In Friuli, leggendo il Messaggero Veneto ma non solo, pare quasi si criminalizzi il paziente che assume antibiotici ed il medico che li prescrive, dimenticando che l’antibiotico anche cura, ed ottenendo magari, di disincentivare l’uso di farmaci salva-vita, e ci si nasconde l’uso ed abuso di antibiotici in ambito zootecnico, negli allevamenti, che ha concorso alla creazione dell’antibiotico resistenza. Vorrei pertanto informare i lettori su questo problema.

L’ uso di antibiotici negli allevamenti animali: un vero pericolo anche per la salute umana. 

L’ antibiotico-resistenza è un fenomeno naturale che è aumentato in misura drammatica per un uso eccessivo, improprio di antibiotici in ambito umano e zootecnico. (Dario Pasetti, Valutazione dell’uso di antibiotico in azienda: la realtà europea, Folgaria, 22 febbraio 2016, Vetneve, p.4).

Recenti studi sul genoma hanno confermato la trasmissione animale -uomo di geni responsabili dell’antibiotico resistenza. (Ivi, p.3, studio di riferimento Hallison ed altri 2013).

«Uno degli ultimi moniti risale a poche settimane fa e proviene dal Regno Unito: è necessario diminuire a livello mondiale l’uso eccessivo di antibiotici negli animali, soprattutto nel settore agricolo. E ciò anche a fronte della relazione che sembra esistere tra questa pratica e i fenomeni di antibioticoresistenza nell’uomo. A sottolinearlo è uno studio commissionato dal primo ministro britannico e condotto dal Review on Antimicrobial Resistance (Antimicrobials in agriculture and the environment: reducing unnecessary use and waste), che prende in esame l’utilizzo degli antimicrobici negli allevamenti e nei raccolti. Nelle colture, tuttavia, non si tratta di una priorità dato che la quantità usata è molto più bassa rispetto a quella utilizzata nel bestiame, con stime che vanno dallo 0,2% al 0,4% del consumo totale del comparto agricolo.

A preoccupare piuttosto è l’uso di questi farmaci negli animali da allevamento. Secondo i dati diffusi recentemente dalla Food and Drug Administration negli Stati Uniti le vendite interne e la distribuzione di antimicrobici autorizzati negli animali da produzione alimentare sono aumentati del 22% tra il 2009 e il 2014. Allargando l’orizzonte, la situazione sembra non essere più confortante. In uno studio pubblicato su Pnas Thomas P. Van Boeckel e il suo gruppo, pur usando cautela e ammettendo la scarsità di dati disponibili, stimano infatti che a livello mondiale tra il 2010 e il 2030 il consumo globale di antimicrobici aumenterà del 67%, passando da 63.151 (+/- 1560 tonnellate) a 105.596 tonnellate (+/- 3.605). Nel 2010 i cinque Paesi con il maggior consumo di antibiotici negli animali da produzione alimentare erano la Cina (23%), gli Stati Uniti (13%), il Brasile (9%), l’India (3%) e la Germania (3%). Secondo gli autori l’aumento è dovuto per i due terzi (66%) al numero sempre crescente di animali allevati per produzione alimentare e per un terzo (34%) alla graduale sostituzione, soprattutto negli Stati a medio reddito, degli attuali sistemi di allevamento con produzioni intensive su larga scala. Si suppone che in Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, l’aumento del consumo di antimicrobici sarà del 99%». (Monica Panetto, Antibiotici, il pericolo arriva dagli allevamenti, in: http://www.unipd.it/ilbo/antibiotici-pericolo-arriva-dagli-allevamenti).

«Esistono tuttavia importanti disomogeneità da Paese a Paese. “La vendita di antibiotici ad uso veterinario (incluso il suo utilizzo negli allevamenti Ndr) – precisa Marco Martini, docente del dipartimento di Medicina animale, produzioni e salute dell’università di Padova – è in calo in Europa, grazie alle politiche sanitarie adottate in diversi Paesi e alla responsabilizzazione degli operatori del settore”. (Va detto ad esempio che già nel 2006 l’Unione Europea ha bandito l’uso di antibiotici come promotori di crescita negli animali […]. (…). Dei 139 articoli scientifici condotti da università, sui 192 presi in esame, solo sette (il 5%) negano l’esistenza di un qualsiasi rapporto tra impiego di antibiotici negli animali e antibioticoresistenza nell’uomo, […].

Dato il calo delle vendite in Europa, però, perché la resistenza agli antibiotici continua a crescere? Martini spiega innanzitutto che oggi cominciano a esserci sistemi di sorveglianza, inesistenti fino a una decina di anni fa, che danno una dimensione più precisa del problema. E va considerato anche che una volta che il fenomeno è innescato è difficile da controllare e da ridurre in maniera immediata e radicale. Ciò perché i caratteri di antibioticoresistenza dei batteri si trasmettono sia per linee verticali, cioè dalla cellula madre mutata, sia per via orizzontale, quindi scambiando materiale genetico con altre cellule anche di specie batteriche diverse. (…)». (Ivi).

L’articolo poi, parla del problema dell’eliminazione dei batteri antibioticoresistenti che, da animali, con le deiezioni che inquinano l’ambiente, possono passare, attraverso frutta ed ortaggi, bagnati con acqua contaminata dalle stesse, all’uomo, oltre che attraverso il contatto diretto. Negli ultimi anni si è assistito alla presa di coscienza del problema e all’adozione di misure efficaci, ma «a fronte di Paesi come la Danimarca che ha drasticamente limitato i livelli di utilizzo di antibiotici in ambito zootecnico, ve ne sono altri in cui rimane ancora lavoro da fare. L’Italia ad esempio, dopo Cipro e la Spagna, rimane uno degli Stati in cui è maggiore l’uso di antibiotici in ambito veterinario. L’Europa, si legge nel rapporto britannico, dovrebbe ridurre l’uso di antibiotici di circa due terzi ancora, per 18 dei 26 Paesi dell’Unione di cui si possiedono i dati». (Ivi). Le vie suggerite dagli inglesi per arginare l’uso di antibiotici in zootecnia, passa attraverso la definizione delle quantità di farmaco da utilizzare, il miglioramento dei sistemi di gestione dei rifiuti che derivano dalla produzione di antimicrobici rilasciati nell’ambiente, e dei sistemi di sorveglianza, sempre secondo Monica Panetto. (Ivi).

Problemi generali ed analisi della situazione europea.

Così descrive Dario Pasetti la situazione europea.
Nella UE la sicurezza biologica gioca un ruolo importante nelle nuove strategie per la salute animale ed è uno degli elementi principali per prevenire malattie negli animali. (Pasetti, cit., p.6). Bassi livelli di salute e scarse misure di prevenzione portano ad un uso inappropriato dei farmaci in veterinaria, che possono a loro volta portare ad antibiotico resistenza.
Dai dati pubblicati sullo studio di Pasetti, che si rifanno ad una ricerca del 2014 dell’Agenzia Europea per i Medicinali ed a quanto rilevato nel 2011 da Silver per la Società Americana di Microbiologia, si evince che gli antibiotici usati per gli animali sono molteplici, i più utilizzati anche per l’uomo, e vanno dalle penicilline alle cefalosporine, dai fluorochinolonici ai macrolidi, dalle tetracicline ai sulfamidici, (Ivi, pp. 6 e 10).

AHS (Animal Humane Society) ha introdotto il nuovo concetto di responsabilità e differenti ruoli in detti processi: dei proprietari degli animali, dei custodi delle bestie e di chi opera la custodia, e la produzione di bestiame, e dei suoi prodotti.  (p. 7) Le proposte sono quelle di monitorare l’uso degli antibiotici negli animali, di cercare soluzioni alternative, di utilizzare vaccini, di far in modo che gli antibiotici vengano utilizzati solo se necessario.
Nel 2007 una buona quantità di antibiotici vennero usati, mescolati al cibo per maiali, polli e bovini, in particolare nei paesi bassi ed in Francia, meno in altri stati europei, con in coda Norvegia Svezia e Finlandia. Mancano però i dati sull’Italia. (p.9).
In Olanda, dal 2009 al 2011,  antibiotici somministrati misti al cibo sono stati utilizzati in  allevamenti di scrofe e maialini, maiali da ingrasso, animali da rosticceria, vitelli, mucche da latte.
La Norvegia utilizza meno antibiotici degli altri paesi europei nella produzione di animali da allevamento. (Pasetti, cit.p. 5).

A p. 10 del testo di Pasetti, si trova un grafico, riferito a dati del 2011, che indica anche per l’Italia la vendita di cibi animali contenenti antibiotici. Per la precisione sopra l’Italia si trova solo Cipro.

Gli antibiotici vengono utilizzati forse principalmente per i capezzoli delle mucche, ormai munte meccanicamente, (p.18), ma, per esempio in Olanda, una politica di monitoraggio e riduzione di antibiotici in zootecnia ha dato risultati positivi. (- 50%, ivi, p.31). E si utilizzano anche disincentivi economici per ottenere detti risultati. (p. 19). In Germania il recente Piano Farmaci, entrato in azione dal 1°Luglio 2015, prevede per gli allevatori l’obbligo di segnalare alle locali autorità sanitarie, ogni sei mesi, le quantità totali di antibiotici, incluso il tipo, la quantità, e quali animali sono stati trattati. Il nuovo regolamento si applica a tutte le specie animali ed ad ogni tipo di impianto zootecnico. Sono stati inoltre definiti degli indici d’uso per tipologia animale, e se verranno superati, l’allevatore dovrà rientrare nella norma prevista, in accordo con il veterinario. (p.23). Qualora quanto previsto non venga attuato, l’allevatore viene costretto a sostituire il mangime animale con antibiotici con quello privo, e se ancora non rientra nei quantitativi previsti, si passa alla riduzione del bestiame, fino a chiusura dell’allevamento.  (p.24).  Ma tutto questo si può fare in Germania. Ma in Italia si potrebbe davvero fare?

Anche l’Austria è intervenuta sull’uso di antibiotici per animali. Come si vede dalla tabella a p. 28 sempre del testo di Pasetti, anche in Austria vi è l’utilizzo di varie tipologie di farmaco battericida, sia senza diagnosi, che per le mammelle delle mucche, (picco notevole nell’uso), che per malattie varie, in particolare respiratorie e digestive, non meglio identificate. Ma pure nel Regno Unito molti antibiotici vengono utilizzati per le mucche da latte. (Ivi, p. 29). Infine pure gli Usa hanno prodotto un piano quinquennale di controllo dell’uso veteriario di battericidi.

Da quanto riporta sempre Pasetti, pare che la Norvegia riesca a limitare l’uso di antibiotici negli animali, in particolare nelle mucche da latte, grazie alla selezione del bestiame basata sull’utilizzo, su vasta scala, di test genetici, per definirne la resistenza naturale alle patologie. E ricordo che il bestiame si può selezionare, le persone no.  

 Germania ed Olanda si sono dati, per quanto riguarda il problema specifico, degli obiettivi, ma non è chiaro che stia facendo l’Italia, anche se esiste un Piano Qualità latte 2015- 2018.
«Viene prevista l’istituzione di un Fondo per gli investimenti nel settore lattiero caseario, attraverso il sostegno alla produzione con una dotazione finanziaria di 108 milioni di euro (8 milioni per il 2015, 50 milioni di euro all’anno per il 2016 e 2017). Gli obiettivi: incremento della longevità; miglioramento degli aspetti relativi al benessere animale; studio della resistenza genetica alle malattie; rafforzamento della sicurezza alimentare» (Ivi, p. 34), che fa di tutte le erbe un fascio, e che non si sa se sia stato applicato o meno e come, o almeno io non ho trovato dati nel merito. Ma siamo in Italia.

Comunque il C.R.A.B. (Centro di referenza nazionale per l’antibioticoresistenza) ha pubblicato le linee europee, datate 2010, per il monitoraggio dell’uso degli antibiotici nel settore veterinario in Italia, e si propone di «mantenere un sistema di monitoraggio sull’antibioticoresistenza in medicina veterinaria sul territorio italiano, in prospettiva di sorveglianza futura, di individuare l’emergenza e la diffusione di resistenze (e multiresistenze) di particolare rilevanza in determinate categorie di batteri di origine animale (patogeni animali, zoonosici ed indicatori), e di comunicare le informazioni attraverso reportistica a carattere nazionale ed internazionale e pubblicazioni peer-reviewed su riviste internazionali». (http://195.45.99.69/crab/).  Il problema è che pare, se ho ben capito leggendo, C.R.A.B non si occupi di disincentivare l’uso di antibiotici in zootecnia, ma solo di avvisare quando i buoi sono scappati dalla stalla.

Inoltre non si sa se in Italia si sia iniziata una vera e propria ricerca su metodi alternativi di lotta alle infezioni, (Cfr. Pasetti, cit., pp. 36-40) se non spaventando medici e pazienti, almeno a me così pare. Ma può essere, naturalmente, un mio limite informativo o di comprensione, e mi scuso subito per questo.

Sul problema dell’antibiotico resistenza in animali, è intervenuto anche Report, nella puntata del 30 maggio 2016, a cui fa riferimento Lorenzo Brenna nel suo “Report, batteri sempre più resistenti a causa degli allevamenti intensivi minacciano la nostra salute”, in: http://www.lifegate.it/persone/news/report-batteri-sempre-piu-resistenti-allevamenti-intensivi, che scrive: «Gli antibiotici, si potrebbe pensare, sono utilizzati in prevalenza dagli umani per curarsi, sbagliato, il 70 per cento degli antibiotici prodotti nel mondo viene infatti utilizzato negli allevamenti intensivi». (Ivi). «Gli animali vengono imbottiti di farmaci affinché sopravvivano alle raccapriccianti condizioni di vita degli allevamenti e possano arrivare in vita al macello (talvolta invece semplicemente per ingrassare gli animali e avere più carne da vendere». (Ivi). Le conseguenze sono la possibilità che l’uomo non riesca più a difendersi dai batteri. Ma mentre il nord Europa corre ai ripari, l’Italia pare più lontana dall’affrontare seriamente il problema dell’uso di farmaci in allevamenti.

In sintesi il problema dell’antibiotico – resistenza non sarà mai superato senza un approccio che veda un utilizzo motivato degli antibiotici in medicina, senza però che medici si sentano in colpa se la loro prescrizione è necessaria, e una drastica diminuzione per uso veterinario, magari selezionando il bestiame e facendolo vivere in condizioni migliori.  Senza voler offendere alcuno, ma solo per discutere in modo completo l’argomento.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: http://www.tuttogreen.it/peta-ci-racconta-cosa-succede-veramente-negli-allevamenti-con-il-documentario-meet-your-meat/. Laura Matelda Puppini

 

 

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