Cos’è il TTIP

«Se avete letto i giornali – italiani e internazionali – negli ultimi mesi, è probabile che vi siate imbattuti più di una volta nella sigla TTIP. Con questa sigla si intende il trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti: TTIP è un acronimo del nome in inglese, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”. È un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America: inizialmente veniva chiamato TAFTA […]. (…).

Qualche numero (riferito al 2015 n.d.r.).
Il trattato coinvolge i 50 stati degli Stati Uniti d’America e le 28 nazioni dell’Unione Europea, per un totale di circa 820 milioni di cittadini. La somma del PIL di Stati Uniti e Unione Europea corrisponde a circa il 45 per cento del PIL mondiale (i dati sono del Fondo Monetario Internazionale aggiornati al 2013). Si tratta dunque, non fosse altro che per il suo impatto globale potenziale, di un trattato di importanza storica.

A che punto sono i negoziati
Nel giugno del 2013 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l’allora presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, dopo più di dieci anni di preparazione, hanno avviato ufficialmente i negoziati sul TTIP; dovrebbero essere completati nel 2015. Il trattato dovrà poi essere votato dal Parlamento europeo, per quanto riguarda l’UE. A condurre i colloqui per conto dell’Unione Europea è la direzione generale commercio della Commissione europea – cioè uno dei “ministeri” in cui è suddivisa la Commissione – diretta finora dal belga Karel De Gucht e sostituito da Cecilia Mallström nella nuova commissione Juncker. Ci sono due negoziatori ufficiali tra le parti: per l’UE è Ignacio Garcia Bercero mentre Dan Mullaney è la sua controparte statunitense. (…). .

La questione della segretezza
Va subito detto che si tratta di negoziati segreti – lo sono ancora, in parte – accessibili solo ai gruppi di tecnici che se ne occupano, al governo degli Stati Uniti e alla Commissione europea. La questione della segretezza è stata e continua a essere uno dei maggiori punti di opposizione al trattato, denunciato da molte e diverse organizzazioni sia negli Stati Uniti che nei paesi dell’Unione Europea. Lo scorso 9 ottobre (2015) l’UE ha deciso di diffondere ufficialmente un documento di 18 pagine che contiene il suo mandato a negoziare (documento che però circolava online già da qualche mese). Oltre alle direttive della UE ai negoziatori, sono comunque trapelate nel corso del tempo varie bozze, ottenute e pubblicate da alcuni giornali, e che riguardano alcuni singoli contenuti dell’accordo: il settimanale tedesco Zeit ha messo online dei file che hanno a che fare con il settore dei servizi e dell’e-commerce, lo Huffington Post ha pubblicato dei file sull’energia, il Center for International Enrironmental Law, organizzazione statunitense, degli altri file che riguardano il settore chimico. Da tutti questi documenti messi insieme si possono ricavare una serie di informazioni importanti che danno, innanzitutto, la misura della complessità della questione.

Di cosa stiamo parlando
Nel documento diffuso dalla UE, che è comunque l’unico ufficiale, il TTIP viene definito «un accordo commerciale e per gli investimenti». L’obiettivo dichiarato dell’accordo (piuttosto generico) è «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali». L’accordo dovrebbe agire quindi in tre principali direzioni: aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, uniformare e semplificare le normative tra le due parti abbattendo le differenze non legate ai dazi (le cosiddette Non-Tariff Barriers, o NTB), migliorare le normative stesse. Il documento individua quindi tre principali aree di intervento: 1 – accesso al mercato – 2 – ostacoli non tariffari  – 3 – questioni normative.

1 – Accesso al mercato
L’accesso al mercato riguarda quattro settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici.

Si prevede l’eliminazione di tutti i dazi sugli scambi bilaterali di merci «con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell’entrata in vigore dell’accordo». Sono previste misure antidumping – cioè per evitare la vendita di un prodotto sul mercato estero a un prezzo inferiore rispetto a quello di vendita dello stesso prodotto sul mercato di origine – e misure di salvaguardia «che consentano ad una qualsiasi delle parti di rimuovere, in parte o integralmente, le preferenze se l’aumento delle importazioni di un prodotto proveniente dall’altra Parte arreca o minaccia di arrecare un grave pregiudizio alla sua industria nazionale». La liberalizzazione riguarda anche i servizi, «coprendo sostanzialmente tutti i settori»: si prevede anche di «assicurare un trattamento non meno favorevole per lo stabilimento sul loro territorio di società, consociate o filiali dell’altra parte di quello accordato alle proprie società, consociate o filiali». I servizi audiovisivi non sono inclusi. La liberalizzazione  riguarda anche gli appalti pubblici, per «rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale) e quello dei servizi pubblici, in modo da applicarsi alle attività pertinenti delle imprese operanti in tale campo e garantire un trattamento non meno favorevole di quello riconosciuto ai fornitori stabiliti in loco». Insomma aziende europee potranno partecipare a gare d’appalto statunitensi e viceversa.

C’è infine un capitolo sugli investimenti e la loro tutela: nel negoziato è previsto l’inserimento dell’arbitrato internazionale Stato-imprese (il cosiddetto ISDS, Investor-to-State Dispute Settlement). Si tratta di un meccanismo che consente agli investitori di citare in giudizio i governi presso corti arbitrali internazionali.

2 – Questioni normative e ostacoli non tariffari
L’obiettivo è «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione».

Le barriere non tariffarie sono misure adottate da un mercato per limitare la circolazione di merci e che non consistono nell’applicazione di tariffe: quindi non si parla di dazi. Sono limiti di altro tipo: limiti quantitativi, per esempio, come i contingentamenti (che consistono nel fissare quantitativi massimi di determinati beni che possono essere importati) o barriere tecniche e di standard (cioè di regolamento). Un esempio tra quelli più citati dai critici: negli Stati Uniti è permesso somministrare ai bovini sostanze ormonali, nell’UE è vietato e infatti la carne agli ormoni non ha accesso a causa di una barriera non tariffaria al mercato europeo.

3 – Norme
L’ultimo punto prevede un miglioramento della compatibilità normativa ponendo le basi per regole globali. È piuttosto generico, ma si dice che sono compresi i diritti di proprietà intellettuale. Si dice poi che vanno favoriti gli scambi «di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio», che vanno garantiti «controlli efficaci, misure antifrode», «disposizioni su antitrust, fusioni e aiuti di Stato». Si dice che l’accordo deve trattare la questione «dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi», e le questioni «dell’energia e delle materie prime connesse al commercio». L’accordo deve includere «disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese» e «deve contemplare disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti correnti e dei movimenti di capitali».

Chi è a favore dell’accordo
Diversi studi hanno concluso che l’accordo avrà benefici sia per gli Stati Uniti che per l’UE. Il Center for Economic Policy Research di Londra e l’Aspen Institute dicono per esempio che ci sarebbe un aumento del volume degli scambi e in particolare delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti (l’incremento sarebbe del 28 per cento, circa 187 miliardi di euro). I dazi tra Stati Uniti e UE sono in media piuttosto bassi, quasi la metà di quanto imposto verso gli altri paesi del mondo, anche se ci sono grandi differenze tra settori (la componentistica per automobili, per esempio, ha dazi all’8 per cento nell’UE). Sebbene in generale la loro media sia bassa, se i dazi vengono applicati su un grande volume possono diventare un ostacolo rilevante. Questo vale ancora di più visto che il processo produttivo è spezzato tra paesi diversi (componenti o fasi prodotti o realizzati in vari paesi): piccoli dazi applicati più volte possono avere dunque un impatto importante sul prezzo del bene finale.

Gli studi favorevoli al trattato hanno inoltre stimato che il PIL mondiale aumenterebbe (tra lo 0,5 e l’1 per cento pari a 119 miliardi di euro) e aumenterebbe anche quello dei singoli stati (si stimano 545 euro l’anno in più per ogni famiglia in Europa). Poiché ci sarebbe una maggiore concorrenza, si avrebbero anche benefici generali sull’innovazione e il miglioramento tecnologico. (…).

Chi critica l’accordo
Vari soggetti si oppongono all’accordo: si va dall’organizzazione internazionale Attac a una rete di associazioni (compresa Slow Food) di vari paesi europei e statunitensi, fino a studiosi ed economisti vari. Come abbiamo detto, una delle principali critiche ai negoziati è la loro segretezza e mancanza di trasparenza; e anche il fatto che ad aver condotto il principale e più citato studio sui benefici dell’accordo sia il Center for Economic Policy Research di Londra, che questi gruppi non considerano credibile perché finanziato anche da grandi banche internazionali. Questi gruppi sostengono che le cifre sull’impatto dell’accordo sono piuttosto ambiziose, che sarebbero previste solo per il 2027 e che comunque sono troppe le variabili non considerate per poter fare una stima affidabile.

Ci sono poi critiche più sostanziali, supportate da diversi altri studi, che sono state riassunte nel numero di giugno (2015 n.d.r.) Le Monde Diplomatique.

Lori Wallach, direttrice di Public Citizen – associazione con sede a Washington – ha spiegato in dieci punti i possibili rischi del trattato per gli Stati Uniti: farmaci meno affidabili, aumento della dipendenza dal petrolio, perdita di posti di lavoro per la scomparsa delle norme sulla preferenza nazionale in materia di forniture pubbliche, assoggettamento degli stati a un diritto fatto su misura per le multinazionali, e così via. La stessa operazione è stata fatta per l’UE da un rappresentante della CGT, la Confédération générale du travail, una confederazione sindacale francese. Il punto principale di entrambe le analisi è comunque che l’armonizzazione delle norme sarebbe fatta al ribasso, a vantaggio non dei consumatori ma delle grandi aziende. Nello specifico, queste sono le critiche più diffuse:

– I paesi dell’UE hanno adottato le normative dell’Organizzazione dell’ONU che si occupa di lavoro (l’ILO), gli Stati Uniti hanno ratificato solo due delle otto norme fondamentali. Quindi si rischierebbe di minacciare i diritti fondamentali dei lavoratori.

– L’eliminazione delle barriere che frenano i flussi di merci renderà più facile per le imprese scegliere dove localizzare la produzione in funzione dei costi, in particolare di quelli sociali.

– L’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non venisse più protetta dai dazi doganali, soprattutto se venisse dato il via libera alle colture OGM […].

– Il trattato avrebbe conseguenze negative anche per le piccole e medie imprese, e in generale per le imprese che non sono multinazionali e che con le multinazionali non potrebbero reggere la concorrenza.

– Ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione (l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi) mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento ed è accompagnata dalla garanzia di presa in carico delle conseguenze di eventuali problemi legati alla messa in circolazione del prodotto (possibilità di ricorso collettivo o class action, indennizzazione monetaria). Oltre alla questione degli OGM, questa critica viene sollevata relativamente all’uso di pesticidi, all’obbligo di etichettatura del cibo, all’uso del fracking per estrarre il gas e alla protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea offre tutele maggiori.

– I negoziati sono orientati alla privatizzazione dei servizi pubblici quindi secondo i critici si rischia la loro scomparsa progressiva. Sarebbe a rischio il welfare e settori come l’acqua, l’elettricità, l’educazione e la salute sarebbero esposti alla libera concorrenza.

– Le disposizioni a protezione della proprietà intellettuale e industriale attualmente oggetto di negoziati potrebbero minacciare la libertà di espressione su internet o privare gli autori della libertà di scelta in merito alla diffusione delle loro opere. (…).

Infine, le multinazionali
Una delle questioni più controverse riguarda la clausola ISDS, Investor-State Dispute Settlement. È molto contestata anche da parte di alcuni governi, innanzitutto quello tedesco. Prevede la possibilità per gli investitori di ricorrere a tribunali terzi in caso di violazione, da parte dello Stato destinatario dell’investimento estero, delle norme di diritto internazionale in materia di investimenti. Ci sono già molti casi a riguardo: nel 2012 il gruppo Veolia ha fatto causa all’Egitto al Centro internazionale per la risoluzione delle controversie relative agli investimenti della Banca Mondiale perché la nuova legge sul lavoro del governo contravveniva agli impegni presi in un accordo (firmato) per lo smaltimento dei rifiuti; nel 2010 e nel 2011 Philip Morris ha utilizzato questo meccanismo contro l’Uruguay e l’Australia e le loro campagne anti-fumo; nel 2009 il gruppo svedese Vattenfall ha citato in giudizio il governo tedesco chiedendo 1,4 miliardi di euro contro la decisione di abbandonare l’energia nucleare.

Le aziende, dice chi critica la clausola, potrebbero insomma opporsi alle politiche sanitarie, ambientali, di regolamentazione della finanza o altro attivate nei singoli paesi reclamando interessi davanti a tribunali terzi, qualora la legislazione di quei singoli paesi riducesse la loro azione e i loro futuri profitti. Scrive Lori Wallach: «Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa?». (http://www.ilpost.it/2014/11/06/ttip-2/).

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LA POSIZIONE DEL MOVIMENTO NO TTIP ITALIA.

«L’idea (del TTIP) sembrerebbe buona. Perché qualcuno lo definisce “pericoloso”?
Condividiamo la definizione perché, in realtà questo trattato, che viene negoziato in segreto tra Commissione UE e Governo USA, vuole costruire un blocco geopolitico offensivo nei confronti di Paesi emergenti come Cina, India e Brasile creando un mercato interno tra noi e gli Stati Uniti le cui regole, caratteristiche e priorità non verranno più determinate dai nostri Governi e sistemi democratici, ma modellate da organismi tecnici sovranazionali sulle esigenze dei grandi gruppi transnazionali.

I soliti “tecnici” che “rubano” il potere alla politica.
Infatti. Il Trattato prevede l’introduzione di due organismi tecnici potenzialmente molto potenti e fuori da ogni controllo da parte degli Stati e quindi dei cittadini. Il primo, un meccanismo di protezione degli investimenti (Investor-State Dispute Settlement – ISDS), consentirebbe alle imprese italiane o USA di citare gli opposti governi qualora democraticamente introducessero normative, anche importanti per i propri cittadini, che ledessero i loro interessi passati, presenti e futuri.

Le aziende citerebbero gli Stati in tribunale.
Non solo; le vertenze non verrebbero giudicate da tribunali ordinari che ragionano in virtù di tutta la normativa vigente, come è già possibile oggi, ma da un consesso riservato di avvocati commerciali superspecializzati che giudicherebbero solo sulla base del trattato stesso se uno Stato – magari introducendo una regola a salvaguardia del clima, o della salute – sta creando un danno a un’impresa. Se venisse trovato colpevole, quello stato o comune, o regione, potrebbe essere costretto a ritirare il provvedimento o ad indennizzare l’impresa. Pensiamo ad un caso come quello dell’Ilva a Taranto, o della diossina a Seveso, e l’ingiustizia è servita.

Una giustizia “privatizzata”, insomma.
Non è l’unica questione. Un altro organismo di cui viene prevista l’introduzione è il Regulatory Cooperation Council: un organo dove esperti nominati della Commissione UE e del ministero USA competente valuterebbero l’impatto commerciale di ogni marchio, regola, etichetta, ma anche contratto di lavoro o standard di sicurezza operativi a livello nazionale, federale o europeo. A sua discrezione sarebbero ascoltati imprese, sindacati e società civile. A sua discrezione sarebbe valutato il rapporto costi/benefici di ogni misura e il livello di conciliazione e uniformità tra USA e UE da raggiungere, e quindi la loro effettiva introduzione o mantenimento. Un’assurdità antidemocratica che va bloccata, a mio avviso, il prima possibile.

Per chi è allora vantaggioso il TTIP?
Il ministero per lo Sviluppo economico ha commissionato a Prometeia s.p.a. una prima valutazione d’impatto mirata all’Italia, alla base di molte notizie di stampa e interrogazioni parlamentari. Scorrendo dati e previsioni apprendiamo che i primi benefici delle liberalizzazioni si manifesterebbero nell’arco di tre anni dall’entrata in vigore dell’accordo: il 2018, al più presto. Il TTIP porterebbe, entro i tre anni considerati, da un guadagno pari a zero in uno scenario cauto, ad uno +0,5% di PIL in uno scenario ottimistico: 5,6 miliardi di euro e 30mila posti di lavoro grazie a un +5% dell’export per il sistema moda, la meccanica per trasporti, un po’ meno da cibi e bevande e da uno scarso +2% per prodotti petroliferi, prodotti per costruzioni, beni di consumo e agricoltura. L’Organizzazione mondiale del Commercio ci dice che le imprese italiane che esportano sono oltre 210mila, ma è la top ten che si porta a casa il 72% delle esportazioni nazionali (ICE – Sintesi Rapporto 2012-2013: “L’Italia nell’economia internazionale”). Secondo l’ICE, in tutto nel 2012 le esportazioni di beni e servizi dell’Italia sono cresciute in volume del 2,3%, leggermente al di sotto del commercio mondiale. La loro incidenza sul PIL ha sfiorato il 30% in virtù dell’austerity e della crisi dei consumi che hanno depresso il prodotto interno. L’Italia è dunque riuscita a rosicchiare spazi di mercato internazionale contenendo i propri prezzi, senza generare domanda interna né nuova occupazione. Quindi prima di chiudere i conti potremmo trovarci invasi da prodotti USA a prezzi stracciati che porterebbero danni all’economia diffusa, e soprattutto all’occupazione, molto più ingenti di questi presunti guadagni per i soliti noti. Danni potenziali che né la ricerca condotta da Prometeia né il nostro Governo al momento hanno quantificato o tenuto in considerazione.

È vero che, nonostante l’enorme importanza della questione, il Parlamento europeo non abbia accesso a tutte le informazioni sul modo in cui si svolgono gli incontri e sullo stato di avanzamento delle trattative?
Il Parlamento europeo, dopo aver votato nel 2013 il mandato a negoziare esclusivo alla Commissione – come richiede il Trattato di Lisbona – potrà soltanto porre dei quesiti circostanziati, cui la Commissione può rispondere ma nel rispetto della riservatezza obbligatoria in tutti i negoziati commerciali bilaterali, sempre secondo il Trattato, e poi avrà diritto di voto finale “prendi o lascia”, quando il negoziato sarà completato. Nel frattempo non ha diritto né di accesso né di intervento sul testo. I Governi stessi dell’Unione, se vorranno avere visione delle proposte USA, dovranno – a quanto sembra al momento – accedere a sale di sola lettura approntate nelle ambasciate USA (non si capisce se in quelle di tutti gli Stati UE o solo a Bruxelles, e non potranno nemmeno prendere appunti o farne copia. Un assurdo, considerata la tecnicità e complessità dei testi negoziali.

Quali effetti potrà produrre l’accordo se verrà approvato nella sua forma attuale?
Tutti i settori di produzione e consumo come cibo, farmaci, energia, chimica, ma anche i nostri diritti connessi all’accesso a servizi essenziali di alto valore commerciale come la scuola, la sanità, l’acqua, previdenza e pensioni, sarebbero tutti esposti a ulteriori privatizzazioni e alla potenziale acquisizione da parte delle imprese e dei gruppi economico-finanziari più attrezzati, e dunque più competitivi. Senza pensare che misure protettive, come i contratti di lavoro, misure di salvaguardia o protezione sociale o ambientale, potrebbero essere spazzati via a patto di affidarsi allo studio legale giusto e ben accreditato.

Il TTIP produrrà dei rischi per i cittadini?
Tom Jenkins della Confederazione sindacale europea (ETUC), nell’incontro con la Commissione del 14 gennaio scorso, ha ricordato che gli Stati Uniti non hanno ratificato diverse convenzioni e impegni internazionali ILO e ONU in materia di diritti del lavoro, diritti umani e ambiente. Questo rende, ad esempio, il loro costo del lavoro più basso e il comportamento delle imprese nazionali più disinvolto e competitivo, in termini puramente economici, anche se più irresponsabile. A sorvegliare gli impatti ambientali e sociali del TTIP, ha rassicurato la Commissione, come nei più recenti accordi di liberalizzazione siglati dall’UE, ci sarà un apposito capitolo dedicato allo Sviluppo sostenibile che metterà in piedi un meccanismo di monitoraggio specifico, partecipato da sindacati e società civile d’ambo le regioni.

È il primo caso del genere? O c’è qualche “antenato”?
Un meccanismo simile è entrato in vigore da meno di un anno tra UE e Korea, con la quale l’Europa ha sottoscritto un trattato di liberalizzazione commerciale molto simile anche strutturalmente al TTIP, facendo finta di non ricordare che come gli USA la Korea si è sottratta a gran parte delle convenzioni ILO e ONU. Imprese, sindacati e ONG che fanno parte dell’analogo organo creato per monitorare la sostenibilità sociale e ambientale del trattato UE-Korea, hanno protestato con la Commissione affinché avvii una procedura di infrazione contro la Korea per comportamento antisindacale, e ancora aspettano una risposta (http://goo.gl/82OLmh). Perché dovremmo pensare che gli USA, molto più potenti e contrattualmente forti si dovrebbero piegare alle nostre esigenze, considerando che sono tra i pochi Paesi che non si sono mai piegati a impegni obbligatori a salvaguardia della salute, o dell’ambiente come il Protocollo di Kyoto appena archiviato anche grazie alla loro ferma opposizione?

Il TTIP può produrre danni per la salute?
Faccio un solo esempio, basato sulla storia. Nel 1988 l’UE ha vietato l’importazione di carni bovine trattate con certi ormoni della crescita cancerogeni. Per questo è stata obbligata a pagare a USA e Canada dal Tribunale delle dispute dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) oltre 250 milioni di dollari l’anno di sanzioni commerciali nonostante le evidenze scientifiche e le tante vittime. Solo nel 2013 la ritorsione è finita quando l’Europa si è impegnata ad acquistare dai due concorrenti carne di alta qualità fino a 48.200 tonnellate l’anno, alla faccia del libero commercio. Sarà una coincidenza, ma in un documento congiunto dell’ottobre 2012 BusinessEurope e US Chamber of Commerce, le due più potenti lobby d’impresa delle due sponde dell’oceano, avevano chiesto ai propri Governi proprio di avviare una “cooperazione sui meccanismi di regolazione”, che consentisse alle imprese di contribuire alla loro stessa stesura (http://goo.gl/HlqhTc).

Esistono alternative al TTIP? A cosa potrebbero aspirare i cittadini del mondo afflitti dall’attuale crisi economica?
Da molti anni non solo movimenti, associazioni, reti sindacali ma anche istituzioni internazionali come FAO e UNCTAD, le agenzie ONU che lavorano su Agricoltura, Commercio e Sviluppo, richiamano l’attenzione sul fatto che rafforzare i mercati locali, con programmazioni territoriali regionali e locali più attente basate su quanto ci resta delle risorse essenziali alla vita e quanti bisogni essenziali dobbiamo soddisfare per far vivere dignitosamente più abitanti della terra possibili, potrebbe aiutarci ad uscire dalla crisi economica, ambientale, ma soprattutto sociale che stiamo vivendo, prevedibilmente, da tanti anni. Stiamo facendo finta di niente, continuando a percorrere strade, come quella della iperliberalizzazione forzata stile TTIP, che fanno male non solo al pianeta e alle comunità umane, ma allo stesso commercio che è in contrazione dal 2009 e non si sta più espandendo. Da quando la piena occupazione europea e statunitense, che con redditi veri e capienti sosteneva produzione e consumi globali, sono diventate un miraggio, anche la crescita dei popolatissimi Paesi emergenti, che hanno fatto la propria fortuna grazie alla commercializzazione del loro capitale ambientale e umano a prezzi stracciati e ad alti costi ambientali e sociali, non è riuscita più a sostenere il paradigma della crescita infinita che si è rivelato per quello che era: falso e insensato. I poveri, che crescono a vista d’occhio e devono lavorare oltre le 10 ore al giorno per un pugno di spiccioli, consumano prodotti poveri e sempre meno; i ricchi, che sono sempre più ricchi ma anche sempre meno, consumano tanto e malissimo, e non creano benessere diffuso. Abbiamo la grande opportunità di voltare pagina, e di tentare di dare a questo pianeta ancora un po’ di futuro, rimettendo al centro della politica i beni comuni e i diritti. Col TTIP, al contrario, ci chiuderemo le poche finestre di possibilità ancora aperte. Con la Campagna Stop TTIP, che raccoglie solo in Italia oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, cittadini e comunità, vogliamo fermare questa deriva e diffondere tutte le alternative possibili e più efficaci delle vecchie ricette fallimentari che continuiamo a subire». (https://stop-ttip-italia.net/cose-il-ttip/-)

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ED ANCHE  GREENPEACE SCRIVE CHE …

«Questa trattativa, (il TTIP) con la scusa di un’armonizzazione delle normative sul libero commercio, antepone il mercato e gli interessi privati a quelli della collettività e apre ad una riduzione degli standard sociali e ambientali. Le trattative sul TTIP si sono svolte finora a porte chiuse: Parlamenti nazionali e cittadini non sono adeguatamente informati su normative che potrebbero invece incidere sui loro diritti. Sono a rischio le norme europee su OGM, sull’uso di pesticidi ed etichettatura dei prodotti.

Rischi per l’Agricoltura. Il TTIP può «Aprire le porte ai prodotti dell’agricoltura industriale americana vorrebbe dire mettere in ginocchio agricoltura sostenibile e piccoli coltivatori». Potrebbero venir alterati gli standard per Energia e clima «Gli standard previsti dalla normativa europea nel settore energetico sono di intralcio al libero mercato: ad esempio, potrebbero essere abbattuti i limiti sulle tecniche di fracking o facilitare l’esportazione di petrolio da sabbie bituminose». Non vale più il principio di precauzione nell’uso di sostanze chimiche. Negli Stati Uniti il principio di precauzione non vale: le sostanze chimiche sono considerate sicure fino a prova contraria, esattamente l’opposto di quanto accade in Europa. I nostri standard potrebbero essere fortemente indeboliti. Inoltre verrebbero scavalcati Parlamento e Democrazia. Il Consiglio per la Cooperazione Regolativa (RCC) è l’organismo chiamato a fissare gli standard transatlantici di libero scambio, scavalcando di fatto i Parlamenti e sottraendo al controllo democratico decisioni fondamentali per i cittadini. L’Investor-State Dispute Settlement (ISDS) è l’organo di arbitrato internazionale, costituito da arbitri scelti con metodi extragiudiziali, chiamato a decidere sulle controversie fra investitori privati e Paesi aderenti: le multinazionali potrebbero accusare gli Stati di intralciare il libero mercato e i cittadini rischierebbero di dover pagare di tasca propria!

Sacrificare i diritti dei cittadini e la tutela dell’ambiente in nome del libero mercato vuol dire privatizzare i profitti e scaricare tutti i rischi sulla collettività». (http://www.greenpeace.org/italy/it/Cosa-puoi-fare-tu/partecipa/stop-ttip/).

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A CHE PUNTO SIAMO? USA E UE VOGLIONO CONCLUDERE SUBITO. E NOI CITTADINI PROPRIO NO. 

Ttip: Bercero, Ue ed Usa vogliono chiudere accordo entro l’anno

«MILANO (MF-DJ)–Diverse proposte sono state avanzate nell’ambito dei negoziati per l’accordo di libero scambio tra Ue e Usa, il cosiddetto Ttip, segno che è intenzione di entrambe le parti rispettare gli impegni presi e raggiungere così un’intesa entro l’anno. È quanto affermato da Ignacio Garcia Bercero, capo negoziatore europeo, e da Daniel Mullaney, capo della delegazione statunitense nel corso di una conferenza stampa tenutasi al termine del quattordicesimo round negoziale. Nel dettaglio, Bercero ha elencato le tre macro aree sulle quali le parti hanno concentrato le discussioni, ovvero i problemi legati all’accesso al mercato, la necessità di garantire una certa collaborazione sulle questioni normative insieme all’elaborazione di regole commerciali valide a livello globale. I progressi fatti su alcuni fronti sono stati limitati, ha ammesso ancora una volta il negoziatore, il quale, tuttavia, si è detto fiducioso circa l’efficacia delle proposte. Secondo il funzionario, il Ttip spingerà sia l’Unione europea che gli Usa a lavorare ulteriormente per garantire l’implementazione di misure volte a promuovere uno sviluppo sostenibile. Certamente, ha sottolineato Bercero, “è necessario un impegno politico costante. Continueremo a discutere nel corso dell’estate”, specialmente riguardo al problema normativo. In questo senso, ha ribadito il negoziatore europeo, l’Ue “si è impegnata a concludere le negoziazioni” nel rispetto degli impegni già assunti. Dal canto suo, Mullaney è apparso più deciso. Secondo il negoziatore Usa, un accordo di libero scambio è “raggiungibile” entro il 2016 ed è questo “l’obiettivo” che la parte americana intende conseguire. Infine, Mullaney ha riferito che, nel corso delle negoziazioni, le parti hanno menzionato il problema della Brexit, evento che, a detta del funzionario, viene preso seriamente in considerazione non solo dall’Ue ma anche dagli Usa. “Continueremo ad analizzare l’impatto” del referendum e a monitorare la situazione nel prossimo futuro, ha aggiunto. Gli obiettivi che devono essere raggiunti in primis sono quelli che riguardano il settore dei servizi, ha spiegato Mullaney, e da questo punto di vista, il ruolo del Regno Unito è fondamentale, essendo uno dei mercati dei servizi più grandi esistenti al mondo». (ww.milanofinanza.it/news/ttip-bercero-ue-ed-usa-vogliono-chiudere-accordo-entro-l-anno-201607151724001115. Sull’argomento cfr. anche: Ue-Usa non mollano presa, chiudere Ttip entro fine 2016, 15 luglio 2016,  http://www.swissinfo.ch/ita/ue-usa-non-mollano-presa–chiudere-ttip-entro-fine-2016/42302140).

QUALE FUTURO CI ATTENDE? A QUESTO È SERVITO ENTRARE NELLA U.E, A PERDERE DIRITTI, LIBERTÀ E DEMOCRAZIA ED A DIVENTARE POVERI E SCHIAVI DEI POTENTI? E CHE NE PENSA IL PD AL GOVERNO? FORSE DOVREMMO CAPIRLO DA COME AGISCE?

Tutti coloro che hanno a cuore l’Italia ed il futuro dei nostri bambini, e la cosiddetta sinistra democratica che applaude a questo governo dei suoi ed a quel malefico incastro fra modifica alla costituzione e italicum che porta dritto dritto a ben foschi scenari da partito solo al comando, (come ben dimostrato dall’avv. Adriano Virgilio del Pd), e non si sa quanto a sua volta, in un futuro, “comandabile”, devono sapere che nella realtà se si sposa un sistema accentrato, di libero scambio senza regole nazionali, basato sul TTIP, con precarizzazione e schiavizzazione del lavoro e stati fantoccio in mano alla grossa finanza, padrona di acqua terra e cibo, aspetti a livello ideologico non certo auspicati dalla sinistra, non si può poi pensare al turismo locale, all’agricoltura locale, alla tutela dell’ ambiente, ecc. alla democrazia e parlare di diritti dei cittadini, perché un sistema implica la distruzione dell’altro.

Renzi  e l’attuale governo italiano hanno già scelto da che parte stare, nel qual caso vadano a casa che per noi cittadini è meglio,  ed anche la Gran Bretagna con il referendum, ma in senso opposto? Ho capito bene? E l’Europa butta a mare i suoi cittadini?

Senza offesa per alcuno, e se erro correggetemi, ma per parlare del futuro. Ho riportato più articoli anche simili, per far capire la complessità della posta in gioco, che spaventa.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso,  da: http://www.wilditaly.net/che-cose-il-ttip-favorisce-gli-stati-o-le-multinazionali-23986/. Laura Matelda Puppini 

 

 

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