Con l’andar del tempo, il fotografare si trasformò in un vero e proprio mestiere a carattere artigianale e quindi, in sintesi, in una professione.
L’arte di fotografare “bene”, cioè seguendo canoni precisi, veniva appresa attraverso il garzonato presso le botteghe esistenti.
All’apprendista non venivano richieste particolari qualifiche culturali bensì buona volontà, meticolosità ed un po’ di senso commerciale il che significava disponibilità assoluta nei confronti dei desideri della clientela,  specie nella ritrattistica. (Italo Zannier, Storia della fotografia italiana, Editori Laterza, 1986, p.64).

Nella seconda metà dell’Ottocento fiorirono, un po’ ovunque, studi, laboratori, atelier, cioè locali attrezzati, prevalentemente, per la ritrattistica, gestiti, spesso, da fotografi di professione. Essi potevano assomigliare a dei ricchi salotti mondani o essere molto più modesti, ma rispondevano a delle esigenze sociali ed artistiche ben precise. (Ivi, p. 50-54).
Il ritratto si andò conformando ad uno stereotipo praticamente d’obbligo che presumeva una certa organizzazione dell’atelier. In particolare il soggetto veniva ripreso appoggiato ad una colonnina o tavolino; alle spalle un fondale più o meno ricco; fiori, libri, ombrelli, giocattoli per i bambini (il classico cavalluccio di legno), erano usati quali ornamenti per abbellire l’immagine.
Spesso, pertanto, i ritratti di atelier, sia che questi fossero eleganti e per una clientela scelta, sia che fossero funzionali ad una classe sociale media, si assomigliarono tutti, nella loro impostazione “scenica”, da Nord a Sud. (Ivi, pp.- 55-56).

Gli atelier più rinomati proponevano alla clientela il loro operato attraverso cataloghi in visione, atti a dimostrare la bontà del prodotto; i fotografi che li gestivano usavano biglietti di presentazione e siglavano ogni positivo. Si era, ormai, in piena fase di commercializzazione.

Il più noto studio fotografico italiano, all’epoca, fu quello dei fratelli Alinari di Firenze, specializzato, fra l’altro, nella riproduzione di monumenti e “città d’arte”. Gli Alinari cercarono di realizzare, con la riproduzione fotografica, «un ideale museo in miniatura», fatto di  monumenti, opere d’arte, paesaggi, offrendo le loro immagini attraverso ricchi cataloghi. (Ivi, p. 50).
Peraltro, non mancò certo una qualificata concorrenza: basti pensare al loro concittadino Giacomo Brogi, poi datosi alla ritrattistica. (Ivi, p.51).

Nel 1861, con l’Unità d’Italia e Firenze capitale, «il lavoro e l’importanza degli Alinari crebbe enormemente». (Ivi, p. 50). Essi aprirono succursali e recapiti nelle principali città d’Italia e trasformarono quella che, sino ad allora era stata un’attività artigianale, in una vera e propria attività “aziendale”, che impiegava diversi lavoranti:  si trattava di una prima forma embrionale di quella che sarebbe stata, successivamente, l’industria fotografica. (Ivi, p.50).
Non solo: il loro modo di fotografare fece testo: impose, di fatto, i canoni da seguire per ottenere “un buon prodotto” e caratterizzò un’ epoca. (Ivi, pp. 50-52).

Anche se le immagini dei primi fotografi “di qualità” ci permettono, ora, di avere riproduzioni fedeli di monumenti e luoghi di interesse artistico, non bisogna però dimenticare che il loro limite fu la decontestualizzazione della figura attraverso l’ “azzeramento dello sfondo” in quanto la “moda” del tempo dava valore alla figura che doveva risaltare su uno sfondo neutro, ed emergere nella sua “pienezza”. (Ivi, p.54).

Si privilegiarono l’aulico ed il monumentale, ma il gusto di allora non disdegnò neppure scene che potremmo definire “di folklore locale”: contadini, pastori, mendicanti, posarono nei loro costumi tipici, con gli attrezzi del “mestiere”, creando belle immagini di “tradizione” locale.
Ma, nonostante la posa di questi più o meno improvvisati modelli, questo tipo di fotografia mostra “una forza” realistica «per cui, nonostante l’intenzione, […], traspare, dalla “verosimiglianza” dell’immagine, un suggestivo indizio documentario, antropologico e sociologico». (Ivi. p.54).

Come non pensare ad Umberto Antonelli, tanto per fare un esempio, legato alla Carnia?

Soltanto i cosiddetti dilettanti “fin de siecle”, spesso di famiglia agiata, con le loro trasgressioni poterono permettersi il lusso di una lettura personale dell’ambiente o di ambienti diversi, avviando un nuovo utilizzo della fotografia: quello di strumento linguistico, descrittivo, espressivo e critico. (Ivi, p.81).

Comunque il sorgere di opifici, stabilimenti , fabbriche d’ogni genere, legati, in forma diretta od indiretta, al mondo della riproduzione fotografica ed il diffondersi “a macchia d’olio”, alla fine dell’Ottocento, degli “atelier” e dei cultori della fotografia, fu dovuto, anche, a netti miglioramenti in campo tecnico: l’inglese Scott Archer rivoluzionò il settore con il suo “collodio umido” su lastra di vetro; un’ulteriore salto di qualità fu portato dall’introduzione, successiva, delle lastre secche alla gelatina. Infatti, grazie ad esse, i fotografi potevano, ormai, preparare le lastre in proprio grazie al fatto che l’emulsione, con cui dovevano venir trattate, si trovava già pronta in commercio, prodotta da piccoli appositi opifici, che provvedevano, direttamente, alla vendita. (Ivi, 101).

L’ultimo decennio dell’800 ed i primi ‘900 videro crescere, in Europa come negli U.S.A., l’industria fotografica, pilotata dalla statunitense “Kodak”, seguita a ruota da altri “colossi “ europei.
Di fatto, nel tempo, la prima si impose sul mercato sia per materiali che per attrezzatura, ed aprì la via alla realizzazione della pellicola fotografica, alla produzione di macchine fotografiche più contenute nel prezzo, sempre più “maneggevoli “ e più facili da usare, in sintesi a quel “mercato della fotografia a basso costo” ed alla portata dei ceti medi che prese piede, in Italia, nel secondo dopoguerra, nonché all’avvento della cinematografia, del foto – giornalismo e quant’altro vi fosse di legato alla “ripresa”, tanto che ormai si parla di “civiltà e società dell’ immagine”. Ma questa è un’altra storia.

• Il “boom” della fotografia pittorica.

Superata la meraviglia suscitata dai risultati iniziali, si credette, sempre con maggior convinzione, che l’abilità del fotografo fosse affidata più ad aspetti tecnici che a doti personali, e che la fotografia non fosse che una forma di artigianato aperta a chiunque avesse un po’ di attitudine scientifica e di talento artistico, nonché sapesse adeguarsi al gusto del momento.

Alla fine dell’800 prese piede, anche in Italia, la cosiddetta “fotografia artistica o pittorialista”, che diventò il nuovo riferimento culturale fino agli anni ’30 del XX° secolo, ed anche successivamente. E per artistico – spiega Italo Zannier – «si intese […] tutto ciò che, nell’immagine, risultava, in qualche misura, “sentimentale”. Bastò poco, sia ai dilettanti che ai professionisti più impegnati, per qualificare “artisticamente “ il proprio lavoro. Una verniciata di romanticismo nella posa […], un semplice viraggio colorato […], una più impegnativa stampa alla gomma, al bromolio od in resinotipia…» (Italo Zannier, op. cit., p.119).

Contadine, lavandaie, tramonti, languidi nudi o severi ritratti d’artisti furono, a quanto pare, i soggetti dei cosiddetti “fotografi d’arte”, amanti, pure, del ritocco anche pesante, che, assieme ad altri “accorgimenti”, caratterizzava l’aspetto “kitsch” di questo tipo di fotografia. (Ivi, p. 118).
La “pitto-fotografia” prese piede anche nell’ambito delle vedute paesaggistiche e delle cartoline illustrate, e godette di un alto gradimento tanto da aumentare il circuito commerciale della ripresa fotografica. (Ivi, p. 53).

In questo tipo di fotografia non manca, in alcuni casi, una certa “teatralità” che aveva caratterizzato, pure, le opere di alcuni pittori del Cinque – Sei – Settecento, ove lo spazio da dipingere era vissuto come una “scena”. (Cfr., per fare solo un esempio, alcuni quadri del Guercino in: “Guercino” – guida con le opere scelte da Vittorio Sgarbi. – De Agostani ed. – Novara 2003. Vedi, inoltre, il capitolo “Realtà e finzione” in Antonio Pinelli, La bella maniera, Einaudi ed., 2003).
Si può dire, senza timore di smentita, che, negli anni che vanno dagli inizi del ‘900 al 1940, al di là di rare eccezioni, il gusto pittorico imperò in Italia e, letteralmente, la invase. La fotografia pittorica divenne, pure, promotrice di se stessa, “sponsor” del proprio processo di commercializzazione, proprio grazie alla sua pretesa artisticità. (Italo Zannier, op. cit., p.119).

«Per quanto riguarda il Friuli – scrive Gianfranco Ellero – i riferimenti ideologici dei maggiori fotografi, fra le due guerre, furono:
– Un ruralismo tardoromantico che si sposava con il folklore e con la retorica nazionalista e fascista […];
– La retorica della grande guerra e della “vittoria mutilata”;
– I miti della montagna come luogo di salute fisica e morale, di avventure e di ardimenti, fioriti intorno alla cultura ed alla prassi della Società Alpina Friulana». (Gianfranco Ellero, Breve storia della fotografia in Friuli, Società Filologica Friulana, Udine, 1991, pp. 41 – 42).

«Apparvero allora, e divennero una moda, alcuni stilemi che condizionarono la fotografia friulana anche dopo la seconda guerra mondiale: una spiccata tendenza pittorialistica; […], l’utilizzazione di “figure dialoganti”, […]; la mitizzazione del paesaggio alpino, sempre proposto come luogo desiderabile;  […]; un’irresistibile attrazione per un folklore già allora inesistente nel modo di vestire e di danzare; la costante attenzione per i segni del cristianesimo spesso associati a quelli della guerra o del folklore; la retorica, infine, del friulano “ salt, onest, lavoradôr”». (Ivi, p.42).
In sintesi anche in Friuli si manifestò, nei primi decenni del Novecento, quel rapporto fra l’artista e la società del suo tempo; ed anche i fotografi agirono sotto l’influsso della cultura dominante e dei suoi miti. (Gianfranco Ellero, Il mito del paesaggio nella fotografia del Novecento in Friuli, Arti Grafiche Friulane, Udine 1988, p.6).

Un’immagine quale quella dei tre falciatori in posa, immobili, su un prato fiorito della Carnia, rappresentata dai profili delle montagne, – scrive sempre Ellero riferendosi ad una nota fotografia di Umberto Antonelli (Cfr. AA.VV., La Carnia di Antonelli, Centro Editoriale Friulano, 1980, p.22) – «rassicurava la coscienza delle classi dominanti, perché comunicava un messaggio di ordine e tranquillità sociale ai politici; di salute spirituale al clero; […], di salute fisica e di equilibrio economico ai borghesi proprietari della terra, che potevano sentirsi anche benefattori dei contadini.» (Gianfranco Ellero, Il mito…op.cit., p. 7).

Ma, secondo Zannier, la fotografia artistica svolse, pure, un altro importante ruolo, in Italia.

«La fotografia artistica – scrive – altrove demodèe, […], in Italia resistette fino alla fine degli anni ’30 e fu anche un alibi per eludere, durante il fascismo, quegli impegni e quelle responsabilità che il fotografo, come testimone della storia, avrebbe invece dovuto accettare come funzione primaria del suo mestiere, invece di rifugiarsi nell’Arcadia più improbabile, avvallata, anche culturalmente, dalla fotografia pittorica, con poche riserve ed obiezioni». (Italo Zannier, op. cit., p. 168).

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L’ immagine che correda l’articolo, che mostra un biglietto di presentazione dello studio di Giacomo Brogi,  è ripresa da: https://it.wikipedia.org/wiki/Giacomo_Brogi, e può esser pubblicata riportando questa dicitura: «Brogi, Giacomo (1822-1881) – Marchio 1″ di Giacomo Brogi – scan. Con licenza Pubblico dominio tramite Wikimedia Commons – https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Brogi,_Giacomo_(1822-1881)_-_Marchio_1.jpg#/media/File:Brogi,_Giacomo_(1822-1881)_-_Marchio_1.jpg».

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