«Il mio casato non è originario di qui, ma di Clauzetto. Il mio trisavolo è venuto ad Ampezzo nel 1829. I Nigris Beorchia avevano una vasta proprietà ed avevano bisogno di personale per la fienagione e così la mia famiglia è giunta qui. Mio bisnonno Osvaldo, detto ‘Svualdòn da siea’, (lo chiamavano Svualdòn perché era alto), è andato militare sotto l’impero austriaco, però lui era muratore. E so che ha lavorato anche per costruire il ponte del Teria. E Pietro Bullian, di altro ceppo e della cui casata è Maurilio, mi diceva: “Ricordati, ragazzo, che quando passi il ponte devi toglierti il basco, perché tuo bisnonno, qui, ha lavorato”.
Ho anche una foto di mio bisnonno.  

Mio nonno si chiamava Pietro, e, come il padre, faceva anche lui il muratore, mentre mio padre era un bravissimo decoratore.
Non so chi sia Pietro Bullian, nato a Lione nel 1925, so invece che vi era un mio omonimo, Elio Bullian, che era della Folgore e reduce di El Alamein. Era con Mario Martinis, zio di Cristina, e si è salvato per un pelo nella famosa battaglia.

Io ho conosciuto Mario, Ottavio e Francesco Lucchini al mio rientro dalla Francia, nel luglio del 1942, perché abitavano qui vicino, erano dirimpettai, limitrofi. Loro padre, Andrea, era un carpentiere di prima categoria, un teleferista, ed un bravo calzolaio, che sapeva fare le scarpe, non solo aggiustarle. A me ha ricavato un bel paio di scarponi da un vecchio paio di stivali di un tenente dell’aviazione, che era ospite da mia zia. Era morto, abbattuto con l’apparecchio, ed erano rimasti gli stivali.

Siamo tornati, da profughi, in Italia, perché in Francia, dove sono nato e dove mio padre, Angelo Osvaldo Faustino, classe 1897, decoratore, aveva molto lavoro, era iniziata a mancare la materia prima: nichel, biacche, colori, e c’erano bombardamenti in continuazione.
In quella situazione, il governo francese decise di dare un’agevolazione alle famiglie di lavoratori stranieri che volevano rientrare nel paese d’origine, mettendo a loro disposizione, in cambio solo di una piccolissima cifra, un intero vagone ferroviario per portar via quel poco di arredo che avevano e gli strumenti di lavoro. Così anche noi, con il nostro vagone, passammo il confine, e giungemmo fino a Villa Santina con le ‘nostre cose’, malgrado la guerra. Percorremmo, poi, la strada fra Villa Santina ad Ampezzo, con tutti gli averi, grazie a mio zio Bernardino Del Fabbro, che aveva un carro guidato da una pariglia di cavalli. Egli faceva di mestiere il ‘cjaradôr’, ed aveva la stazione all’altezza del ponte di Mediis. Aveva avuto due figli, due maschi, che erano morti, ambedue, in Russia. Del Fabbro lavorava principalmente per Umberto De Antoni, trasportando i tronchi, che venivano portati giù con la teleferica dal monte Pura sino alla segheria di Villa Santina. Umberto De Antoni era il più grande industriale della Carnia, e viaggiava con l’automobile con le tendine, per non farsi vedere, ed abitava anche lui a Villa Santina.
Io ho fatto le scuole elementari in Francia, ma poi ho dovuto abbandonare tutto e riprendere la scuola ad Ampezzo, mentre la situazione andava di male in peggio.

La mamma di Cristina Martinis faceva parte della famiglia Lucchini, si chiamava Rita, era sorella di Ottavio, Francesco e Mario, ed era nata nel 1928. Andrea ed Erminia Lucchini, con i figli, stavano a Lateis di Sauris, ma poi erano scesi ad Ampezzo anche per far frequentare le scuole professionali serali ai figli.
Nel 1942, quando sono giunto dalla Francia, qui però c’erano solo Francesco detto Franz, nato nel 1926, che lavorava con il padre presso la ditta Monti, ed i genitori, mentre i suoi fratelli, Mario, nato nel 1920, ed Ottavio, nato nel 1922, erano soldati e Rita, in quel momento, si trovava a Collina, presso la zia. Così, da ragazzino, ho pensato: “Guarda quella famiglia ha un figlio solo, come la mia!” Invece, poi, è ritornata Rita, e sono arrivati a casa prima Ottavio e poi Mario, e la famiglia è cresciuta.
Per quanto riguarda Andrea, loro padre, so che era più vecchio del mio e che non si interessava di politica e che amava andare a caccia.  
Durante la guerra aveva sempre lavorato con la ditta Monti, che ha costruito per la Sade la centrale nella caverna. Era un lavoro molto duro, e c’era tanta polvere. E Franz, che lavorava con suo padre, si lamentava perché diceva che era duro spingere i carrelli fra le rocce. Poi, però, sotto l’occupazione tedesca, la Monti ha smesso di lavorare, perché la situazione era diventata impossibile, ed ha chiuso i cantieri praticamente poco prima che venisse incendiato Forni di Sotto. Andrea era carpentiere, ma faceva pure il calzolaio, ed era molto bravo nel costruire teleferiche. Nel dopoguerra, dato che non c’era molto lavoro, si era impiegato nella costruzione di una di queste che partiva dal Lumiei e andava verso Pani. E poi costruì anche una piccola teleferica domestica, che partiva dal poggiolo e giungeva sino al mio orto.
Allora venivano con i camion da Padova a prendere legname, ed egli aveva anche la funzione di smistarli. E per terminare, alla fine degli anni cinquanta, Andrea è andato a lavorare fuori, a Pantelleria ed ad Isola delle Femmine.

MARIO LUCCHINI

Mario, nel 1940, aveva lavorato al fianco degli ingegneri nella fase di tracciamento della diga. Ma poi vi fu uno sciopero, e gli scioperi, a quei tempi, erano tutti vietati. E dopo lo sciopero, i padroni hanno scremato i lavoratori, togliendo le persone che pensavano potessero essere pericolose politicamente per l’ambiente di lavoro. Ed anche Mario Lucchini fu mandato a casa. E l’ingegnere alle dipendenze del quale lavorava protestò, perché Mario era un bravissimo canneggiatore.
Poi è stato arruolato, ed è andato a combattere sul fronte greco – albanese. (1). Quindi è ritornato a casa ma poi è stato immediatamente richiamato, come tutti quelli nati nel 1920, ed è stato inviato in Montenegro a Banja (2), dove si trovava il 22 maggio 1942, con il 383° Reggimento Fanteria Venezia, plotone sciatori, 10^ Compagnia. (3). Qui venne ferito alla spalla sinistra e fu ricoverato in un ospedale, quindi fu mandato per una breve licenza a casa, ed infine fu rispedito al fronte, in Serbia, a Sìenza (4), ove risultava trovarsi il 20 dicembre 1942. E fu preso prigioniero dai partigiani slavi.
Egli viaggiava su di un veicolo che faceva parte di una autocolonna militare. Quindi scese, con alcuni commilitoni, per salire su di un colle in perlustrazione e, voltatosi, vide l’autocolonna in fiamme. Poi il gruppo di cui faceva parte fu raggiunto, circondato e catturato dai partigiani titini che avevano causato l’incendio. Allora era già ferito, e quando era costretto a portare feriti partigiani slavi, sentiva il suo sangue scendergli dalla spalla. E raccontava che qualche volta aveva preso anche qualche botta.
In quel periodo, però, i tedeschi avevano organizzato una grande offensiva, ed i partigiani titini dovettero ritirarsi sulle montagne, e nella confusione lasciarono perdere i prigionieri. Mario ed un suo compagno di prigionia si trovarono così da soli, isolati. Quando infine videro i tedeschi che avanzavano, il suo compagno volle esporsi segnalando la sua presenza, nonostante Mario gli avesse detto di non farlo perché poteva esser scambiato per un ribelle, e fu falciato dai nazisti. Mario invece si distese ed attese che i tedeschi lo raggiungessero, e quindi, essendo stato riconosciuto come un “camerata”, venne portato nel loro campo. Ma lì non gli davano cibo sufficiente, e così fu costretto a raccogliere le scatole di carne che buttavano via i soldati, per recuperare quel poco che era rimasto all’interno. Ma naturalmente, nel raschiare, si era tagliato le dita. Infine fu caricato su di una nave ospedale, raggiunse l’Italia e fu ricoverato all’ospedale di Verona, da cui fuggì dopo l’8 settembre 1943.

Ottavio Lucchini, invece, era nato nel 1922. Militare nella campagna di Russia, era stato là ferito poco prima di Natale durante un assalto: una scheggia di granata gli aveva fratturato la mandibola (5). Così fu inviato all’ospedale militare di Roma, dove lo curarono bene. Si vedeva la cicatrice, ma nulla di più. E a spese dello Stato i suoi genitori avevano potuto anche andare a trovarlo. Allora non era ancora iniziata la terribile ritirata di Russia, e l’esercito italiano riusciva ancora ad organizzare un servizio sanitario. Poi, quando è stato dimesso, è andato in convalescenza a Rimini, sempre a spese dello Stato, e poi è rientrato qui ad Ampezzo.

Poi giunse l’8 settembre 1943. Qui ad Ampezzo quasi non ci accorgemmo di cosa era capitato, e quei pochi superstiti di Russia, presenti in paese, stavano buoni e zitti a casa. E nell’ autunno del 1943 qui la situazione era abbastanza tranquilla. I tedeschi ci mandarono solamente un sergente, un piccoletto, soprannominato “Tac”, che aveva come compito di insegnare agli anziani del paese a marciare battendo i tacchi, da cui il suo soprannome, mentre noi, ragazzetti, incuriositi e divertiti, spesso li seguivamo ridendo.
Quindi, nel novembre 1943, giunse ad Ampezzo una strana e bella orchestra, che suonava molto bene, che suonava in piazza, e tutti la andavamo ad ascoltare. Ma poi mi accorsi che era un’orchestra di ben armati. Era formata da militari dell’R.S.I. ed iniziò a proiettare film contro gli americani. E si capì che erano stati mandati ad Ampezzo a scopo propagandistico, per inculcare nella popolazione che, mentre gli americani erano solo capaci di bombardare, i tedeschi, invece, offrivano pace e tranquillità.
E in effetti quell’ autunno era tutto calmo, e qui da me giungevano gli anziani a scaldarsi, e so che prendevano la situazione come veniva, senza preoccuparsi troppo, quasi che quello che stava accadendo fosse stato un diversivo alla routine paesana.

E una volta io, mio padre, Domenico il fabbro e Mario, prima che aderisse alla resistenza, siamo sgusciati via insieme, mentre arrivavano in paese i repubblichini, e ci siamo rifugiati nella famosa caverna di Susanna. E quel giorno abbiamo rischiato parecchio, perché poi siamo ritornati per vedere se i repubblichini se ne fossero andati via, e siamo arrivati fin sotto il muro di casa, e c’erano proprio loro nel cortile. E tuo zio mi ha detto di star buono, perché se ci vedevano … E poi siamo scivolati piano piano via, e siamo ritornati alla grotta. E Mario aveva anche allora con sé la famosa valigetta in ferro, che tutti pensavano contenesse cibi, ed invece aveva al suo interno l’occorrente per sbarbarsi, cosicché, nel caso fosse stato intercettato dal nemico, si sarebbe mostrato ben rasato, e sarebbe stato scambiato meno facilmente per un partigiano.

Poi purtroppo arrivò il marzo 1944, ed il momento in cui doveva esser espletata la leva della classe 1925. E questo divenne un problema. Quelli nati in quell’anno dicevano: “Cosa facciamo?” E non sapevano che fare.
Ma poi è accaduto l’omicidio di Giobatta Candotti, un ragazzo buono, un lavoratore. Mi pare ancora di rivedere Leonardo, suo papà, che piangeva continuamente il suo figlio ucciso perché non aveva voluto salire su un camion di repubblichini. Doveva finire un lavoro … Quelli gli spararono. Con lui c’era Arturo Felissatti, che aveva forse 16 o 17 anni. Non appena vide il camion egli si nascose in un tombino dell’Anas e non fu trovato. Dopo un ben po’ di tempo ritornò a casa tutto smarrito e confuso. Aveva preparato la mobilia per le nozze Tita, era in procinto di sposarsi… E fu la sua morte a sollevare l’indignazione del paese, seguita dall’incendio di Forni di Sotto. E iniziò la resistenza organizzata ampezzana.
Prima della morte di Tita Candotti i cosiddetti partigiani erano un po’ dei cani sciolti; dopo l’incendio di Forni di Sotto si sono organizzati, con comandanti e commissari, e comandanti qui erano Mario Candotti, che era stato in Grecia e Russia, e Ciro Nigris, che era stato anche lui in Russia, ed hanno incominciato ad impostare il movimento partigiano sia dal lato militare che dal lato politico.

MARIO LUCCHINI ‘ZETA’ (ULTIMO A DX) CON ALTRI PARTIGIANI.

Ma mentre ad Ampezzo la storia andò avanti come in gran parte dei paesi della Carnia, Sauris aveva, dopo la Zona Libera, chiesto un presidio tedesco che lo sostenesse in funzione anti- cosacca, dato che gli abitanti erano di madre lingua tedesca. Così i tedeschi inviarono 200 soldati che, nel passaggio, uccisero una persona qui, ad Ampezzo, in borgo Clendis. E mi ricordo che giunse il medico Armando Zagolin che sentenziò che non vi era nulla da fare, e che quello era tutto bucato.

Mi rammento pure di un polacco che disertò dall’esercito tedesco mentre la colonna di soldati si portava a Sauris. Egli lasciò i compagni e si nascose nella condotta forzata della Sade in località Cretis, e quindi raggiunse Plan dal Sac, ove, in una grotta, l’ingegner Luciano Di Brai, direttore dei lavori della diga del Lumiei, aveva posto diversi macchinari. Fu quindi raggiunto dal personale della diga e dall’ingegnere che decise di portarlo all’Albergo Alla Posta. Poi probabilmente si unì ai partigiani, ma non lo so per certo.

E fra quelli di Ampezzo andò partigiano anche Giulio De Monte, detto “Giulio mat”, perché prendeva la vita con buonumore. Egli aveva fatto la campagna di Russia ed era riuscito, nel corso della stessa, a mettere fuori combattimento un carro armato T 34 che sparava sugli alpini nella ritirata. Ed era un pluridecorato. Noi eravamo studenti ad Udine, ed egli ci ha pagato da bere, perché gli avevano dato la medaglia d’argento. Poi divenne comandante di un battaglione di partigiani garibaldini e, nel dopoguerra, emigrò all’estero, occupandosi come carpentiere. E so che era stata partigiana anche Lidia De Monte, che però apparteneva ad una famiglia diversa da quella di Zan Zan. Qui ad Ampezzo ci sono diverse famiglie De Monte, che non sono parenti fra di loro. Invece il fratello di Giulio è stato capitano degli alpini alla caserma di Tolmezzo.

Mi rammento pure Mario Foschiani, Guerra, uno dei primi partigiani giunti qui nel 1944. Mi ricordo di averlo incontrato nel gennaio del 1945, quando mi trovavo a Mediis, e abbiamo fatto insieme tutto il “Crivèl” (6): i cosacchi davanti ed io con lui. Quella volta camminava male, e la pattuglia a cui apparteneva era andata in Cjamesàn (7), ma lui era stato ferito ad una gamba qui, ad Ampezzo, in piazza. Era sceso un tedesco del presidio di Sauris, quando esso era ancora presente, e gli aveva chiesto i documenti. Guerra si era messo a ridere ed era scappato, e gli avevano sparato.

E qui vicino abitava anche Eugenio De Luca, che era zoppo. Era un fuoriuscito, uno di quelli che erano andati all’estero senza passaporto, di quelli che erano scappati o perché non si erano presentati alla leva o perché non avevano voluto la tessera del Partito Fascista. Rientrato in paese dopo il 25 luglio, usava criticare aspramente Zagolin e l’attività dei partigiani, sentendosi forte del suo essere di sinistra. Fu prelevato dai partigiani una sera del luglio 1944, nel cortile, e venne fucilato sul tornante di Cjamesàn.

E mi ricordo Armando Zagolin che era un medico piuttosto severo, ed era rigido nel comportamento, ma poi, da partigiano, portava la barba lunga, cosa per lui inusuale. E mi rammento pure sua figlia Cesira Zagolin, legata su di un carro cosacco. Sua sorella Annamaria era a scuola con me, ma so che ora è morta. Comunque Angela Grillo dovrebbe avere documentazione. È la figlia di Grillo Francesco. Lui era una persona che meritava, ma purtroppo se ne è andato. Aveva raccolto un sacco di materiale che ora ha Angela. (8).

Ma per ritornare ai fratelli Lucchini, dopo l’8 settembre rientravano i soldati, ed era rientrato Ottavio, ed era allora barbiere Elvio De Luca, che era stato in Francia ed aveva seguito dei corsi di marxismo. E teneva delle lezioni, dava spiegazioni su Carlo Marx e sulle sue opere, come “Il Capitale”. E questi incontri di apprendimento si tenevano la sera, perché erano proibiti, nella casa dei Lucchini, dove c’era il laboratorio, al secondo piano. Lo so perché, abitando vicino, ed avendo il muro adiacente, sentivo sempre, la sera, questo movimento, ed allora avevo chiesto cosa accadesse. Ma mi fu risposto che poteva essere un sibilo. Non so se allora battessero a macchina le lezioni o gli appunti, so che poi Ottavio ha portato a casa una macchina da scrivere, con la quale ho imparato anch’io a battere a macchina i testi. E poi, ai tempi della Zona Libera, veniva Nicola Pellizzari con i partigiani, la sera, a scrivere lettere e comunicati.

Di Ottavio ricordo solo che, una volta, quando era partigiano, mi ha portato un vocabolario di latino, il Carboni. Glielo avevo chiesto io. Dopo due o tre giorni è giunto con il volume, e non ho mai saputo dove lo avesse preso. Ma era l’ultima edizione, ottima!!!! E io pensavo “Chissà che vocabolario mi porta!” Invece mi ha portato proprio quello, preciso! Può darsi che Ottavio avesse acquistato il dizionario, perché aveva anche la ricevuta, e costava ben 50 lire. Ma senza quello non si poteva studiare latino.
Qui c’era De Monte, il postino, che andava a prendere la posta a Tolmezzo e così comperava pure dei libri per noi: gli facevamo l’elenco … e lui ce li acquistava. Ma il Carboni non c’era più a Tolmezzo.
Ogni tanto i partigiani ritornavano vicino a casa, ma i Lucchini sono sempre stati in prima linea, contro i tedeschi. E da che mi ricordo, i partigiani andavano verso i paesi anche per ispezionare, per controllare il movimento delle truppe tedesche, ed andavano anche in abiti civili.

So però che, appena finita la guerra, nel ’45, Ottavio divenne responsabile della caserma dei carabinieri occupata dai partigiani. E i partigiani si erano organizzati per costruire un pociòn, cioè una specie di piscina. E io ero incaricato di portare, la sera, le mine anticarro. Ottavio mi portava delle valige simili a quella di ferro per gli oggetti per sbarbarsi, che le contenevano, e se mi avesse visto mia madre portare quelle valige, guai. E andavo verso il luogo convenuto, ed arrivava un partigiano che le posizionava, e c’erano di quelle esplosioni! Perché erano mine anticarro davvero potenti, rompevano i sassi! E poi avevano fatto un po’ di diga, e lì si faceva il bagno! E il pociòn c’è ancora.

OTTAVIO LUCCHINI

Non conosco, invece, la vita partigiana di Mario, Ottavio e Francesco (9), so solo che rientrarono ad Ampezzo verso la fine del 1945, ma non ebbero vita facile.
Franz era molto intelligente ed avrebbe preferito studiare, ma ha dovuto fare l’operaio comune. Gli imprestavo i miei libri di fisica, e lui faceva gli esperimenti in modo tale che forse neppure un professore di fisica sarebbe riuscito a fare, e utilizzava i capelli di sua sorella per le prove elettriche. Era bravissimo.
E appena finito di lavorare, si metteva a leggere un libro o La Domenica del Corriere, ed ha faticato ad adattarsi al lavoro solo manuale.

Allora, nel 1945, un pezzo del paese seguiva i democristiani, i cosiddetti benpensanti, quelli che “non stavano né da una parte né dall’altra” un pezzo i comunisti, che potevano essere qui circa una novantina. Il segretario della sezione PCI di Ampezzo era Attilio Mignozzi, un veneziano, una persona veramente brava, che era un impiegato tecnico della Sade e che poi è rimasto qui fino agli anni ’90. La sede del Pci era di fronte all’albergo Alla Posta. Ed ora vi racconto un episodio.
Il clima fra prete, con democristiani al seguito, e comunisti non era dei migliori.
Un giorno il cappellano partì con alcuni ragazzi del paese alla volta della sede del Partito Comunista, e, giunti ivi, ruppero l’insegna con la falce e martello.
I membri del Pci denunciarono il fatto alle autorità, ma poi, sapendo chi era stato, decisero di incontrarsi con gli stessi e chiudere la cosa facendo rifare l’insegna a spese dei democristiani e così avvenne. I democristiani vennero a casa mia e chiesero a mio padre di fare una insegna con sfondo rosso e falce e martello. Mio padre si stupì e chiese cosa avessero a che fare loro con la falce e martello … e loro lo spiegarono. Poi giunsero a casa mia i comunisti a chiedere se i democristiani avessero ordinato l’insegna, e, avuta risposta positiva, su domanda di mio padre portarono una copia esatta del disegno, onde fosse eseguita nel migliore dei modi. Questo era il clima che c’era allora. Comunque a quei tempi non c’era via di mezzo: o comunisti o democristiani.

Ma per i comunisti ad Ampezzo la vita non era facile, ed esser comunisti era l’antitesi del “passaporto”, diciamo così. Ed i fratelli Lucchini erano comunisti. Nel 1946, comunque, Mario Ottavio e Francesco erano ancora qui, e lavoravano, mi pare, alla costruzione della diga di Sauris.  Ma la Sade, finiti i lavori principali, ridusse il personale alle sue dipendenze e licenziò molti operai, in particolare quelli comunisti o simpatizzanti per il comunismo, tenendo al lavoro quelli che avevano qualche appoggio in particolare dal prete. Ma in seguito, per non avere in loco mine vaganti, assunsero anche qualche comunista, per esempio Antonio De Luca, che era mio cugino, e Francesco Fiorenza, “Cecchino”.

Comunque, in generale, nel dopoguerra, finiti i lavori della Sade, qui non c’era molto lavoro. Andrea, il vecchio, si era adeguato a fare il boscaiolo, a fare le teleferiche ad organizzare lo smistamento del legname, i suoi figli Mario, Ottavio e Francesco andarono, presumibilmente senza contratto di lavoro, attraversando clandestinamente le Alpi, in Francia, nel 1947 o 1948. Ottavio pare sia espatriato assieme a Renato Fachin, detto Piazza, che era privo di contratto di lavoro, passando per la Val D’ Aosta. So che Renato, quando giunse oltre confine, fu fermato dalla polizia francese ed affidato ad un contadino perché raccogliesse barbabietole. Se uno, poi, riusciva a lavorare bene, allora il lavoro veniva confermato e poteva fermarsi ulteriormente, altrimenti veniva espulso. Renato Fachin è riuscito a fermarsi in Francia ed è andato, poi, a lavorare nei cantieri edili come carpentiere. Anche mio padre è andato a lavorare in Svizzera, ma se non avevi in mano il contratto prima di partire non andavi né in Svizzera né in Francia.
Ottavio morì lì, annegato nel Rodano, nel 1952. La domenica, per rilassarsi, andavano al fiume. È capitato su di un vortice, ed è stato risucchiato. È stato un incidente.
Mario mi pare sia rientrato molto presto, perché ricordo che era qui nel 1949. Nel 1949, comunque, mi ricordo che insieme siamo andati a vedere anche dove c’era “il covo dei partigiani”, ma poi è arrivata la notte, e siamo rientrati.

FRANCESCO DETTO FRANZ LUCCHINI

Invece quella di Francesco è altra storia. Una sera mi pare del 1956 o 1957, perché io sono andato via nel 1962 e Andrea è morto nel 1963, l’abbiamo visto arrivare con un’automobile della polizia. Ed era accompagnato da due poliziotti in divisa e da due in borghese. La macchina si è fermata e mi hanno chiesto se conoscevo Franz, ed io ho risposto di sì. Ho detto che sapevo che si chiamava Lucchini Francesco, che abitava lì vicino, ed allora l’ispettore mi ha detto di chiamare qualcuno della famiglia. Così ho chiamato Andrea, suo padre, e poi sono andato via perché non era il caso che mi fermassi lì. Franz era stato consegnato dalla polizia francese a quella italiana, al confine, ma non so per quale motivo. So invece che in Francia aveva subito delle violenze, forse perché faceva parte di associazioni politiche e partecipava a manifestazioni politiche. Ed al suo rientro Franz era molto provato, era quasi assente, non era più lui, e nessuno capiva cosa gli fosse successo, se gli avessero fatto qualcosa. E lui non ha mai detto nulla, non ha mai narrato cosa gli fosse accaduto. e da che mi dice Cristina, anche Francesco fu poi internato in manicomio ad Udine e sottoposto ad elettroshock e risultava schizofrenico e paranoico. Poi, con il tempo recuperò un po’, ed io avevo parlato con Aldo Vecchi perché lo prendesse a lavorare, ma egli aveva delle perplessità. 

Anche Mario, al suo rientro, mi pare nel 1952, fu ricoverato in ospedale psichiatrico a Udine, e fu sottoposto ad elettroshock. Lo so perché io, che ero allora studente ad Udine e sono andato a trovarlo, ed era normalissimo, e non dava segno alcuno di squilibrio, e si lamentò di questo elettroshock che gli volevano fare. Ma mentre Francesco ne risentì tantissimo, Mario molto meno, e continuò a lavorare diventando capo cantiere presso la ditta di Aldo Vecchi. È andata così: prima Mario è venuto con me a fare misurazioni dei terreni, dove c’è il complesso di Aldo Vecchi, vicino al cimitero. E poi, quando sono incominciati i lavori, ho chiesto a Vecchi che lo prendesse a lavorare, e così lo ha assunto ed è diventato capo cantiere ed ha seguito lui i lavori di quel complesso, ed era molto apprezzato.
Più di così non so sui tuoi zii.

Mi ricordo invece due fatti di quei tempi, di cui uno mi fu raccontato.
La chiesetta di Sant’Antonio, a Cima Corso, è stata decorata da mio padre, nel 1944.

Un giorno, una domenica, qualcuno si era divertito a sparare alle statue della chiesetta di Sant’Antonio, a Cima Corso. Le statue, danneggiate, furono portate a mio padre perché le riparasse, cosa che fece, e quindi furono riportate al loro posto. Così poi egli continuò a lavorare per affrescare la chiesa.
Un altro giorno egli ed un muratore, che si chiamava Vittorio Sburlino, salirono a Cima Corso per lavorare nella chiesetta, ed ad un certo punto, mentre erano lì, la porta si aprì ed entrò un ufficiale tedesco. Era un Maggiore che era stato decorato in Russia e che stava facendo una ricognizione con i militari. Ma lui non pareva molto interessato a loro, e, dato che l’altro aveva lavorato in Germania (e sapeva un po’ di tedesco) parlarono insieme, e l’ufficiale raccontò che era venuto in ricognizione, che era venuto per vedere le montagne, e di guerre ne aveva viste tante. Quindi si recò a vedere dove lavoravano gli operai, perché lì c’era la stazione della teleferica che partiva dai boschi di Mediana, e che portava giù il legname che poi veniva inviato a Villa Santina con i carri ed i cavalli. Quindi l’ufficiale ed i militari tedeschi risalirono, rispettivamente, in macchina e sul camion della scorta, e si diressero verso Forni di Sotto. Nel ritorno, una mina anticarro fece saltare la macchina tedesca, ferendo gravemente l’ufficiale. E proprio mentre avveniva questo, mio padre diceva al muratore che gli mancava il colore ‘rosso di Pompei’, e che lo voleva avere subito. Invano il muratore cercò di dire che si poteva aspettare l’indomani. Ma mio padre volle andare ad acquistarlo subito ed abbandonò la chiesa. Subito dopo giunsero nella chiesetta di Sant’Antonio i tedeschi, presero Sburlino, lo caricarono sul camion assieme agli altri operai, mentre il loro ufficiale stava per morire, e li portarono tutti a Spilimbergo. Nel frattempo mio padre, preso il ‘rosso di Pompei’, ritornò alla chiesetta. Giuntovi, vide la porta spalancata e gli operai addetti alla teleferica che non c’erano più, ed iniziò a pensare: “Qui c’è qualcosa che non va”. Richiuse quindi la porta e se ne andò via.
Ed il bello è che il fratello di mia nonna, che faceva il carradore, era arrivato alla chiesa con i cavalli mentre c’era la retata tedesca, e caricarono anche lui sul camion. Ed i cavalli sono tornati indietro da soli, e si sono fermati qui, in piazza, a bere, e poi è venuto il figlio a prenderli.  E così mi padre si è salvato. E l’Arciprete ha detto: “Ti sei preso cura del Santi e loro ti hanno aiutato!”. Credere o non credere, questo è un fatto vero!
Udito quanto successo, il segretario comunale Vittore Grillo ed altri scesero dal comandante. Mi ricordo ancora Vittore: aveva la barba, ed uno sguardo fisso.  Ed al comandante tedesco Grillo disse che il fatto era sì molto grave ma non era avvenuto in territorio di Ampezzo, e quindi non sapeva perché se la stessero prendendo con questi lavoratori. La risposta fu che era stato massacrato un eroe di guerra. Comunque il comandante tedesco chiamò un ufficiale e gli chiese dove fosse avvenuto l’attentato. E quello confermò che era avvenuto al di fuori del Comune di Ampezzo, in territorio del comune di Forni di Sotto. Ed allora il comandante tedesco decise che i maschi non anziani sarebbero stati mandati in Germania, mentre i vecchi sarebbero ritornati a casa. E fra quelli che andarono in Germania c’era anche il padre di quelli che avevano l’osteria ‘Al Pura’, che poi è ritornato. Ma sono ritornati anche altri, ma non mi ricordo chi, mentre Vittorio Sburlino, detto Vittorio della comare e il fratello di mia nonna sono stati rimandati subito a casa.

Ed infine vi racconto un altro episodio. Andrea si lamentava di non riuscire ad avere i cavoli cappucci buoni per fare i crauti. Allora gli dissi di cambiare seme. Io ero cliente e lo sono ancora, dei fratelli Ingegnoli di Milano, esperti in sementi, e così, dopo aver cercato sul loro catalogo una semenza che potesse andar bene, la ordinai per lui.  Poi seppi che il nuovo seme era giunto, poi più nulla. Verso l’autunno, un giorno Andrea mi chiamò e mi disse di andare con lui. Così, saliti sul camioncino, ci muovemmo verso Lateis, il paese di origine dei Lucchini. Andrea mi portò a vedere che aveva un campo intero di cappucci per fare i crauti, da portare giù. Ma io non ho mai voluto assaggiarli, e per questo motivo era arrabbiato a morte con me. Non mi piacevano, e non li volevo mangiare. Un giorno, trovandomi con mia moglie a Pedavena, in un ristorante mi proposero il piatto tradizionale della casa, e mi portarono un piatto enorme di crauti!!! Ed ho pensato ad Andrea ed ai suoi crauti, che avevo sempre rifiutato! E quella volta li ho mangiati, e mi sono piaciuti. Per fare i crauti ci vuole una botte, ed Andrea Lucchini i se l’era fatta da solo. Andrea aveva anche il tornio, e sapeva fare di tutto, perfino le ruote per il mio triciclo! Quello era il primo mezzo di trasporto per noi bambini, e lo usavamo per andare giù per la ‘Cleva’.

Ma ora si è fatto tardi, ed è giunto il momento di chiudere questa intervista».  

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(1) Anche Mario Candotti nel suo: Ricordi di un uomo in divisa, naia, guerra, resistenza, ed. Ifsml ed Ana-Pn, 1986, a p. 51 ricorda di aver incontrato, sulla strada di Valona, nel gennaio 1941, l’alpino, ma forse il fante Mario Lucchini, a cui aveva dato dei generi di conforto.

(2) Località non reperita. Il termine “Banja” fa parte di alcuni nomi di località della ex- Jugoslavia, ma io non ho trovato un luogo con solo questo nome, tranne un accenno ad una piccola località in comune di Tivat, nella baia di Cattaro, in Montenegro. L’informazione di data e luogo mi è stata trasmessa da Cristina Martinis, in data 3 ottobre 2017, che l’ha ripresa da una immagine spedita dallo zio allora, trovata in casa.

(3) Il 1° dicembre 1941 veniva costituito il 383° Reggimento Fanteria “Venezia” per trasformazione del 235° Reggimento Fanteria costituito a sua volta a settembre dello stesso anno. Nel febbraio 1942, il Reggimento fu inviato in territorio jugoslavo e venne dislocato a Plijvlie in Montenegro dove fu posto alle dipendenze della Divisione Alpina “Pusteria” che lasciò, però, il 18 aprile successivo per riunirsi alla Divisione “Venezia”. Dal 17 giugno 1943 venne assegnato al Comando Difesa Territoriale d’Albania e si schierò nella zona di Tirana dove l’8 settembre venne sciolto a seguito degli eventi che seguirono all’armistizio. (http://www.regioesercito.it/reparti/fanteria/rgt/rgt383.htm). Quindi Mario Lucchini, vista la storia del 383° Reggimento fanteria, il 22 gennaio 1941, data in cui Mario Candotti lo vede sulla strada di Valona, faceva parte probabilmente di un’altra unità militare.

(4) Località non reperita. Forse non Sienza ma Sjenica. L’informazione di data e luogo mi è stata trasmessa da Cristina Martinis, in data 3 ottobre 2017, che l’ha ripresa da una immagine spedita dallo zio allora, trovata in casa.

(5) Mario Candotti scrive di esser stato informato, quando si trovava in Russia, nei paraggi di Golubaja Krinitza, il 30 dicembre 1942, che “Lucchini, sauràn”, si presume Ottavio Lucchini, militare anche lui nella campagna di Russia, era stato ferito. (Mario Candotti, Ricordi, op. cit., p. 104).

(6) Crivèl, località ora in Comune di Socchieve.

(7) Cjamesans è una borgata in comune di Socchieve.

(8) Pare che Angela Grillo abbia venduto ad un amatore la documentazione, che quindi non è più consultabile.

(9) Per il battaglione di appartenenza, per i fratelli Lucchini come per altri,  e nomi di battaglia, cfr. “472 schede di partigiani garibaldini, uomini e donne che scrissero la storia della democrazia, operativi in Carnia o carnici” di Laura Matelda Puppini, in www.nonsolocarnia.info.

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Sintesi delle due interviste ad Elio Bullian di Cristina Martinis, estate 2016, e di quella di Laura Matelda Puppini, mediatore Cristina Martinis, a Elio Bullian in data 22 settembre 2016. Registrazioni di Cristina Martinis. Trascrizioni e fusione in unico testo di Laura Matelda Puppini. L’immagine che correda l’articolo è tratta dal filmato di Cristina Martinis, e ritrae Elio Bullian mentre sta parlando. Le fotografie dei fratelli Lucchini, inserite nel testo, provengono da Cristina Martinis.

Cristina Martinis e Laura Matelda Puppini.

 

 

 

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