Il 12 giugno 2018 … a Tolmezzo parla Paola Del Din.

Il 12 giugno, in via del tutto eccezionale, sono andata ad ascoltare un incontro del maggio letterario a Tolmezzo, perché parlava Paola Del Din ed ero curiosa di sentire il suo racconto, cosa voleva dirci anche rispetto al libretto di Andrea Romoli: “Il diritto di parlare”, ed. Gaspari, che riporta una intervista da lei concessa e non si sa perchè così intitolato, dato che non consta che qualcuno abbia mai chiuso la bocca a Paola Del Din. Ho acquistato alla fine dell’incontro il volumetto, che ho letto velocemente. Esso è diviso in due parti: la prima che racconta l’esperienza partigiana della Del Din, la seconda, che è pure narrazione di un modo di vedere le cose, senza però fonti che si possano dire tali, e su quest’ ultima mi riservo di scrivere in forma più  argomentata e documentata, segnalando subito però quanto riportato su: Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Einaudi ed., che parla anche del ruolo svolto nel dopoguerra da Prospero Del Din, fondatore del Movimento Tricolore,  cofondatore dell’Organizzazione Fratelli d’Italia e della ‘nuova Osoppo’, (Cfr. in Giacomo Pacini, op. cit., La seconda resistenza degli osovani, pp. 104-135) creata nel febbraio del 1946 dopo il placet statunitense già in un clima di guerra fredda (Giacomo Pacini, op. cit., p. 114) denominata poi 3 Cvl  e trasformatasi in Organizzazione ‘O’, sciolta il 4 ottobre 1956, (Giacomo Pacini, op. cit., p. 115) e dalle cui ceneri nacque ‘Gladio’, (Ivi, pp. 61-63, 72, 85, 99 nota 14, 114, 115, 116, 120, 121, 125, 130,131, 134 nota 38), e su: Ferdinando Imposimato, La repubblica delle stragi impunite, Newton Compton ed., relativamente al ruolo svolto in Italia nel secondo dopoguerra dalla organizzazione Stay Behind ‘Gladio’, nella cosiddetta strategia della tensione, tra servizi segreti nostrani, europei ed americani, (Ferdinando Imposimato, op. cit.) tanto che nel 1977 i servizi segreti italiani vennero riformati e si formarono il Sisde ed il Sismi. (Giacomo Pacini, op. cit., p. 257).

Il terzo Corpo Volontari della Libertà (3 Cvl), che inizialmente contava circa 4.000 aderenti, venne creato, oltre che da Prospero Del Din, dal colonnello Luigi Olivieri, con la collaborazione del colonnello Aldo Specogna (Ivi, p. 117), ed avrebbe dovuto essere inserito nell’esercito regolare, secondo gli intendimenti dei fondatori, per arginare possibili avanzate da est. Esso pare diffondesse pure notizie false e tendenziose, come quella di un ammassarsi di truppe partigiane jugoslave ai confini nell’aprile 1948, a due passi dalle elezioni politiche. (Ivi, p. 114).

Inoltre la ‘nuova Osoppo’ si diede da fare per schedare centinaia di cittadini friulani sospettati di simpatie ‘titine’, come ammesso pure da don Aldo Moretti, svolgendo anche compiti di supplenza dei servizi segreti, e persino sacerdoti di paesi slavofoni vennero accusati di avere simpatie slovene, e ne si consigliava il trasferimento (Ivi, p. 119). Tra questi era finito anche un don Cracina, «che in un’informativa dell’agosto 1946, era definito “sacerdote che dimentica di essere ministro di Dio e fa propaganda slovena parlando pure in sloveno”». (Ibid.). Leggendo queste parole pare che nel dopoguerra si volesse ritornare al passato.

Infine dopo qualche variazione nel nome, il 3 Cvl divenne l’Organizzazione ‘O’, ove già nel 1957 si ipotizzava fossero inseriti elementi neofascisti e della X Mas. (Ivi, pp. 126-127, p. 131). L’obiettivo dichiarato era la difesa del confine e l’opporsi ad una possibile prevalenza comunista in Italia, nel clima internazionale di guerra fredda e di contrapposizione fra Nato da una parte e Urss, poi dal 1955, anche stati del patto di Varsavia, dall’altra.

E credo che pure il Vaticano abbia giocato un ruolo fondamentale nel muovere pedine, ma per la chiesa cattolica vigeva il merito di andare alla Santa Messa più di altri. Il chierico Paolo Roscio di Pont Canavese, dopo aver visto di cosa era capace la Xa Mas, commenta però: «Prima i militari della Decima venivano a messa in San Costanzo, poi dopo assistettero alla celebrazione fatta in piazza Craveri o alla stazione dai loro cappellani: esigevano un grande apparato, sovente suonava la fanfara, ma, in questo apprezzamento per la loro fede, sono degni di lode». (Ricciotti Lazzero, La Decima Mas. Compagnia di Ventura del Principe Nero, Rizzoli, Milano, 1984, p. 109). Per questo marò della Decima e repubblichini dovevano essere ‘salvati’ anche nella memoria, secondo la chiesa, anche se poi ne fecero di ogni colore, torturarono, uccisero anche preti e cattolici inermi, bruciarono paesi, seminarono il terrore, perché erano praticanti, a differenza di socialisti e comunisti, atei e condannati agli inferi. Ma la chiave di lettura del passato data dal Vaticano e dalle gerarchie ecclesiastiche, come il desiderio di omologare tutti in una grande ‘ pacificazione’ non possono appartenere allo storico. Infine vi era anche chi, cacciati i tedeschi, voleva un ripristino del fascismo attraverso l’R.S.I. o un governo che garantisse antichi privilegi. E durante l’incontro Paola Del Din ha sottolineato come anche in Italia ci fossero state persone che non desideravano grossi cambiamenti rispetto al fascismo, basti pensare a Giorgio Almirante ed al suo M.S.I.!  

È importante però precisare subito che Imposimato afferma di essere convinto «dell’assoluta buona fede e del coraggio, oltre che della lealtà istituzionale di molti cosiddetti gladiatori […] usati a loro insaputa per operazioni illecite» (Ferdinando Imposimato, op. cit., p. 17). Non da ultimo, si sente parlare, dai pochi che ne parlano, della Formazione Osoppo in armi nel secondo dopoguerra per combattere una ventilata invasione da parte slava, ipotizzata nel contesto di allora, alle dipendenze di servizi americani e italiani, ma non tutti gli osovani aderirono ad organizzazioni segrete post-belliche, anzi io credo che moltissimi non lo fecero e forse non sapevano neppure della loro esistenza. E certamente alla luce di quanto riportato nei due volumi sopraccitati di Imposimato e Pacini, e nella documentazione prodotta a supporto, oggi possiamo dire che ‘Gladio’ fu «un soggetto occulto […] evocato spesso a sproposito, e ancor più frequentemente ignorato nei dibattiti degli storici» che ha inciso sulla democrazia italiana al fine, pure, di «introdurre una Repubblica presidenziale, con il rischio […] di aprire le porte a regimi tirannici» (Ivi, pp. 330 – 331), senza più alternanza nei governi, e che ‘Gladio’ non possa essere elogiato, come invece fece Paola Del Din il 25 aprile 2005, pubblicamente, prendendosi i fischi di Rifondazione Comunista. (Giacomo Pacini, op. cit., p. 100 nota 19). E non si sa su che base, subito dopo, la Del Din possa aver dichiarato alla stampa che ‘Gladio’ era «struttura legittima del governo italiano», precisando che ne era socia onoraria per affinità. (Paola Del Din: quello che ho fatto era per la libertà della mia Patria, in Messaggero Veneto, 1 maggio 2005). Inoltre a me non pare molto corretto dichiarare sui suoi contestatori: «evidentemente i ‘nostri” non sono ancora riusciti a istruirsi a causa delle loro menti impregnate di una ideologia di sopraffazione e di violenza», quando non credo che l’’altra Osoppo’ praticasse il pacifismo, o la non politica. E mi pare che in questo caso avrebbe potuto portare documenti se credeva in ciò che diceva, invece che denigrare il prossimo. D’altro canto non credo serva molto fischiare, ben di più discutere dei fatti, documentazione alla mano per quanto possibile, anche se per qualcuno è più facile avere strumenti per esprimere le proprie idee per altri meno.

Se poi Paola fosse stata influenzata, in alcune sue posizioni e scelte dal padre, non è dato sapere, ma da quanto narrato a Tolmezzo sembra di sì. Una figlia ascolta il padre, mi pare abbia detto. Ma non si può dimenticare pure che Paola Del Din, da quanto si legge, nel secondo dopoguerra, dopo alcuni anni di insegnamento, vinse una borsa di studio ed emigrò negli Stati Uniti, all’Università di Pennsylvania, forse in periodo di maccartismo, ritornando poi in Italia. E non si può dimenticare che la Del Din fu la prima donna paracadutista italiana, ed è della ‘Folgore’. Anche questi ambienti potrebbero avere formato il suo pensiero e la sua azione.

Appare poi interessante quanto si narrava in Carnia se incrociato con quanto scritto relativamente a Prospero Del Din come organizzatore di gruppi armati nel dopoguerra (Giacomo Pancini, op. cit., pagine già citate). Infatti sia G. M., che voci circolanti negli anni ’70, davano Prospero Del Din come colui che soprintendeva alla consegna delle armi da parte dei partigiani, in sintesi al loro disarmo, subito dopo la Liberazione, e pretendeva che tale compito venisse eseguito rigorosamente. Ma poi quelle armi dove finirono?  Non lo so, e me lo chiedo.

Ieri Paola/Renata ha spiegato la sua vita da partigiana e di collaboratrice con il SOE, in modo divertente e colloquiale, non entrando nel merito dell’ultima parte dell’intervista, quella relativa al secondo dopoguerra, da lei vissuto come il tempo di una seconda lotta, dove, a mio avviso, si definì un nemico, una azione ipotetica, già a fine guerra quando non esisteva ancora il patto di Varsavia, senza prove reali di tutto ciò, che rovinò la vita di molte persone che sognavano in Italia un mondo nuovo e più giusto, e che per poco non ci fece cadere in un nuovo fascismo ed in una nuova dittatura, anche se sono sicura che Paola non volesse questo.

Il legame tra democrazia e cultura.

Introducendo l’argomento la Del Din ha parlato del legame tra democrazia e cultura, dell’importanza dello studio, dell’imparare, dell’apprendere per poter ‘andare a testa alta’ fra gli altri, del dovere di formare il carattere dei giovani, non dando loro tutto. «Parole importanti – penso fra me e me – tutte condivisibili, su cui si dovrebbe riflettere mentre sotto i nostri occhi si presentano giovani che si dissolvano nella droga, (Cfr. MillenniuM, n. 10, “Siamo tutti drogati”, rivista mensile di: Il Fatto Quotidiano), navigano nel nichilismo ed in un mondo virtuale tra musica sparata anche da auricolari e cellulare in mano (Cfr. Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo ed i giovani, Feltrinelli, ed.) tanto da dar spunto ad una canzone che pare divertente e ballabile, ma dal testo che fa riflettere: ‘L’esercito del selfie’ che parla di quelli che «se ti porto nel bosco/mi dici portami in centro/perché lì non c’è campo/», di quelli che formano «[…] l’esercito del selfie/di chi si abbronza con l’iPhone/» di quelli che non hanno più contatti «soltanto like a un altro post», sempre più lontani dalle persone “in carne ed ossa” viste come oggetti che sono presenti solo perché mancano «nella lista delle cose che non ho», e per questo esistono, come possesso.

Grazie Paola per queste parole, ed anche grazie per aver sottolineato come ai giovani, votati spesso ad essere i nuovi schiavi del mondo del lavoro, senza certezza alcuna in una società che si dice liquida ma è evanescente e senza pilastri ideali e normativi, debba venir insegnato il concetto di disciplina anche come autodisciplina. 

Partigiani e patrioti

Quando Paola Del Din dice che ‘partizan’ era termine usato dai soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, può darsi che sia vero come no, ma ogni paese dava ai suoi resistenti al nazifascismo un nome diverso. I partigiani della resistenza francese si chiamavano ‘maquisards’, i resistenti greci ‘Andartes’, quelli dell’Albania ‘Schipetari’, (Cfr. Federico Vincenti, Partigiani friulani e giuliani all’ estero, Anpi provinciale Udine, 2005) e nessuno si sognava di dire o pensare, nel dopoguerra, che i partigiani francesi, greci od albanesi non si potessero definire patrioti indipendentemente dal loro credo politico, in quanto avevano lottato per la liberazione della loro terra, della loro Patria occupata. E lo stesso si potrebbe dire dei patrioti- partigiani belgi e di tutti coloro che combatterono contro i nazisti invasori. Pertanto non so perché diverso trattamento dovrebbe venir applicato ai soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, ‘partizans’, che lottarono contro l’occupante nazifascista.  E non so come si possa pensare che i fascisti italiani, che collaboravano tra l’altro con i nazisti, potessero esser visti dagli sloveni e slavi come legittimi governanti e non come occupanti, dato che andammo là per conquistare, per sottomettere, con l’aggressione al legittimo governo di re Pietro II dei Karadjordjević il 6 aprile 1941, e per farlo usammo le armi dei ‘conquistadores’. E patrioti furono gli slavi o gli sloveni o i croati che ce l’avevano con noi non perché italiani, tanto che molti italiani si unirono, dopo l’8 settembre 1943, non riuscendo fra l’altro a rientrare, alla resistenza jugoslava, affiancata dagli Alleati, o per un confine, che gli americani stessi, almeno con Wilson, tendevano a definire sulla base dell’appartenenza etnica delle popolazioni locali, ma per ben altro, per l’occupazione della loro terra al fianco dei nazisti, ed il trattamento subito (nel merito cfr. almeno Teodoro Sala, Il fascismo italiano e gli Slavi del sud, ed. Irsml) ed erano al tempo stesso comunisti e nazionalisti. Infatti il nazionalismo dà importanza ai problemi di confine, non il comunismo che era internazionalista.

Non da ultimo, l’acronimo G.A.P. significa ‘Gruppi di azione patriottica’. Se pertanto qualcuno, leggendo la storia a modo proprio, o secondo una vulgata errata, pensa che il termine ‘patriota’ possa essere attribuito solo agli osovani si sbaglia di grosso o si è lasciato turlupinare, perché la Presidenza del Consiglio dei Ministri, quando riconobbe sia i partigiani garibaldini che quelli osovani, uomini e donne, come combattenti dell’Esercito Italiano dando loro pure un grado corrispettivo, non fece distinzione di sorta. (Cfr. 472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici, in: www.nonsolocarnia.info).

Infine al termine della guerra, il Decreto Legislativo Luogotenenziale n° 158 del 05.04.1945, aveva come oggetto l’”Assistenza ai patrioti dell’Italia liberata” (GU Serie Generale n° 53 del 02.05.1945), non ai partigiani, indicando come allora essi venissero così definiti a livello istituzionale.

R.S.I. e arruolamento.

Dopo l’8 settembre la posizione dei tedeschi verso i soldati italiani fu inequivocabile. «Ultimato! a tutti gli Ufficiali, Sottoufficiali e soldati italiani. Per l’ultima volta Vi invitiamo di (sic) arrendervi alle forze armate tedesche. Dopo il giorno 12 ottobre 1943 tutti i Comandanti e Ufficiali i quali non hanno eseguito l’ordine da dare alla truppa di arrendersi e consegnare le armi saranno fucilati appena fatti prigionieri. Il soldato che si arrende verrà trasportato altrove. Tutti gli altri verranno attaccati dalle forze armate tedesche e distrutti». (Uno degli inviti lanciati da aerei tedeschi ai soldati italiani, in: Federico Vincenti, op. cit., p. 23). 

Dopo l’8 settembre ci furono pure dei tentativi di arruolamento da parte di Legioni della MVSN, come quelli fatti ad Udine e Gemona da parte della 63., “Tagliamento”, e da parte della 55. comandata dal seniore Emilio Del Giudice. Il 18 settembre 1943 Vinicio Fachini, della ‘Tagliamento’, definendosi «ufficiale superiore di collegamento con il Comando delle truppe tedesche» fece pubblicare su ‘Il Popolo del Friuli’ un appello che invitava i militari a presentarsi presso la 63. Legione di Udine. Pochi giorni dopo, Ermacora Zuliani, comandante del Reggimento della Milizia Tagliamento, insediatosi nella Caserma dell’ 8° alpini ad Udine, che aveva già cercato di formare un servizio d’ordine con volontari,  pubblicò il primo appello ai militari italiani ad arruolarsi.  «Pochi giorni dopo, il 25 settembre, fece pubblicare sullo stesso giornale un comunicato con il quale, “conformemente alle disposizioni impartite dal Comando Generale della Milizia” intimava agli appartenenti alle classi 1922- 1925 di presentarsi alla caserma dell’8. Reg. Alpini entro il 28 settembre (per i residenti nel mandamento di Udine) o il 2 ottobre (per i residenti nel resto della provincia) per esser inquadrati negli speciali reparti della Milizia» (Stefano Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland. Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana durante l’occupazione tedesca 1943-1945, ed. Ifsml, 2005, p.p. 205-206). Il bando però non ebbe molto successo e così, il 5 ottobre 1943, Zuliani precisò che trattavasi di ‘arruolamento volontario’. (Ivi, p. 206).

Nel novembre 1943, formatasi nel settembre 1943 l’R.S.I., Rodolfo Graziani emise un bando di arruolamento per le classi 1924-25, cercando persino l’adesione dei militari finiti in campo di concentramento dopo l’8 settembre, ma senza successo. Molti furono i renitenti alla leva e, successivamente, anche i disertori. (Flavio Fabbroni, Il 33 Comando Militare Provinciale di Udine. Novembre 1943- aprile 1945, in: Storia Contemporanea in Friuli, n.43, p. 202).  E sempre seguendo l’obiettivo di organizzare un Esercito Repubblicano, nel novembre 1944 Gastone Gambara, ignorando lo status delle Zone di Operazione decretate da Hitler, cioè cercando di eludere il fatto che le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana formassero la Zona d’operazioni del Litorale adriatico o OZAK, pose al vertice del 204° Comando Militare Regionale della Venezia Giulia il generale Giovanni Esposito, che non solo ordinò la costituzione dei comandi provinciali a Trieste, Udine, Gorizia, Zara, Pola, Fiume e di distretti militari, ma come previsto dal Ministero della guerra Repubblicano, diffuse nel Litorale il bando di arruolamento di Graziani per le classi 1924- 1925. (Ivi, pp. 202-203).

Ma il Gauleiter Rainer non intendeva che ci fossero, in Ozak, segni di sovranità dell’RS.I., e così, l’11 novembre 1943, emise un’ordinanza secondo la quale l’arruolamento nell’R.S.I. doveva essere volontario. A questo punto il generale Esposito emanò, il 16 novembre, un bando ‘ volontario’, sospeso però il 22 novembre da un’ordinanza tedesca. (Ivi, p. 203).

Quindi Friedrich Rainer, il 31 dicembre 1943, comunicò a Mussolini che la leva in Ozak sarebbe stata solo nazista. Il 73% dei richiamati sarebbe stato utilizzato in unità militari e militarizzate dai tedeschi; il 22% nella difesa territoriale; e solo il 5% nell’ R.S.I., ma coloro che non avessero optato per il Reggimento volontari friulani ‘Tagliamento’ avrebbero dovuto raggiungere i centri di addestramento dell’esercito repubblicano in Alta Italia e veniva loro vietato di fermarsi in Ozak. Da quel momento in Ozak non furono più fatti tentativi di arruolamento diretto da parte dell’R.S.I.(Ibid.).

Il 22 febbraio 1944, il Gauleiter emanava il bando di leva (servizio di guerra) obbligatorio in Ozak per le classi 1923-1924-1925. A tal fine l’8 marzo entrarono in funzione apposite Commissioni di arruolamento, sotto la guida del ‘Deutsche Berater’, che ad Udine era Josef Glück. Le opzioni possibili erano: Wehrmacht, Organizzazione Todt, SS, Guardia Nazionale Repubblicana, (poi Milizia per la Difesa Territoriale, scissa dall ‘R.S.I. per volontà tedesca) Landschutz, RSI senza però possibilità di costruire reparti in Ozak, ma di confluire ad Ivrea.  (Ivi, p. 209). Il Comando Militare Provinciale si diede da fare aprendo gli archivi dei distretti militari, mentre si veniva formando il movimento partigiano che ebbe come finalità anche quello di dare alle fiamme gli elenchi comunali dei chiamati alla leva. (Ivi). E più il tempo passava, più i tedeschi cercavano di controllare globalmente l’Ozak, per farne il loro ‘cuscinetto difensivo’ alle porte del Terzo Reich.

L’ R.S.I. comunque era una Repubblica fantoccio, voluta da Hitler e sottomessa ai nazisti, ma forse non tutti i soldati lo sapevano, ma sapevano che era creazione fascista e che andavano a combattere a fianco dei tedeschi contro i partigiani italiani e l’Esercito di Liberazione Jugoslavo. Inoltre come non ricordare, ora, la storia, per esempio, dell’ammiraglio Inigo Campioni, il difensore di Rodi dopo l’armistizio italiano, medaglia d’oro al Valor Militare, deportato in un lager della Germania dai tedeschi, dove, nonostante gli allettamenti ed i ricatti, rifiutò di aderire all’R.S.I., e per questo fu consegnato dai tedeschi ai fascisti repubblichini e quindi processato a Parma e fucilato il 24 maggio 1944, con l’accusa di tradimento? (Per Inigo Campioni, cfr. Federico Vincenti, op. cit., pp. 25-26 e https://it.wikipedia.org/wiki/Inigo_Campioni). Federico Vincenti, nel suo volume, tratta diffusamente degli ufficiali e soldati che resistettero ai tedeschi fuori Italia dopo l’8 settembre 1943 e l’ho trovato di grande interesse.

E si aveva la tessera annonaria … E da mangiare non c’era poco per tutti.

Riferendosi all’ordine dato per lanciarsi con il paracadute, Paola dice che non era abituata a saltare le code, essendo stata tante volte in coda per acquistare generi alimentari, e nessuno, in quel frangente, si sognava di perdere il proprio posto in fila, e guardava con occhio attento chi era prima e dopo.   

Questa affermazione che riporta alla vita di quei tempi, rimanda anche alla fame che tutti allora partirono, e di cui ha parlato in modo diffuso Paola durante l’incontro. Io credo che questi aspetti, così noti a chi li ha vissuti, debbano essere ribaditi per contestualizzare gli eventi e ciò che può accadere durante le guerre, che mai portano prosperità. (Cfr. il mio: Sulla guerra e contro la guerra, per la pace, ai margini di un convegno al centro Balducci, in: www.nonsolocarnia.info).

Infatti durante la seconda guerra mondiale, l’acquisto di generi alimentari era limitato a quantità definite rigorosamente sulla base di parametri che tenevano conto della composizione dei nuclei familiari, ed era possibile solo con la tessera annonaria, detta anche ‘tessera del pane’. Ma poteva accadere che, se ti facevi superare da altri o se giungevi al negozio troppo tardi, ti trovassi di fronte al fatto che gli alimentari per quel giorno fossero finiti, esauriti.

«Si mangiava poco durante la seconda guerra mondiale, l’alimentazione degli italiani venne regolata dalle tessere annonarie, da tutti chiamate le tessere della fame. Colori diversi per le differenti fasce d’età, verdi per i bambini fino a otto anni, azzurre dai nove ai diciott’anni, per gli adulti grigie. Segnarono la vita di grandi e piccini per un lungo periodo, tutti gli anni della tragedia bellica ed anche dopo, per altri quattro anni, fino al 1949. Il cibo quotidiano veniva distribuito da quei rettangoli di carta che gli uffici municipali dell’annona provvedevano a fornire ogni due mesi, uno per ogni membro della famiglia. Perciò le nostre mamme, numi tutelari dell’appetito familiare, ne divennero gelose vestali, e nelle loro mani si affidava il destino del desinare giornaliero, una sola volta al giorno. Guai a smarrire quelle carte, pena il digiuno.  (…). Alle mamme, il compito di custodire quelle carte: che esse, sentinelle attente, andavano a depositare sotto il materasso, posto ritenuto più protetto di una cassaforte. E poi, lì depositate, si sperava di conservarle ben stese e stirate, pronte all’uso prima di andare in bottega per il prelievo quotidiano. (…). Prima operazione, “u p’ttaiare” (forse il negoziante n.d.r.) stendeva la carta annonaria sul bancone di vendita, la stirava, e con lunghe forbici tagliava le strisce in cima alle quali imprimeva il timbro dell’esercente, destinate alla consegna periodica presso gli uffici annonari municipali. Magri quantitativi per più magre razioni di cibo: duecento grammi di pane al giorno, pane nero fatto di poco grano e di legumi sfarinati, o pane giallo di granturco sfarinato, pane che si induriva, immangiabile, ma che pur bisognava mangiare. Fu allora che la gente cominciò a cantare sottovoce il ritornello “duce duce come na fatt r’dusce, la d’ senza pane e la nott senza lusce”, il primo sintomo di rivolta popolare contro il regime fascista.». (Domenico Notarangelo, Le tessere della fame, in: www.la-piazza.it, riportato in www.collezioni-f.it/).

E come non ricordare la canzone popolare scritta allora, “Passano i commestibili” cantata sulla musica di “Passano i sommergibili” il cui testo ho riportato nel mio: “Passano i commestibili”, una canzone popolare dei tempi della guerra, che denunciava il mercato nero, in: nonsolocarnia.info?  Mia madre dice di averla imparata da Andreina D’ Orlando che l’aveva sentita da un parente venuto da Milano…

Allora mancavano informazioni, ed era difficile averle e trasmetterle.

Parla di una radio Paola, come elemento importante nella guerra. E penso alla difficoltà di comunicare che c’era allora, e di come gli occupanti tedeschi ed i collaborazionisti cercassero di intervenire proprio su questo aspetto, alterando le informazioni e creandone di false e tendenziose, tanto che poteva capitare che esse si diversificassero. Di questo aspetto parla anche Rinaldo Cioni nelle sue lettere, quando scrive, il 22 febbraio 1945, a Ciro Nigris nome di battaglia ‘Marco’, che: «Circa una quindicina di giorni fa furono gettati per le strade manifestini che si possono nomare “Adverso”, il giorno dopo contro “Adverso”… tutto un giuoco Tedesco, tanto per tua norma per creare confusione fra Osoppo Garibaldi». (Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo/Carnia ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi/Carnia, 1944-1945 (a cura di Laura Matelda Puppini), Storia Contemporanea in Friuli, n.44, pp. 237-238). E sempre dal carteggio Cioni – Nigris, sappiamo pure della difficoltà a far recapitare anche un solo biglietto, e quanto rischiassero pure donne e ragazzette/i che facevano da staffetta. Quando ‘A’ viene catturato con documenti ed informazioni, Nigris si preoccupa per l’amico Cioni, ma poi gli scrive che per fortuna ‘A’ è riuscito a fuggire, lasciando però le carte in mano al nemico.  (Ivi, p. 242). Ma sia nel carteggio che nella testimonianza della Del Din si parla pure di spie, tante spie …  

 

Ed anche quando scrivo della strage di Porzûs, mi chiedo cosa sapessero ‘Giacca’ ed i suoi, quali informazioni fossero loro giunte, e da chi. Romano Marchetti mi ricordava che i partigiani non avevano orologi, e si muovevano con il sole e l’alternanza giorno/notte, che avrebbero potuto facilmente, poi, errare data di un evento od una azione, che sapevano, se le sapevano, le poche cose riferite relative alla loro zona operativa, tanto che, per vedere che i cosacchi stavano giungendo nel pianoro di Lauco, utilizzarono un cannocchiale. E Patrick Martin Smith scrive che, quando raggiunse il comando osovano di Pielungo, la prima cosa che chiesero i partigiani furono informazioni. «I partigiani volevano sapere della guerra: avevano accolto con giubilo la notizia della liberazione di Roma, sei settimane addietro; avevano creduto che gli Alleati avrebbero in un baleno raggiunto Bologna e da lì, da un momento all’altro, sarebbero dilagati nella Pianura Padana. E allora la guerra sarebbe finita … Invece c’era la dura lotta sull’Appennino. Fummo costretti a raccontare loro della dura battaglia lungo la dorsale d’Italia, delle montagne e dell’inverno e dei fiumi, ognuno dei quali era stato testardamente difeso dai Tedeschi; ed ancor più crudelmente, che Il grosso delle forze alleate era ora in Francia, dove si stava svolgendo la battaglia più feroce che si fosse mai combattuta in tutta la guerra nel territorio dell’Europa occidentale […]». (Patrick Martin Smith, Friuli ’44. Un ufficiale britannico fra i partigiani, Del Bianco ed., 1990, pp. 3-4).

Avere una radio ricetrasmittente era importantissimo, e si capisce come perderla rappresentasse un vero disastro.  E la gente ascoltava, di nascosto perché era vietato, radio Londra, nelle cantine, in stanze lontane da occhi indiscreti, speranzosa di sentire dell’imminente fine della guerra. E attraverso radio Londra giungevano anche messaggi. ‘Radio Londra’ era l’insieme dei programmi radiofonici trasmessi, a partire dal 27 settembre 1938, dalla radio inglese BBC e indirizzati alle popolazioni europee continentali. Le trasmissioni in lingua italiana della BBC iniziarono con la crisi di Monaco. Con lo scoppio delle ostilità, nel 1939, Radio Londra aumentò le trasmissioni in italiano fino ad arrivare a 4,15 ore nel 1943. Inoltre il ruolo in guerra di Radio Londra diventò cruciale nello spedire messaggi speciali, redatti dagli Alti comandi alleati e destinati alle unità della resistenza italiana. (it.wikipedia.org/wiki/Radio_Londra).

«E si ascoltava radio Londra…. Si stava curvi, ad ascoltare. Di notte, magari con una coperta sopra, a occultare apparecchio e orecchio. Perché ascoltare era proibito. Ogni tanto, fra fruscii e scoppi elettromagnetici, la manopola trovava la sintonia e spuntava una voce. Amica o nemica? In che lingua parlava? E le notizie? Buone o cattive? Si abbassava il volume, si avvicinava l’orecchio. Con coraggio pari alla paura, si ascoltava una storia diversa. Radio Londra soprattutto, ma anche Radio Algeri, Radio Barcellona, Radio Tunisi, e tutte le emittenti che con i loro nomi tracciavano la geografia della libertà perduta. La parola, trasportata flebile dall’etere, si amplificava nella voce dell’ascoltatore al suo vicino, in un fenomeno di ascolto collettivo comune a tutto il continente.

La radio aveva cambiato le abitudini degli italiani. Il fascismo l’aveva imposta come megafono del pensiero unico e unificante, ma non aveva fatto i conti con la natura anarchica del mezzo, capace di superare i confini e abbattere barriere di qualunque natura. (…).

Proibito ascoltare, ma quasi tutti lo facevano: studenti, professionisti, casalinghe, contadini. Si ascoltava per necessità. Perché la gente voleva sapere cosa realmente stesse succedendo. (…). Dopo il tramonto, quando la notte liberava l’etere dalle frequenze e l’ascolto era più chiaro, l’orecchio si avvicinava all’altoparlante e la mano girava la manopola. “Tu-Tu-tu-tuum. Tu-Tutu-tuum”. Sembrava la Quinta di Beethoven, e forse lo era. Ma era soprattutto un cupo segnale morse: tre punti e una linea. Una V. Quella di Victory, Vittoria. L’indice e il medio di Winston Churchill si materializzavano così e Radio Londra arrivava nelle case degli italiani. (…). Con il progredire della guerra si diradano i programmi leggeri e si moltiplicano i messaggi speciali destinati alle forze della Resistenza. Sono frasi volutamente enigmatiche, scandite dallo speaker e il cui significato drammatico (spostamenti di truppe, invio di armi) spesso contrasta con il senso ironico che giocoforza le avvolge: “Felice non è felice”, “È cessata la pioggia”, “La mia barba è bionda”, “La gallina ha fatto l’uovo”, “La vacca non dà latte”».  (“Le radio proibite dal fascismo: radio Londra”, in: anpi-lissone.over-blog.com/).   

Il dolore di madri e padri.

Paola Del Din /Renata, ci ha narrato, pure, dell’apprensione sua e della madre, che non avevano più notizie di Renato, che sapevano essersi unito alla resistenza per restare fedele al suo giuramento di soldato del R.E.I.. E venne in giugno il suo compleanno, e nessuno le veniva a cercare per dir loro dove fosse o cosa gli fosse accaduto, o per recapitare un biglietto. E per fortuna che non aveva documenti e che non lo riconobbero subito, altrimenti – dice Paola – tutta la famiglia poteva andarci di mezzo.

La madre, Ines Battilana Del Din, spesso pensava a quel suo figlio maschio, e si preoccupava per lui, come tante altre madri, italiane, francesi jugoslave, russe e via dicendo. Mangiava Renato? Poteva dormire? Dov’era? Ed ad un certo punto fu colta dal presentimento che non lo avrebbe visto più. Ma la speranza è l’ultima a morire. Ad un certo punto Paola decise di chiedere informazioni su suo fratello alla ‘Osoppo’ tramite il tenente Giorgio Chieffo, ma questi non ebbe il coraggio di ritornare da loro. Poi fu consigliato a lei ed alla madre di lasciare Udine, perché erano ricercate, ma non sapevano perché, e si chiesero se Renato fosse stato catturato. Infine Candido Grassi, ‘Verdi’, le dette la terribile notizia della morte del fratello, che fu taciuta per un ulteriore periodo alla madre, triste e deperita. (Andrea Romoli, Il diritto di parlare, Gaspari ed. 2017, p. 39).

Quindi la scelta di Paola di recarsi in missione al Sud per la Osoppo, come modo «per resistere al dolore e continuare a far vivere mio fratello». (Ivi, p. 40). Poi il rientro del padre dalla prigionia indiana, da lei richiesto, ed il dolore disperato dello stesso per la morte del figlio. E se fu grande ed inconsolabile il dolore dei Del Din, non possiamo neppure immaginare quale fu quello dei genitori dei fratelli Cervi, e molte famiglie vissero situazioni simili. Alcune seppero solo a guerra finita della morte di un figlio, di un fratello, di un parente, e spesso, per pietà, furono taciute da chi sapeva, in particolare da sacerdoti, le torture e le umiliazioni, gli stenti che avevano subito. Ma ci fu anche un dopoguerra che cercò di alterare, secondo me, quello che i garibaldini avevano fatto da patrioti, con la scusa che erano comunisti, rischiando di rovinare il ricordo anche di quelle centinaia di osovani che combatterono contro il nazifascismo, ritornando poi a vita normale e magari non interessandosi di politica mentre le organizzazioni militari quali la ‘nuova Osoppo’, sorte nel secondo dopoguerra, ebbero un intento politico, che lo si voglia o meno ed anche questo non va taciuto.

Il racconto di Paola continua pure sottolineando la difficoltà a viaggiare, fra posti di blocco, ponti saltati, bombardamenti, già descritte pure da Iacum l’infêrmir (Cfr. Giacomo Solero. Esperienze vissute per l’ospedale tolmezzino, in: www.nonsolocarnia.info) e da mille altri, l’aiuto ricevuto, la constatazione che non tutti i tedeschi erano uguali, se pensavano che una non fosse ebrea o non fosse una partigiana. Ed in effetti vi furono persone, come Heinrich Böll, premio Nobel per la letteratura, cattolico pacifista, che aveva rifiutato l’iscrizione alla gioventù nazista, che dovette combattere su più fronti nelle file dell’esercito tedesco solo perché cittadino del Terzo Reich, finendo pure in un campo di concentramento americano a fine guerra. (https://it.wikipedia.org/wiki/Heinrich_Böll). Insomma non si può leggere la storia di tanti solo in bianco e nero. E per ora mi fermo qui, invitando Paola a parlare ancora ai giovani di cosa generino guerra e violenza, della fame, della mancanza di informazioni, della difficoltà a viaggiare, della disperazione nel sapere della morte di un giovane familiare, per dire no a tutte le guerre. Queste sono mie riflessioni, e non intendo offendere alcuno, ma solo cercare chiarezza prendendo spunto da un incontro e da un libro, e mi piacerebbe avere commenti documentati anche in opposizione a quanto ho scritto. 

Laura Matelda Puppini.

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il manifestino di invito all’ incontro tolmezzino, ed è tratto da: http://www.altofriulioggi.it/tolmezzo/paola-del-din-racconta-vita-militare-partigiana-8-giugno-2018/. Laura Matelda Puppini. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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