabilità di portare avanti, con gli altri, la Cooperativa, e ce l’ha fatta, è riuscito a condurla sino alla Liberazione. Mio padre voleva che i conti fossero fatti in comune, ma per la falegnameria bisognava tenere una contabilità molto complessa, e tener conto del costo del legname e delle materie prime, di un tot che doveva esser accantonato per possibili guasti alle macchine e manutenzione, della corresponsione di un compenso minimo agli apprendisti che venivano ad imparare il mestiere. Ma poi ad un certo punto i soci erano diventati vecchi ed hanno lasciato la cooperativa, e sono rimasti a lavorare solo mio padre e Benigno, e si dividevano insieme quel po’ di utile che avevano dal loro lavoro, che non dava una entrata fissa e sicura, ma che derivava dall’utile del lavoro effettuato». 

Maria Adriana Plozzer, mia madre, mi ha raccontato che, ai tempi del fascismo, una ditta non cavazzina aveva proposto una grossa commessa alla Cooperativa di falegnami dove lavorava mio nonno, ma il maestro fascista O. B. a nome del Partito Nazionale Fascista, aveva obbligato detta ditta a rescindere il contratto ed a dirottare la commissione verso altri fascistissimi, mettendo in crisi la cooperativa.

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E qui termina il racconto di Anna e Geremia, registrato il 24 aprile 1978, che riporta sia queste informazioni che quelle pubblicate nell’articolo intitolato: Anna Squecco Plozzer, cavazzina, maestra tra Cleulis e Sauris, che si trova sempre su: www.nonsolocarnia.info.

Laura Matelda Puppini

(1) Nel mio: “Ipotesi e riflessioni dopo aver passeggiato a La Glesie /Leopoldskirchen, ed ascoltato studiosi locali”, in: www.nonsolocarnia.info, così scrivevo: «La devozione al Sacro cuore si sviluppò nel corso del 1600, prima ad opera di Giovanni Eudes, (1601-1680), poi per le rivelazioni private di Margherita Maria Alacoque, diffuse da Claude La Colombière (1641-1682) e dai suoi confratelli della Compagnia di Gesù. Il culto del Sacro Cuore dette anche origine, nel 1700, a diatribe non di poco conto, chiuse da Pio VI con la sua Auctorem fidei. Dopo la diffusione delle visioni di suor Margherita Maria, mistica francese, il mese di giugno venne dedicato al Sacro cuore di Gesù e prese piede la pratica dei primi nove venerdì del mese. Pare inoltre che la festa del Sacro Cuore sia stata istituita in Francia nel 1672, per poi diffondersi in particolare nell’arco alpino. All’ interno di questo culto, nel territorio del Tirolo storico, quindi anche in Trentino-Alto Adige, è da lungo tempo radicata la tradizione di accendere dei falò, i cosiddetti “Herz-Jesu-Feuer”, sulle principali cime montuose della regione, durante la notte della domenica della festa in onore del Sacro Cuore. (https://it.wikipedia.org/wiki/Sacro_Cuore_di_Gesù).A questa recente tradizione si potrebbero riportare i fuochi del mese di giugno in Friuli Venezia Giulia, in particolare nell’arco alpino, che nulla hanno a che fare con i fuochi epifanici ed al Dio Beleno. (Cfr. Laura Matelda Puppini. Antiche tradizioni friulane per l’anno nuovo, come narrate in: Il Cjavedâl, nel 1952, e da me commentate, in: www.nonsolocarnia.info). Ma forse poi, essendosi perso il contesto e significato originale di detti fuochi nel tempo, andò a finire che gli uni si confusero con gli altri».

(2)  Come è stato detto non tutti i prati erano provvisti di un ‘tabià’ per depositare il foraggio e perciò era necessario conservarlo nelle ‘méde’, mete, grandi cumuli di fieno. Per costruire una ‘méda’ era necessario avere abilità e conoscenze tecniche; una ‘méda’ costruita senza maestria poteva danneggiare inesorabilmente il raccolto di fieno che si guastava sotto l’azione della pioggia e della neve. Il cumulo veniva realizzato conficcando nel terreno un lungo e grosso palo; sul prato tutto intorno venivano disposti dei ‘perói’, sassi, che fissavano il palo e fungevano da base per il cumulo stesso. I sassi erano quindi coperti con le ‘legne da fién’, tavole di legno; la costruzione di un buon basamento era importante, poiché esso doveva tenere isolato il foraggio dall’umidità del terreno. Effettuate queste operazioni si iniziava a sistemare il fieno intorno al palo, l’operazione doveva essere eseguita da due persone, una sul prato che raccoglieva e depositava il fieno e l’altra sul cumulo che lo distribuiva e lo pressava ‘folàa\ folèa’. Per evitare che la pressione del fieno verso il centro, al momento di fermentare, portasse al rovesciamento del palo e quindi del mucchio, era necessario distribuire e pressare il fieno maggiormente all’esterno e meno al centro; era questa una regola fondamentale che ogni contadino doveva sapere e rispettare. Mano a mano che il cumulo cresceva la ‘méda’ si ristringeva leggermente fino ad assumere la forma di una ‘pera’. Giunti alla cima, questa era coperta con dei rami o con delle zolle di terreno infilate nel palo, l’acqua poteva così scorrere sulle pareti esterne del cumulo e non entrare e marcire l’interno. (“Il fieno e il lavoro della fienagione”, in: http://www.unionladina.it/sito/il-fieno-e-il-lavoro-della-fienagione). L’articolo riporta termini ladini cadorini, ma la costruzione delle mede è similare.

(3) La formula riporta al fatto che il ‘Minili’ non era fuoco epifanico, come qualcuno ha ipotizzato, ma fuoco acceso nel periodo di San Giovanni Battista e San Pietro e Paolo, cioè a fine giugno, e ricorda riti per la procreazione e l’accoppiamento, oltre che il sostizio d’estate.

L’immagine, di studio fotografico ignoto, che correda l’articolo, ritrae la famiglia di Lorenzo Puppini in un periodo antecedente la nascita del figlio Pio, forse nel 1930 o 1931, e ritrae, da sinistra a destra guardando: Carina Puppini, figlia, Lorenzo Puppini con alle spalle Maria Squecco, sua moglie e di lato Geremia Puppini, il primogenito. Stampa di proprietà di Laura e Marco Puppini, proveniente da Geremia Puppini. 

Laura Matelda Puppini

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