Avevo promesso a voi lettori di riportare qui, per sommi capi, l’intervento, al convegno “Una scuola per la pace” di Riccardo Ruttar, sociologo, nato nelle Valli del Natisone nel 1947, personalità attiva nella promozione della cultura slovena nella provincia di Udine, coautore di: Sloveni ed emigrazione. Il caso delle Valli del Natisone, ed autore, tra le altre opere, di La comunità senza nome, e lo faccio qui. Premetto, però, che detto intervento è importante a livello storico più che altro, per mostrare quale fosse il vissuto della gran parte degli abitanti della Benečija ai primi anni ’80, secondo Ruttar. 

Per Ruttar la pace non è semplicemente “assenza della guerra”, ma è cercare il bene delle persone, il rispetto della loro volontà e della loro dignità, nonché l’assidua pratica della fratellanza umana. E la pace, prima di essere oggetto di dibattito, deve esser attuata nel «vissuto quotidiano, nella famiglia, nella scuola, nella strada e sulla piazza, nei rapporti interpersonali e nei rapporti tra i gruppi […]» [1]. Ma, a suo avviso, questo non era accaduto e non stava accadendo per coloro che abitavano nella Slavia Friulana, formata dai paesi che si trovano sopra Cividale, Attimis, Tarcento, e dalla Val di Resia.

Cartina dei paesi della Slavia friulana. (Da https://www.chiesettevotive.it/cammini).

Infatti, secondo lui, sino ad allora gli Sloveni del Friuli non erano stati considerati sulla base della loro appartenenza ‘etnica’. «Io- ha continuato Ruttar- a tutt’oggi posso dichiararmi sloveno, cittadino italiano di nazionalità slovena; ma lo Stato, la scuola, molta parte dell’opinione pubblica, non mi riconoscono come tale» [2], ma solo come una persona che deve uniformarsi a ciò che vuole lo Stato Italiano.

E così continua: «Se il problema dell’istruzione è purtroppo, preminentemente politico, lo è maggiormente per quelle popolazioni che, a causa della loro diversità etnolinguistica, si trovarono in sudditanza prima […], ed in minoranza poi, e ciò di fronte ad una maggioranza che non si preoccupava neppure di nascondere il suo esplicito programma di “assimilazione programmata» [3].  

Correva l’anno 1866 quando un plebiscito annetteva gli sloveni del Friuli al Regno d’Italia, – ricorda Ruttar -, dimenticandosi però di precisare che molti abitanti di quelle terre, che avevano goduto di notevoli privilegi sotto la Serenissima, avevano sostenuto, allora, l’opzione di diventare italiani, sperando che l’Italia si comportasse come Venezia nei loro confronti [4]. Ma, un mese dopo l’annessione, il Giornale di Udine riportava un programma, da riservarsi agli abitanti del distretto di San Pietro al Natisone, che prevedeva di eliminare “questi slavi” italianizzandoli «con il beneficio, il progresso e la civiltà» [5]. E per raggiungere pure questo scopo, nel 1878 – continua a raccontare Ruttar – a San Pietro al Natisone (non più San Pietro degli Schiavoni, o San Pietro degli Slavi, come comunemente allora chiamato), venne creato il secondo Istituto Magistrale della Provincia di Udine, che comprendeva anche Pordenone ed il Pordenonese [6].

«Poi la grande guerra con il suo seguito di tragedie e l’azzeramento dell’economia agricola del territorio sloveno basata sulla zootecnia» – prosegue Ruttar – ed a seguire il fascismo, con l’obbligo di utilizzare in pubblico, nelle scuole e nelle chiese solo la lingua italiana, riempiendo pure il territorio di spioni alla caccia di un catechismo in sloveno nascosto in soffitta o di qualche testo della Società di San Ermacora. E se un maestro avesse avuto l’ardire di usare lo sloveno a scuola, fin dal 1869, tre anni dopo l’annessione al Regno d’ Italia, sarebbe stato immediatamente destituito [7].

Io però ho trovato sul volume di Paolo Bonetti, “L’uso della lingua negli atti e nella comunicazione dei poteri pubblici italiani”, [8] che ad iniziare dal Seicento/Settecento, la ‘normalizzazione linguistica’ riguardò diversi stati europei. Così l’Austria aveva imposto la germanizzazione dei ladini, e gli ultimi che subirono tale pratica furono gli abitanti della Val Venosta in Alto Adige, e la Francia procedette a de-italianizzare i territori della Corsica, giungendo sino a ‘francesizzare’ anche i cognomi [9]. Inoltre a Trieste e zone limitrofe, essendo il personale degli uffici italiano, accadeva che lo stesso, prima che questo procedimento fosse normato per legge, scrivesse cognomi sloveni italianizzandoli [10].

Non da ultimo, se la trascrizione e modifica di cognomi italiani, ma anche tedeschi, in forma sloveno- croata, o di cognomi sloveni croati in forma italianizzata poteva dipendere, dall’ Ottocento in poi,  da funzionari pubblici o sacerdoti, è altresì vero che ciò poteva avvenire anche per adesione volontaria, dopo il passaggio, nel tempo, di una famiglia da una comunità linguistica all’altra. E anche quando non c’era alcun decreto imperiale o legge relativi a modifiche nei cognomi «i cambi di nomi erano continui» e segnalavano la cultura dominante in un gruppo familiare[11]. Per questo motivo nella Venezia Giulia è difficile identificare una diretta connessione tra nomi di famiglia ed appartenenza linguistico- nazionale, «così come non è significativo distinguere gli italiani che avevano un cognome di origine latina, friulana, veneta, da quelli con un cognome slavizzato» [12].

Ma ai tempi del convegno questi studi erano ancora al di là da venire.

Immagine recente di Riccardo Ruttar, di autore ignoto. (Da: https://www.dom.it/a-peste-fame-et-bello-libera-nos-domine/).

Comunque la circolare a cui si riferisce Ruttar, che di fatto imponeva l’uso dell’italiano nella Slavia Friulana, è quella datata 19 aprile 1869 inviata dal Commissario scolastico distrettuale di Cividale a tutti i sindaci di quell’area, che rammentava «le raccomandazioni governative circa l’uso delle lingue nazionali» [13]. E per vedere se queste indicazioni erano state seguite, il Provveditore Mandamentale visitò, poi, tutte le scuole in territorio slavofono. Ma in quel periodo era anche accaduto che catechismi in sloveno, stampati clandestinamente, circolassero in particolare dopo il 1870, visto l’appoggio della chiesa a tutto ciò che non era italiano, a causa della destituzione del Papa Re [14].

E Ruttar ricordava, al convegno citato, di aver preso bacchettate sulle dita dal maestro essendo stato sorpreso a parlare sloveno con i compagni a ricreazione. Ma si era negli anni ’50, quando tutto ciò che era sloveno e slavo suonava come qualcosa di comunista e filo Urss. Inoltre il sociologo sloveno rammentava pure i tassi di bocciatura a scuola dei bambini e ragazzi della Benečija, dovuti, a suo avviso, anche alle loro difficoltà ad italianizzarsi, dopo una infanzia passata nel mondo sloveno, che aveva portato ad una “selezione occulta” [15].

Se devo essere sincera, non credo che il ripetere l’anno scolastico fosse dovuto solo ed unicamente ad un fattore linguistico, anche se, come ha scritto mio padre sul Bollettino Parrocchiale di Cavazzo Carnico: « «Risulta abbastanza chiaro per tutti che la lingua materna, la parlata nativa, è espressione viva di esperienze, conoscenza, sentimenti, emozioni, correlati al vissuto del soggetto parlante, calato in un ambiente ben definito, in una comunità determinata da caratteristici, propri usi, costumi, vicende, tradizioni, forme di lavoro, di produzione, di trasformazione dell’ambiente. (…). La lingua riesce a saldare senso e significato dell’esperienza […]. La lingua è compendio, frutto, risultato del passato, […], essa aiuta a comprendere i problemi del presente, a stabilire programmi e traguardi per il futuro, con la cultura specifica di cui è portatrice» [16].

Ma prendo atto del fatto che Ruttar, a Clodig di Grimignacco, sostiene di aver incontrato una madre che gli aveva detto «Non mando più mio figlio a scuola perché, non comprendendo tutto quello che la maestra dice in lingua italiana, diventa irrequieto o assente e … viene preso a sberle» [17]. E se un genitore, allora, voleva far frequentare al figlio le scuole con lingua di insegnamento slovena, doveva mandarlo sino a Gorizia [18].

Copertina del volume scritto da don Marino Qualizza e don Natalino Zuanella che illustra, pure, le attività che, dal 1945 al 1955, le organizzazioni segrete nel Friuli orientale hanno condotto contro la minoranza linguistica nazionale slovena. (Da: https://www.reteitalianaculturapopolare.org/archivio-partecipato/item/2948-gli-anni-bui-della-slavia.html). [19].

Inoltre Ruttar rammenta pure come nella Slavia friulana vi fossero, dal secondo dopoguerra, non solo gli italiani ma anche gli “italianissimi”, da lui definiti una «specie di fauna politica che nella sua evoluzione storica non è ancora arrivata alla repubblica del 1948, ma si è fermata agli ideali di un secolo prima» [20] e che allora formavano pure il circolo Jacopo Stellini di Clodig di Grimignacco [21]. Non solo: nel 1984 vi era ancora chi, secondo lui, temeva che un gruppo minoritario “così mal ridotto” potesse minare la sicurezza dei confini dello Stato [22]. 

E già allora si presentava, in quella terra, il problema dello spopolamento, pur non essendo zona montana. «Solo negli ultimi trent’anni – scrive Ruttar – la popolazione dei comuni sloveni si è più che dimezzata, ripopolando i comuni del piano, da Cormons a Gemona […]» [23], ed è andata friulanizzandosi, mentre nella Benečija prendevano piede l’invecchiamento della popolazione, la povertà, la marginalità sociale, una programmata destrutturazione del tessuto sociale ed etnico, senza che alcuno avesse ancora calcolato il prezzo della ricaduta di questi importanti fenomeni sulla regione tutta. E «se i friulani si rendessero conto, essi per primi, di quanto ciò li interessi, in stretto legame con i loro stessi problemi quali la presenza militare nella nostra regione [24]– continua Ruttar -, quali l’effetto confine oltre che politico anche ideologico, ritroverebbero una nuova solidarietà, prima di tutto fra loro e poi fra tutti quelli che convivono su questo territorio» [25].

Ed a proposito della presenza militare in Friuli nei primi anni ’80, così si esprimeva il noto studioso della Slavia Friulana: «Non solo gli sloveni, ma anche i friulani sono stati educati, hanno assorbito e fatto parte del loro patrimonio culturale la presenza massiccia di militari sul territorio, nei paesi e nelle città. Siamo tutti, come dire, imbevuti di mentalità militare, dell’occupazione militare. È qualcosa che si respira … è impressionante entrare in Friuli e rendersi conto delle caserme, dei bunker disseminati a difesa dei confini […]. (…). Proliferano alzabandiere e fanfare quali manifestazioni di tipo folcloristico» [26]. Ed è pieno di tentativi di creare strani connubi tra scuola ed esercito.

Quindi, in sintesi, Ruttar si chiedeva allora se, in quella situazione, si potesse parlare di educare alla pace, quando vi era chi non sapeva ancora alzare la testa ed incombeva la militarizzazione del territorio, oltre l’ossessione per il confine.

Foto di Riccardo Toffoletti utilizzata per presentare la mostra citata in nota 5. (Da https://www.exibart.com/evento-arte/riccardo-toffoletti-dentro-i-paesi-valli-del-natisone-1968-2/). 

E giungiamo all’oggi. Forse alcuni aspetti si sono modificati anche per quanto riguarda le Valli del Natisone, ma l’ospedale di Cividale di fatto è stato quasi cancellato per la popolazione, con continue variazioni, riutilizzi, privazioni di ambulanze e personale dirottato temporaneamente ora qui ora là [27], tanto sono pochi, come noi carnici.

Quindi da una locandina reperita in rete, si trova che, l’8 settembre 2017, si era tenuto a Pulfero un convegno intitolato: “Il valore del plurilinguismo”, “Nonni, genitori, insegnanti: quale scuola per la Slavia friulana?” – il che significa che il problema esisteva ancora, anche se coniugato in modo diverso da allora, perché la scuola bilingue infine raggiunse quel territorio, anche se la prima fu privata [28]. Più tardi, liberata finalmente dalla militarizzazione e spero dai gruppi paramilitari di estrema destra che l’avevano infestata, a cui si riferisce, pure, il libro “Gli anni bui della Slavia”, ora la Benečija tenta intelligentemente di lanciarsi a livello culturale e turistico, promuovendo sia le grotte di Lusevera che percorsi naturalistici, oltre ‘cammini’ per vistare le 44 chiese delle Valli del Natisone, a cui sono dedicati 3 interessanti filmati su you tube, visibili in: https://www.chiesettevotive.it/cammini, e lanciando il suo museo etnografico, che ha un sito: http://www.museoetnografico.eu/. E scusatemi, ma vi confesso che ho posto queste ultime righe per invogliarvi a visitare, covid permettendolo, queste proposte.

Infine ricordo Alvaro Petricig, regista e grafico, che ha vinto numerosi premi, e il Centro Studi Nediža, meritorio oltre che per l’attività culturale, anche per il recupero del patrimonio fotografico, e il periodico Novi Matajur, oltre che Dom. E come dimenticare la non giovanissima maestra Olgica Tedoldi, scambiata non si sa per chi da facebook, che le ha chiuso il profilo? Ma per fortuna altri profili che gestisce sono ancora visibili, per esempio https://www.facebook.com/groups/amicibenecia/, e il blog “Friuli multietnico”.

Quello che invece bisognerebbe riproporre, scrivo a chiusura di questo articolo, sono la non violenza, ricordata come valore anche dall’Arcivescovo di Udine Alfredo Battisti [29], e l’educazione alla pace, ora quasi dimenticata, mentre immagini di armi e guerre, spesso senza commento alcuno, come fosse normale ciò che accade in Siria o nello Yemen, tanto per fare due esempi, e videogiochi di combattimenti saturano l’aria.

E per ora mi fermo qui.

Laura Matelda Puppini

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[1] Intervento di Riccardo Ruttar, in: AA.VV., “Una scuola per la pace”, atti del convegno promosso dal Comitato Friulano per la pace, Salt di Povoletto, 1984, pp. 52-53.

[2] Ivi, p. 53.

[3] Ivi, p 54.

[4] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Slavia_friulana. Qui si legge che semmai, dopo la breccia di Porta Pia, il clero sloveno divenne filo slavo ed anti italiano, in quanto il Regno d’Italia era considerato reo di aver spodestato il Papa Re.

[5] Intervento di Riccardo Ruttar, op. cit., p.54. In realtà quello che, nel secondo dopoguerra si vedeva relativamente a questa popolazione, erano la povertà e la dignità al tempo stesso, come testimoniato dalla bellissima mostra fotografica di Riccardo Toffoletti “Dentro i paesi – Valli del Natisone 1968”.

[6] Ibidem. Anche mia nonna Anna Squecco Plozzer, prima di andare profuga in Liguria, frequentò detto Istituto volendo diplomarsi maestra elementare.

[7] Ivi, pp. 54-55.

[8] Paolo Bonetti, L’uso della lingua negli atti e nella comunicazione dei poteri pubblici italiani, G. Ciappichelli ed., To 2016.

[9] Silvio Troilo, Il diritto al nome degli appartenenti alle minoranze linguistiche: dall’ italianizzazione forzata alal facoltà di riassunzione nella forma originaria, sezione seconda, in: Paolo Bonetti, op. cit., p. 330 e nota 154 p. 330.

[10] Ivi, p. 329.

[11] Ibidem. Il fatto che gli  italiani nel territorio sloveno – croato avessero richiesto l’adesione volontaria al cambio di cognome (che se non veniva attuato apriva a ben foschi scenari) fa comprendere come il fascismo intendesse imporre una volontarietà nell’atto, di fatto non presente, ed una intenzione personale di mutare, con il cognome, la comunità di riferimento.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, nota 154 p. 330.

[14] Ibidem.

[15] Intervento di Riccardo Ruttar, op. cit., p. 56.

[16] Geremia Puppini. Lingua materna e formazione individuale del bambino, prima pubblicazione su “Il nestri Paîs”, bollettino parrocchiale di Cavazzo Carnico numero 11 agosto 1985, seconda pubblicazione su www.nonsolocarnia.info.

[17] Intervento di Riccardo Ruttar, op. cit., p. 57.

[18] Ibid.

[19] Nel merito cfr. anche Faustino Nazzi, Alle origini della “Gladio”, ed. La Patria del Friul, 1997. Dopo l’uscita del libro l’autore fu querelato il 25 gennaio 1998. Ma i capi di accusa gli furono comunicati solo il 14 maggio 1999. Quindi ci fu un abboccamento interlocutorio con Alberto Cunial maresciallo aiutante dei carabinieri due giorni dopo, si giunse infine alla prima udienza preliminare e quindi alla seconda, alla terza ed alla quarta, che si conclusero con un rinvio a giudizio. Quindi seguirono quattro udienze processuali, nel 2001, fino alla sentenza, in primo grado, di condanna da parte del giudice dott. Paola Roja”, con le attenuanti generiche, la non menzione, ecc. ecc. Di diverso avviso fu la Corte di Appello di Trieste che, l’11-5-2004, assolse l’imputato dal reato ascrittogli, perché il fatto non costituisce reato. (https://fauna31.wordpress.com/alle-origini-di-gladio/).

[20] Ivi, pp. 57-58.

[21] Il Circolo Jacopo Stellini di Clodig esiste tuttora e, dal 1980, pubblica un periodico intitolato: La *voce del Friuli orientale”. Attualmente è presieduto da Mario Ruttar e, oltre promuovere attività culturali, cura anche il Museo Ruttar, preziosa collezione di oggettistica di ogni tipo, raffigurante gli usi ed i costumi della società rurale delle Valli del Natisone di inizio secolo. (http://www.comune.grimacco.ud.it/portale/cms/Cultura/Associazioni/associazioni3.html).

[22] Intervento di Riccardo Ruttar, op. cit., p. 59.

[23] Ibidem.

[24] Sull’argomento cfr. Carnia terra di servitù militari, in www.nonsolocarnia.info.

[25] Intervento di Riccardo Ruttar, op. cit., p. 59.

[26] Ivi, p. 60.

[27] Cfr. https://www.nonsolocarnia.info/nuova-politica-aziendal-sanitaria-per-le-aree-cosiddette-interne-e-non-sol/; https://www.nonsolocarnia.info/la-sanita-regionale-fvg-vista-in-particolare-da-pazienti-paganti/; ww.nonsolocarnia.info/walter-zalukar-ripensare-la-sanita-regionale/. 

[28] Cfr. https://www.cci.tn.it/ita/aree/Italia/Mlada-brieza-la-giovane-betulla-174167. Qui si legge che, dopo esperienze di corsi estivi, «proprio nella cerchia che in quel tempo operava attorno al Centro studi Nediža si concretizzò, su proposta di Paolo Petricig, l’idea di istituire una scuola della comunità delle Valli del Natisone, privata, che potesse essere da stimolo alla scuola statale per introdurre l’insegnamento della lingua slovena. Dopo i primi dieci anni di Mlada brieza, nel 1984, a San Pietro al Natisone aprì il “centro prescolastico bilingue”, primo embrione di quello che oggi è l’Istituto comprensivo statale con insegnamento bilingue sloveno-italiano».

[29] Intervento di Mons. Alfredo Battisti, Vescovo di Udine, in: AA.VV., “Una scuola per la pace”, op. cit., pp. 98-102.In particolare Monsignor Battisti cita, alla fine del suo discorso, Ghandi e Martin Luther King. 

L’immagine che accompagna l’articolo ritrae Riccardo Ruttar ed è tratta da: http://www.andamentolento.it/2019/11/13/un-pugno-di-terra-del-caucaso/. Laura M Puppini.

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