Piove ancora su questa Carnia martoriata da un vero e proprio alluvione, che mi porta a fare qualche amara considerazione sulla scarsa cura del territorio e sulla politica dell’idroelettrico.

Domenica 21 ottobre ero con altri al lago di Cavazzo Carnico, alla manifestazione indetta da Patto per l’Autonomia e dai Comitati Salvalago, per ascoltare e gridare un no deciso allo sfruttamento indiscriminato del territorio montano e delle sue acque, tra centrali e centraline, ed un sì altrettanto deciso per la rinaturalizzazione del lago di Cavazzo, per la creazione di una una agenzia regionale per l’energia, e per la manutenzione delle zone montane. Eravamo quattro donne a portare lo striscione ““Per la tutela dei territori di montagna” che apriva il corteo, tre carniche ed una referente per il bellunese.

La giornata era soleggiata ma spirava un vento deciso, poi attenuatosi, e le voci sugli effetti della siccità persistente si rincorrevano …. «Pare che non abbiano neppure acqua sufficiente per far funzionare tre turbine a Somplago… forse neppure per farne funzionare due…»; «Pare che vogliano portare il gas fino alla centrale …», tanto il metanodotto passa già per il comune di Cavazzo Carnico. «Il clima è cambiato», era sulla bocca di tutti, oratori e non, come il dovere di opporsi alla richiesta di sfruttare ogni minimo corso d’acqua, ruscello o sorgente, per produrre davvero poca energia, ma con un impatto certo sull’ambiente. Ma il problema dello sfruttamento indiscriminato di ogni rio, con la scusa che l’acqua come fonte di energia è considerata ‘rinnovabile’, unisce la Carnia al bellunese e non solo.

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Un torrente, il Talagona, «scorre spumeggiante sul fondo di una valle intatta. – si legge su di un articolo in www.peraltrestrade.it – Tutt’attorno cime di dolomia principale si ergono ardite dal bianco dei ghiaioni e dal verde delle abetaie. Su questo angolo di paradiso incombe un progetto di sfruttamento idroelettrico – uno dei 2000 presentati negli ultimi anni in Italia – che andrà a intubare gran parte dell’acqua del torrente per metà della sua lunghezza per produrre una quantità insignificante di energia incentivata come “rinnovabile”». (“Talagona l’ultima valle” e “Le gocce d’oro della Val Talagona”,in https://www.peraltrestrade.it/).

Ed al problema delle centraline montane anche il quotidiano La Stampa dedica un articolo interessante, intitolato: “L’inutile ‘mini’ idroelettrico: poca energia, e valli devastate” che centra bene l’argomento. «Non è che nel Bellunese siamo più sfortunati di altri» avverte Lucia Ruffato, […]. “La propagazione del mini idroelettrico affligge tutto l’arco alpino”. Nonché l’Appennino centrale, Puglia, Sicilia e Sardegna, portando ovunque cantieri, strade e opere di presa anche in luoghi di grande valore naturalistico. “Per un territorio votato al turismo, che fa della natura la sua ricchezza, opere impattanti come le centraline sono un danno incalcolabile” commenta Camillo De Pellegrin, sindaco di Val di Zoldo. (…). Non bisogna lasciarsi ingannare dal prefisso “mini”. Mediamente le condutture si snodano per un paio di chilometri e il loro diametro può raggiungere 1,20 metri. L’attuale iter di concessione non prevede inoltre una valutazione cumulativa dell’impatto di più centraline poste sul medesimo torrente, “così accade che l’acqua che alimenta un impianto faccia ritorno in alveo e sia immediatamente prelevata dall’impianto successivo. E la Valle rimane senz’acqua” prosegue Ruffato. Secondo i dati di Gestore Servizi Energetici, al 2015 erano 2.536 gli impianti mini-idroelettrici presenti nel nostro paese. E altri 2mila progetti erano in fase di istruttoria: qualora le richieste andassero tutte a buon fine, sarebbero oltre 3mila i chilometri di corsi d’acqua costretti nelle condutture.  

 Uno sproposito, la cui utilità è apertamente contestata dal rapporto di Legambiente “L’idroelettrico: impatti e nuove sfide al tempo dei cambiamenti climatici”, impietoso nel valutare il contributo del mini idroelettrico: come numerosità, gli impianti da 1MW sono il 69% del totale ma nel loro insieme rappresentano appena il 4% della potenza idroelettrica installata, per una produzione totale che nel 2014 copriva appena il 5% del comparto idroelettrico e superava di poco il 2 per mille del fabbisogno complessivo nazionale. A fare la parte del leone sono i 303 grandi impianti di potenza superiore ai 10MW, che da soli costituiscono l’82% della potenza idroelettrica installata e il 76,3% della produzione idroelettrica. Un parco dighe purtroppo logoro che consiste per oltre la metà in impianti in esercizio prima degli anni ‘60, bisognosi di manutenzione e ammodernamento. Questa corsa all’oro blu, iniziata nel 1999 grazie all’introduzione dei cosiddetti certificati verdi, ha preso ulteriore slancio dieci anni più tardi con il recepimento della direttiva europea in tema di energia da parte del governo, che ha lautamente incentivato la produzione delle rinnovabili. (…). Non da ultimo: ««Le centraline cambiano rapidamente proprietario. (…). “Siamo spettatori di ciò che accade nel nostro territorio: questi impianti sono classificati come opere di pubblica utilità […]. Una pubblica utilità non giustificata dalla trascurabile produzione energetica ma che impoverisce la cittadinanza, tramite l’esproprio dei terreni, l’alterazione del paesaggio e la sottrazione di acqua». (Davide Michielin, L’inutile “mini” idroelettrico: poca energia, e valli devastate, in: La Stampa, 23 ottobre 2017). 

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Ma sentite cosa succede invece in Carnia a differenza che nel bellunese. Qui è l’antica Secab (Società Elettrica Cooperativa Alto But), sorta per portare benessere alla popolazione, che si oppone alle leggi di minima tutela dei fiumi, ed invoca di togliere il minimo deflusso vitale, cioè vuole il deserto. Infatti così si legge sul Messaggero Veneto: «Paluzza. La Secab dichiara guerra al minimo deflusso vitale imposto dal piano regionale di tutela delle acque ai gestori delle centraline idroelettriche e al deflusso ecologico stabilito dall’autorità di bacino in Friuli Venezia Giulia, Veneto, Trentino, e in una parte della Lombardia». (Giacomina Pellizzari, guerra alle norme: impossibile rilasciare più acqua nei fiumi, in Messaggero Veneto, 27 maggio 2018). Per questo Secab, dal 2016 presieduta dall’architetto Andrea Boz, e nel cui direttivo non compare più Luigi Cortolezzis, ha già presentato ricorso al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche di Venezia contro la richiesta di minimo deflusso vitale per torrenti e rii, e sta valutando di contestare legalmente il piano regionale di tutela. (Ivi). E bravi i nostri, penso tra me e me. Vorrebbero togliere ogni garanzia per i fiumi, per un possibile rischio di impresa! E se ho capito male mi scuso subito e per cortesia correggetemi. Ma ora Secab ha puntato maggiormente «sull’acquisizione di commesse esterne», chiudendo in attivo « a prescindere dall’incidenza, ormai marginale, dei cosiddetti Certificati Verdi» (Maurizia Plos, Intervista al Presidente della Secab, in: http://treppocarnico.org/notizie-dalla-secab/). Inoltre dalla stessa fonte si viene a sapere di un progetto dell’attuale Secab che intende portare avanti il rifacimento globale dell’impianto di Enfretors, anche per la sua «importanza e strategicità […] correlata […] al collegamento in serie con gli altri due impianti più a valle, ovvero quelli di Museis e Noiariis», e poi in successione,  procedere con i progetti minori «che interessano le centrali del Fontanone (rifacimento globale), di Noiiaris (implementazione) e del Coll’Alto (nuova realizzazione)». (Ivi).

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Ed in Carnia vi è ancora chi sogna un progresso basato sullo sfruttamento delle acque locali. E così mi trovo a leggere, stupita, le dichiarazioni del Sindaco di Paularo, Daniele Di Gleria, che, dopo che la valle di Incaroio ha ancora le acque del Chiarsò solo per la tenace opposizione alla costruzione della centrale di Amaro, pare voglia permettere l’edificazione di centraline su ogni rio del suo comune, senza analisi alcuna dell’impatto ambientale territoriale di tali opere. Il sindaco Di Gleria, a differenza dei suoi colleghi bellunesi, «durante una riunione con la gente della frazione di Dierico assieme ai responsabili della ditta Tarussio interessata al progetto idroelettrico, ha illustrato i benefici della nuova centralina. “Porterà economia, con assunzione di manodopera per la sua costruzione e con produzione di energia elettrica con benefici a favore delle popolazione locale”» (Gino Grillo, Il sindaco Di Gleria difende la centralina: «Porterà lavoro», in: Messaggero Veneto, 27 settembre 2018). Scusatemi, ma mi sono cadute le braccia. Sono le solite parole con cui in Carnia hanno fatto passare di tutto, anche il villaggio turistico sullo Zoncolan, per fortuna mai realizzato, per portare l’acqua al quale, pure per realizzare laghetti, si sarebbe dovuto, se ho ben capito, pomparla. Ed il mito dal “svilup” è stato, in questa mia terra, la molla per mille alchimie, per non dire fesserie. Infatti si vede come è andata a finire la Carnia, già prima dell’alluvione.

Inoltre Di Gleria «immagina», un panorama locale nel quale le tre centraline in funzione sul territorio comunale, assieme a quella di proprietà dell’Uti della Carnia, saranno messe in rete da una società costituita all’uopo, con gli obiettivi di produrre energia elettrica per la popolazione e le aziende locali, ma pure di «vendere il surplus all’ente nazionale dell’energia». (Ivi). Insomma «siamo ancora alla politica del ‘becjut’, al volere fare imprenditoria ad ogni costo, e persistiamo a sostenere di fatto la svendita di beni comuni e necessari per la vita come acqua e territorio, facendo una politica pericolossima, senza valutazione alcuna delle ricadute e dei reali guadagni» – penso fra me e me, sconsolata, mentre mi domando chi rimarrà a vivere in Carnia, a Paularo come a Paluzza, fra 20 anni e quindi potrà pagare meno l’energia elettrica per un congruo periodo. Che la Carnia sia al ‘De Profundis’ per abitanti, servizi, strade, ponti, è sotto gli occhi di tutti. (Cfr. pure  il mio: Provocazioni e divagazioni sul futuro della Carnia, in: www.nonsolocarnia.info, a cui rimando per tutta una serie di considerazioni già fatte).

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Poi però, in attesa di sapere il finale della vertenza legale di Secab, che se favorevole alla stessa indicherebbe che il potere su persone, spazi e vite è in mano ormai anche qui come in America Latina a singole società private, leggo un altro articolo: “Business dell’acqua: Stop alle centraline una società pubblica gestisca l’energia”, sempre a firma di Giacomina Pellizzari, in cui vengono segnalate alcune perplessità sulla captazione di rii e sorgenti: infatti il rio Zolfo corre  concretamente il rischio di restare all’asciutto sotto il peso di una centralina, «l’ennesima in una regione dove si contano almeno 475 impianti idroelettrici». (Messaggero Veneto, 29 luglio 2018). Ormai siamo al “Business dell ‘acqua” bene non prodotto da una azienda, ma dono di Dio, indispensabile per la vita, all’uomo.
Dallo stesso articolo si viene a sapere, poi, che vi sono, in Regione, 226 impianti con potenza nominale superiore ai 220 Kw, che pare non rilascino neppure il minimo di acqua per il deflusso vitale se, come scrive la Pellizzari: «a seguito dell’applicazione del Piano tutela delle acque, rischiano di dover affrontare un calo del 30 per cento della produzione di energia». (Ivi), e forse fra questi vi sono anche quelli di Secab. Nel frattempo il povero sindaco di Forni di Sotto, l’architetto Marco Lenna, si è visto recapitare da Edipower spa una citazione in giudizio solo perché voleva derivare un torrentello locale per dare acqua potabile ad alcune case del paese. (Cfr. Acqua diritto o profitto? Il caso del rio Chiaradia a Forni di Sotto e del rio Fuina in Val Pesarina, in: www.nonsolocarnia.info).

Così va il mondo, penso fra me e me, mentre leggo pure che gli incentivi per le rinnovabili, applicati al puro idroelettrico, fanno tanto comodo alle società private da far entrare in campo, con tutto il suo potere, Assoidroelettrica, che parla, in vista della possibile approvazione da parte del governo del ”Decreto Rinnovabili”, di : “Allarme idroelettrico”, come se lo Stato dovesse fare l’interesse di un singola associazione privata, continuando a finanziare, con i pochi soldi rimasti, il già finanziato, e non aprendo maggiormente ad altre fonti come il solare. E di pannelli solari è piena la Germania.  (https://www.repubblica.it/economia/rapporti/energitalia/sostenibilita/2018/10/16/news/assoidroelettrica_chiede_modifiche_al_decreto_rinnovabili-209116642/?ref=search).

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Ma ritorniamo al 21 ottobre 2018, al prima ed al poi. Mi ricordo che si parlava di siccità già nell’agosto di quest’anno e che alla fine di quel mese, discutevo, a Varna, in Bulgaria, con un portiere d’albergo, del caldo torrido e delle stagioni di mezzo che stavano sparendo, qui come là. Infatti non possiamo progettare a livello ambientale dimenticando i mutamenti climatici a cui ho già accennato, che non potranno che aumentare se nessuno pensa a fermarli subito con una seria politica mondiale, mentre invece si legge che Trump ha riscelto il carbone. (Alfredo De Girolamo, Trump ritorna al carbone, ma così isola gli Stati Uniti, in Messaggero Veneto, 18 ottobre 2018). «Nemmeno gli uragani che stanno imperversando con danni ingenti in diversi Stati e le vicine elezioni di Midterm fermeranno il tycoon americano». (Ivi). Dall’articolo si evince che detta scelta è dettata dai costi minori, mentre le scelte di Obama hanno un prezzo. Ma anche quelle di Trump ed altri hanno un prezzo per la popolazione globale. Ma cosa vuoi che sia …  E da quello che ho letto si evince che i periodi di caldo e siccità aumenteranno, non solo per le minori precipitazioni continuative, ma per evaporazione dell’acqua stessa data dall’aumento delle temperature, e che ci saranno piogge ma esse non saranno diluite nel tempo ma concentrate, provocando a uomini e terra uno shock, mentre i ghiacci continueranno a sciogliersi, e le renne, tanto per fare un esempio sulle ripercussioni della nuova situazione sul mondo animale, non sapranno più come trovare da mangiare in inverno.

Ma tranquilli, l’energia prodotta dal carbone costa meno, produrre in qualsiasi modo energia idroelettrica porta guadagni immediati, anche se favorisce la desertificazione, e via dicendo. Il denaro non il buon senso domina il mondo.

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Mi ricordo che venerdì 26 ottobre 2018 sono andata ad un funerale a Rigolato, paese di mio marito, e ho guardato il Degano fra Villa Santina ed Ovaro, nei paraggi di quest’ultimo paese, che a me pareva proprio in secca totale, senza un filo d’acqua. Così l’ho fatto notare a mio marito, perché mi pareva proprio inusuale. Non lo avevo mai visto così. Ma di quel viaggio a Rigolato e del percorso a piedi dalla chiesa parrocchiale al cimitero e ritorno, ricordo anche un altro aspetto: il numero notevole di tir che ho visto transitare per il paese e per la 355 della Val Degano, cosa che un tempo non accadeva. C’era venerdì qualche camion D’ Agaro ma c’erano anche bestioni enormi con targa straniera ed altri che non pare contenessero Goccia di Carnia. Ma forse andavano verso la Cartiera di Ovaro, o che ne so. I problemi di detta statale, comunque, erano stati già messi in luce da Franco D’ Orlando, nella sua “Lettera aperta sulla viabilità in Carnia” (Cfr. Lettera aperta di Franco D’Orlando sulla viabilità in Carnia, in: www.nonsolocarnia.info, da me pubblicata il 7 dicembre 2017).

Ma anche in questo caso il problema non è solo nostro. Paola Dall’Anese scrive che, nel mese di ottobre, si è sperimento, sulle statali 51, 51 bis di Alemagna e 52 Carnica, il divieto di transito ai mezzi pesanti superiori alle 7,5 tonnellate. (Paola Dall’Anese, Alemagna, stop ai camion. Provvedimento sperimentale per il mese di ottobre, in: https://www.peraltrestrade.it/).  «Infatti, – si legge sempre su detto articolo- il passaggio dei mezzi pesanti sta creando non pochi disagi, oltre a danni agli edifici pubblici e privati. I muri dei palazzi sono strisciati dai camion che passano a filo degli edifici, visto che la strada è stretta. Inoltre, più volte i mezzi salgono anche sui marciapiedi». (Ivi). Per la verità il Sindaco di Comelico Superiore, avrebbe voluto «che il divieto fosse più incisivo, visto che non saranno interessati dal provvedimento i mezzi che partono o arrivano a Belluno ma anche nelle province di Treviso, Vicenza, Trento, Bolzano, Udine e Pordenone». (Ivi). Paola Dall’ Anese ci informa poi che «La situazione è pesante in Cadore e Comelico: sono centinaia i camion pesanti che passano anche a velocità non proprio ridotta nei centri abitati. Per questo i primi cittadini auspicano che ci siano dei controlli per verificare il rispetto del divieto» (Ivi). Ma mentre i sindaci del bellunese sono in costante contatto con i sindaci della Pusteria, (Ivi),  non sembra siano in contatto con i sindaci della Carnia, i quali forse non li cercano o che ne so, e così mezzi pesantissimi passavano prima dell’alluvione sulle fragili strade carniche, e questo l’ho visto di persona venerdì 26 ottobre 2018.

Inoltre in Carnia, a livello di manutenzione e tutela del territorio, mancano molte cose, la prima delle quali è una reale pianificazione territoriale globale che contempli norme precise, senza deroga alcuna, sui transiti sui sentieri, sul taglio e pulizia dei boschi e degli alvei dei fiumi, e via dicendo. E mancano i controlli. Non per nulla i nostri vecchi, sempre troppo dimenticati, avevano creato un Ente di Economia Montana (L’Ente di Economia Montana, in Laura M Puppini, Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906-1938, Gli Ultimi, 1988, pp. 192- 196 in: www.nonsolocarnia.info) che avrebbe dovuto gestire, insieme alle amministrazioni locali, la sistemazione forestale ed agricolo pastorale della montagna friulana. Ma l’Ente, dopo la sua creazione fu distrutto e smantellato dal fascismo. 

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E giungiamo al 27 ottobre 2018. C’ è in programma l’incontro per i vent’ anni dl Legambiente. Al mattino non piove ancora a Tolmezzo, poi inizia il disastro. Prima si sa di Ovaro, poi man mano a paese si aggiunge paese, a strada franata strada franata, a ponte che ha ceduto ponte che ha ceduto …. E pare un miracolo sentire che è stata ripristinata in alcuni paesi l’energia elettrica dopo giorni di freddo, buio, telefoni spenti e frigoriferi sbrinati. Accorrono, come tante altre volte, volontari e Protezione civile assieme ai Vigili del fuoco ed alle forze dell’ordine, ma i danni si conteranno poi, (e già si ritiene che saranno nell’ordine di centinaia di milioni), come i disagi più duraturi ed il costo economico del disastro, pur avendo la Regione subito stanziato 10 milioni di euro per l’emergenza Fvg, e lo Stato quaranta.

Che fare? Sicuramente non si deve giungere ad emergenze già annunciate. Ci sono operai che non sanno dove lavorare? Li si metta a pulire gli alvei dei fiumi, a tenere aperte le vie di scolo dei ruscelli montani, come proponevo a Cristiano Shauli, dopo un incontro a Lauco in cui egli aveva parlato di problemi del lavoro il I° maggio, ed in particolare si eviti che vi siano in ogni dove chiuse e condotte forzate per produrre energia idroelettrica, anche perché così fiumi ruscelli e torrentelli non hanno più un regime naturale, un corso naturale, e la potenza dell’ acqua, come la sua presenza o meno,  possono ora anche dipendere dagli sbarramenti aperti  chiusi o semiaperti, che, essendo di privati, non possono esser toccati da pubblica mano. Ed anche il Messaggero Veneto di oggi, primo novembre 2018, mostra una fotografia con le chiuse abbassate e piene di detriti a Piani di Luzza, mentre vi è chi dice che anche la chiusa all’altezza della Cartiera di Ovaro sia stata aperta troppo tardi. «[…] tra l’allerta arancione e l’allerta rossa c’era tutto il tempo per alzare le chiuse che ora si intravedono coperte di tronchi e rami […]» sostiene uno sfollato, mentre il sindaco Mara Beorchia assicura che verranno fatte tutte le valutazioni del caso. (Giacomina Pellizzari, L’acqua è salita subito, abbiamo avuto paura, in Messaggero Veneto, 1 novembre 2018) Ma Gabriele Cattarinussi non è l’unico ad aver detto che alcune chiuse non sono state aperte, o non sono state aperte in tempo. E per quanto riguarda il Messaggero Veneto di oggi, festa dei Santi, vi invito a leggere il pezzo di Andrea Valcic, intitolato: “Sfalciare, pulire, preservare. Meno ciance per la montagna”. Ma ci si ricorderà poi di progettare in tal senso, finita l’emergenza?

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Ho scritto questo pezzo per dire che i problemi che hanno inciso su questa situazione carnica sono tanti e si sommano, ed il primo è quello della manutenzione, ma non si sa da parte di chi, se è tutto in via di sgombero e privatizzazione, senza una visione d’insieme. Perché tutti questi disastri non sono stati causati solo dalla storica montana dei Santi, perché nulla è come prima.

Senza offesa per alcuno, men che meno per Secab, ma solo per porre all’ attenzione dei lettori alcune mie riflessioni, anche contestabili, e per pensare seriamente alla nostra terra, che davvero amo e non vorrei vedere ferita, perchè ciò che faremo oggi condizionerà per sempre il futuro.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: https://it.geosnews.com/p/it/friuli-venezia-giulia/maltempo-gravissimi-i-danni-carnia-spezzata-in-due-c–il-sole-ma-domani-torna-la-pioggia_21910810, che a sua volta l’ha ripresa da http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2018/10/31/news/maltempo-gravissimi-i-danni-carnia-spezzata-in-due-domani-torna-la-pioggia-1.17411882, e raprresenta il crollo del ponta a Comeglians. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

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