Scriveva Rossana Rossanda nel 2001 una riflessione sul fascismo che iniziava così: «Diavolo, siamo diventati fascisti! In quale giorno, mese e anno mio padre può aver esclamato queste parole? Mio padre, per dire un uomo non più giovanissimo, colto, pacifista, avvertito. Non gli ho mai chiesto quando si fosse accorto che una pagina era voltata, che si andava ad avventure pericolose. (…). Mussolini definiva il fascismo come “un movimento spregiudicato”, oggi si direbbe nuovissimo e trasversale. Nessuno era fascista a casa mia, ma quando si erano resi conto, gli italiani per bene nati a cavallo del secolo, che erano su una via di non ritorno?» (Rossana Rossanda, Non fu un colpo di stato, in: http://www. Ilmanifesto.it/25aprile).

Queste parole di Rossana Rossanda fanno riflettere, come la lettura del volume di Piero Calamandrei “Il fascismo come regime della menzogna”, Laterza ed. 2014, su cui ho approfondito alcuni aspetti anche teorici attraverso cui il fascismo, inteso pure come Partito Nazionale Fascista, andò al potere, e mi sto chiedendo quali analogie e differenze si possano ora trovare con certo modus operandi degli ultimi anni, solo come spunto di riflessione, e senza offesa per alcuno.

Metodologia della presa del potere da parte del fascismo.

La presa del potere da parte del fascismo avvenne attraverso la violenza fisica, ma pure attraverso la critica al modo di procedere precedente, e la trasmissione di una immagine dello Stato liberale la cui unità, secondo la propaganda mussoliniana, veniva «perpetuamente messa in pericolo dalle lotte dei partiti e dalle tendenze anarchiche». (Piero Calamandrei “Il fascismo come regime della menzogna, Laterza ed, 2014, p. 9). Inoltre il Partito Nazionale Fascista si dette da fare per mostrare che la presa del potere da parte sua era derivata da un moto popolare spontaneo delle masse, ma nella realtà essa avvenne in un momento di crisi politico-istituzionale ed economica seguita alla prima guerra mondiale, e di lotta contro il carovita e per “il pane ed il lavoro”. La cosiddetta e tanto decantata “rivoluzione fascista” fu, nella realtà, «una rivoluzione ordinata e manovrata» (Ivi, p. 28).

Il fascismo, in sintesi, si presentò come una «forma di autotutela armata della borghesia contro le agitazioni causate dal disagio economico della masse lavoratrici» nel periodo post-bellico (Ivi, p. 30), e quindi fu di fatto una controrivoluzione, fu un movimento prima, un partito poi, che parteggiò «per i ricchi contro i poveri», che si palesò come l’autore di «una crociata delle persone “perbene” contro i disordini dei “sovversivi” contro il pericolo del “bolscevismo”» e si propose come artefice di quel «rafforzamento del potere esecutivo» desiderato anche dai liberali. (Ivi, p. 31).

Inoltre il fascismo voleva far intendere una sua rottura netta con le situazioni pregresse e quindi diremmo oggi, si presentò sostenendo che si doveva «rottamare il passato», e questa fu l’essenza del pensiero rivoluzionario fascista. Il fascismo andò al potere attraverso la cieca violenza, ma la presa del potere da parte di un partito unico può avvenire con le armi, il manganello, il pugnale e l’olio di ricino o in modo meno appariscente e traumatico.

L’agire senza programma sulla base dell’ urgenza, come caratteristica determinante del fascismo.

Il fascismo si resse sul mito del pragmatismo (Ivi, p. 83) e dell’attivismo, (Ivi, p. 32), sostenne che la pluralità dei partiti impediva l’azione, e che pertanto bisognava agire togliendo gli intralci e appellandosi all’urgenza di modificare la situazione, per il bene dello Stato e degli Italiani. (Ivi, pp. 4-5).
Per agire d’urgenza, bisognava agire imponendosi d’autorità, cioè utilizzando l’autoritarismo, che non è forma democratica. Ma i fascisti non dissero mai di voler essere democratici. Il come agire veniva poi definito secondo il principio di vedere «caso per caso che cosa […] convenga fare». (Ivi, p. 4).
Inoltre avendo il fascismo come suo obiettivo la presa ed il mantenimento del potere, era pronto ad adottare, via via, qualsiasi politica gli servisse per mantenerlo. (Ivi, p. 5).

Il programma del fascismo fu un programma solo apparente, almeno al momento della presa del potere e nella sua fase inziale e «vien fatto di domandare- scrive sempre Calamandrei – come possa esser avvenuto che un tale eterogeneo ed accomodante accozzo di idee vaghe e generiche accattate alla rinfusa nei campi più disparati e più contrastanti, abbia potuto avere una tale maligna forza espansiva […]».

Ma l’attivismo, l’imposizione con qualsiasi mezzo, il «credere, obbedire, combattere» agli ordini dell’uomo solo al Comando dispensavano quelli che facevano parte della «cieca soldatesca» dal pensare, dal dissentire, dal obiettare. (Ivi, p. 29). Del resto questo “non pensare” affascinò allora più di una persona, addormentando coscienze e scrupoli. (Ivi, p. 29).

Il fascismo, la riforma costituzionale, la legalità dell’illegalismo.

Nell’Italia liberale vigeva lo Statuto Albertino, considerato, a tutti gli effetti, una forma di costituzione breve. (https://it.wikipedia.org/wiki/Statuto_Albertino). Preso il potere, il fascismo pensò immediatamente a modificare il corpo legislativo vigente, attraverso una “riforma costituzionale” affidata ad una commissione tecnica di diciotto specialisti, detti popolarmente i “soloni”. (Piero Calamandrei, op. cit., p. 6).

Il fascismo al potere iniziò a muoversi fra una legalità apparente ed un illegalismo ufficioso, utilizzando le leggi e ed applicando, sistematicamente, la violazione delle stesse come mezzo di governo. (Ivi, p. 6). L’illegalismo divenne “diritto”, norma non codificata, ed in tal senso esercitato. Il governo si reggeva sulla doppiezza della presenza di un ordinamento di leggi scritte e sancite e una pratica politica che non le rispettava. (Ivi, pp. 8-9).
Calamandrei parla dell’agire del partito fascista «come correttivo della legalità ufficiale» (Ivi, p. 43), ed a suo avviso l’illegalismo ufficioso del Partito fu: «il varco elastico per far passare attraverso gli apparenti sbarramenti delle leggi la più capricciosa discrezionalità». (Ivi, pp. 43-44).

Non si può non riflettere, inoltre, sugli strumenti che il Partito mise in atto per far credere di essere, inizialmente, democratico,  come l’escamotage di  aggiungere, nelle elezioni, alcune schede bianche per «confermare che la libertà di voto era assicurata anche a quei quattro […] antifascisti superstiti» (Ivi, p. 77), mentre si procedeva, di fatto, con ben altri metodi, quali il rastrellamento mattutino degli elettori casa per casa ed il loro invio coatto ai seggi, l’utilizzo di schede trasparenti che permettessero di controllare il voto e di prendersela con chi non aveva votato a favore del Partito Nazionale Fascista, il controllo ai seggi da parte di rappresentati del partito e via dicendo. (Ivi, pp. 76-79).

Di fatto prima del 1925 il fascismo mantenne «tutta la teatralità della lotta elettorale: convocazione delle masse popolari, la clamorosa propaganda elettorale, il cerimoniale misterioso del voto segreto, la inscenatura delle urne e degli scrutini, l’emozione […] della proclamazione finale dei vincitori che doveva dare l’impressione di una accanita lotta politica e di una vittoria valorosamente conquistata» (Ivi, p. 74) mentre nella realtà gli spazi politici degli altri partiti andavano via via riducendosi fino a che ne rimase uno solo. (Ivi, p. 74).

Fascismo, propaganda, ricerca del consenso.

Ben sottolinea Calamandrei che «anche i tiranni dell’antico stampo si guardavano bene dal dichiararsi da sé oppressori dei loro sudditi, e amavano meglio presentarsi come interpreti autorizzati da Dio della coscienza e della volontà nazionale» (Ivi, p. 18). La ricerca ed il palesare consenso, non importa ottenuto come, diventava aspetto fondamentale di visibilità anche verso l’esterno.
Così uno dei pilastri su cui si resse il fascismo fu «la finzione del consenso», del consenso degli oppressi, come lo definisce Calamandrei, ove il consenso fu ottenuto con il terrore. (Ivi, pp. 59-60).

Inoltre, accanto ai metodi violenti, usati come arma per tacitare i dissidenti e gli altri partiti, che si opponevano al Partito Nazionale Fascista con gli strumenti della legalità, il fascismo utilizzò pure «il monopolio della stampa, della radio e di ogni altro mezzo di pubblicità». (Ivi, p. 63). La propaganda martellante faceva presa sulla popolazione italiana, composta da gente con scarsa cultura e quindi con pochi mezzi contro gli inganni del potere, creando nella stessa una specie di «anemia critica che, per mancanza di termini di confronto, la rendeva incapace di accorgersi a pieno della enormità della truffa ordita contro l’Italia». (Ivi, p. 64).

Per avere la stampa in mano, il partito fascista procedette attraverso l’imposizione di direttori graditi, in genere scelti fra ex ministri o ex gerarchi poi giubilati dal primitivo incarico, trasformando lo Stato in una grande impresa giornalistica. (Ivi, p. 64).
Non esistette più pluralità di informazione e di idee, e in ogni giornale tutto fu regolato da un unico direttore d’orchestra, dalla prima pagina fino alla quarta. (Ivi, p 65). Da ciò derivò la «stomachevole uniformità di tutti i giornali italiani del tempo fascista, nei quali tutto era regolato d’autorità allo stesso modo […]. (…). La radio non era da meno […] e non parliamo del giornale-luce, che in quell’ora di disarmata distensione dello spirito che dopo una giornata di lavoro si cercava qualche volta al cinematografo, ti aggrediva vigliaccamente con esibizioni del duce a torso nudo.» (Ivi, p. 65). Inoltre la “falsificazione politica” fu assunta a dogma scientifico, ed in tal modo si giustificò “scientificamente” il razzismo. (Ivi, p. 66).

E così accadde che «certe idee che a sentirle enunciar la prima volta facevano ridere, riuscivano, a forza di incontrarle su tutti i giornali e su tutti i libri e su tutte le cantonate (attraverso le scritte sui muri n.d.r.), a entrar nel subcosciente dei “benpensanti”» (Ivi, p. 66) ed anche quelle vociferazioni ritmiche con cui le folle venivano educate a salutare l’apparizione del Duce «avevano, a lungo andare, una certa efficacia educativa». (Ivi, pp. 66-67).

«Con questi metodi di propaganda assillante non si creavano coscienze fasciste – continua Calamandrei – ma si impediva, o si ritardava, il formarsi di qualsiasi coscienza. Per prevenire ogni possibilità di azione, si cominciava metodicamente dal disorientare il pensiero. A tal fine contribuiva mirabilmente quella fluidità del programma fascista, che secondo le variabili contingenze, si prestava a tutti i ritocchi». (Ivi, p. 67).

Inoltre il Duce, «con spudorata disinvoltura […] sapeva variare a tempo i temi della sua eloquenza e suscitare qua e là, nelle cerchie sociali che si sentivano secondo i casi blandite, temporanee correnti di adesione». (Ivi, p. 67).

Infine, nel periodo fascista, la propaganda ebbe «mille trucchi insidiosi per addomesticare le resistenze per intenerire le ostilità: per i lavoratori manuali c’erano i “premi del duce”, i ricevimenti a Palazzo Venezia dei capi delle famiglie numerose, i diplomi della “battaglia del grano” i biglietti di viaggio per gli sposi in viaggio di nozze […]». (Ivi, p. 66). Ma potremmo elencare la Befana fascista, i dopolavoro, le feste dei fiori, e via dicendo. (Cfr. in proposito anche: Alessandra Cesare, Franco Bergoglio, Crescentino fascistissima, Storia della pubblica amministrazione in un paese di provincia, in: “L’impegno”, rivista di storia contemporanea aspetti politici, economici, sociali e culturali del Vercellese, del Biellese e della Valsesia, dicembre 2002, editore: Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”).

Fascismo: un uomo solo al comando, un potere unico, un unico partito, un unico programma.

Il fascismo si resse di fatto su  “un uomo solo al comando”, affetto, secondo Calamandrei, da megalomania individuale e da dispotismo, (Ivi, p. 21).
Inoltre nel corso dell’era fascista sparì la distinzione fra potere legislativo ed esecutivo, ed il governo espresso anche, pro forma, dal Gran Consiglio del fascismo, fatto da fedelissimi al pensiero unico, si trasformò in organo supremo in mano ad un solo partito che si identificò con lo Stato (Ivi, p. 30), e la ragion di Stato divenne motore per l’azione e giustificazione della stessa. (p. 20). Il delitto Matteotti mise in luce il fatto che non si poteva pensare diversamente da Mussolini, e di fatto il Gran Consiglio fu composto da un gruppo di yes-men, per dirla con una terminologia attuale.

Con una scusa o l’altra, i sindaci vennero sostituiti dai podestà, e la gerarchia politica si riempì di fedelissimi al duce ed al suo pensiero, nominati dallo stesso o dai suoi, cioè, in sintesi, non eletti, che dovevano render conto non al popolo ma solo al Partito.

Non esistettero dissidenti all’interno del fascismo, e qualsiasi “gufo” venne cacciato e perseguitato, ed i cosiddetti sovversivi riempirono senza motivo, se non la loro dissidenza, carceri e posti al confino, o fu loro impedito di trovare un lavoro cosicché dovettero emigrare per vivere e sopravvivere, come ci ha ricordato un interessante convegno “L’emigrazione antifascista dal Friuli tra le due guerre”, tenutosi ad Udine il 18 marzo 2016.

Il fascismo, attraverso lo Stato, entrò «nei rifugi più sacri della libertà individuale» (Ivi, p. 22), condizionando paternità e matrimoni, ed impose in ogni campo la sua censura ed il suo controllo, ed il Duce impregnò del suo pensiero e della sua azione non solo la politica ma anche le scienze, le arti, il gusto, la grammatica, il galateo (Ivi, p. 22), finchè si giunse ad un vero e proprio culto del Duce stesso. (Ivi, p, 23).

La burocrazia, o meglio “le burocrazie”, quella statale e quella del Partito, finirono per inondare i servizi pubblici, portando, al loro interno, «un senso cronico di disagio e di instabilità.» (Ivi, p. 24).
Piano piano il regime rafforzò «nell’ingenua sensibilità del popolo, la convinzione che chi non era fascista non aveva più ragione di sentirsi affezionato ad istituzioni ed ad imprese diventate, da italiane, proprietà esclusiva di quel solo partito o di quel solo personaggio». (Ivi, p. 24).

Due secoli di riforme costituzionali, «dall’illuminismo settecentesco allo Stato di diritto», vennero cancellati in un ventennio, quello della dittatura fascista, facendo ripiombare il paese in un autoritarismo dispotico. «Crediamo – termina Silvia Calamandrei nelle note editoriali al testo – che mai nella storia si sia visto un esempio così cospicuo di regime apparentemente legalitario nel quale, sotto solenni affermazioni di ossequio alla santità delle leggi […] siano state escogitate e messe in pratica dalle stesse autorità tante maniere ingegnose non diciamo per violare apertamente le leggi, ma per svalutarle, paralizzarle, raggirarle, insultarle, metterle in ridicolo […]. » (Ivi, p. 101).

Ho riportato queste considerazioni come aspetti di studio e riflessione e perchè  non si volga a percorrere, magari senza volerlo, vie «che non portano mai a niente» ( frase presa dalla canzone Dio è morto, dei Nomadi) e che per gli Italiani hanno comportato solo fame, povertà, guerra, miseria, omologazione in un pensiero e partito unico, senza offesa per alcuno, e per aprire un dibattito su questi temi e su quelli della democrazia, legalità e cittadinanza attiva.

Laura Matelda Puppini

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2016/03/calamandrei-.jpg?fit=808%2C992&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2016/03/calamandrei-.jpg?resize=150%2C150&ssl=1Laura Matelda PuppiniETICA, RELIGIONI, SOCIETÀSTORIAScriveva Rossana Rossanda nel 2001 una riflessione sul fascismo che iniziava così: «Diavolo, siamo diventati fascisti! In quale giorno, mese e anno mio padre può aver esclamato queste parole? Mio padre, per dire un uomo non più giovanissimo, colto, pacifista, avvertito. Non gli ho mai chiesto quando si fosse...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI