Scrive Guccini nella sua “Canzone dei 12 mesi”, ricordando novembre: «Cala Novembre e le inquietanti nebbie, gravi coprono gli orti. Lungo i giardini consacrati al pianto si festeggiano i morti, si festeggiano i morti», dove a me piace molto il termine festeggiare, non solo ricordare.

Ed anch’io, oggi, primo novembre, sono ritornata con la mente alla stessa data di tanti anni fa, quando ero bambina, quando vivevo e dormivo con la maestra Anna, mia nonna. E questo ricordo.

Il giorno prima mia nonna andava a comperare mazzi di crisantemi, avvolti in carta speciale, quasi velina, e faceva una congrua scorta di lumini. Poi si andava a dormire presto, quel 31 ottobre, ed allora nessuno sapeva cosa fosse Halloween, nessuno parlava di scherzetti dolcetti. E pochi ancora avevano voglia di scherzare, essendo non molti anni che era finita una guerra spaventosa.

 

Crisantemi giallorossi, (quelli che piacevano tanto a mia nonna Anna). Da: https://www.gesal.it/come-scegliere-e-coltivare-crisantemi/

L’indomani mattina io e mia nonna ci alzavamo presto: sveglia alle quattro: un po’ di caffè di orzo e poi via, verso piazza Centa, con i fiori appesantiti dall’acqua, essendo stati posti in un vaso perché non si rovinassero, e con i lumini di varie misure: i più piccoli per tanti morti conosciuti ma non di famiglia, altri più grandi per i propri cari.

Lì attendevamo, pazientemente, la corriera degli Olivo che ci avrebbe portato a Cavazzo Carnico, paese di origine di mia nonna, e verso il cimitero e le funzioni religiose. Dopo essere scese alla piazza principale, ancora infreddolite ed assonnate, prendevamo la direzione di via Zorutti, dove, vicino alla roggia, che era servita pure come forza motrice per la gloriosa falegnameria gestita dalla cooperativa “Alba Proletaria”, sorgeva la casa di mio zio Lino e di mia zi’Utta. Nella realtà mia zia si chiamava Maria, ed era la sorella di mia nonna Anna, ma il soprannome derivava da un diminutivo del nome Maria, che in friulano volgeva a Mariuta, e quindi si accorciava in Utta.

La zia ci accoglieva al suo ritorno dalla stalla, dove accudiva di buon’ora, ogni giorno, le due mucche, con l’immancabile fazzoletto sul capo, annodato dietro, il grembiule da lavoro, le scarpe da stalla lasciate fuori della porta. E ci donava due belle tazze di latte appena munto, accompagnate forse da pane ma non freschissimo, data l’ora, forse da dei biscotti, non ricordo, ma so che questo rituale, che si ripeteva ogni anno, mi piaceva tantissimo.

Maria Squecco in Pillinini detta Zi’Utta. Foto di Maria Adriana Plozzer.

Preciso che non eravamo un po’ rimbambite a piombare a Cavazzo Carnico ad ore antelucane nel vero senza della parola, ma solo non vi erano altre corriere al mattino. Quindi, con calma, ci preparavamo per la Santa Messa. E mia nonna rindossava il cappotto e portava con sé, nella piccola borsetta, il velo nero da mettersi sul capo per la funzione religiosa. Non nego che quella celebrazione era per me inquietante: il catafalco con gli scheletri bianchi in fondo nero posto al centro della chiesa mi faceva paura e mi turbava, ed intorno a me vedevo, in prevalenza, anziani ed anziane che, resi stanchi dalle vicissitudini della vita e dalle stanze gelide, ascoltavano di morte e di polvere, in un paese notoriamente non molto soleggiato d’inverno.

Infatti il sole si concede ben poco a Cavazzo nel tempo che volge al Natale ed al solstizio di inverno, e bisogna attendere che l’astro superi il Piciàt del Faeit, come diceva mia nonna, perché la luce riprenda, sempre più vigorosa, ad inondare case e campagna. Non solo: incredibilmente quei ‘primo novembre’ della mia infanzia erano sempre raggelati da un vento ostinato, che ti faceva sognare uno ‘spolert’ acceso.   

Quindi il pranzo insieme, sempre a casa di Lino e Utta, e, a seguire, il vespro e la lenta processione verso il cimitero, dove avevamo già posto lumini e crisantemi secondo uno schema ben preciso e rituale. La predica volgeva, come da copione, al ricordo dei morti ed alla previsione della nostra morte futura, fatta da un prete anche lui “ingrisignīt” a donne per lo più anziane, avvolte in grandi scialli di lana neri, ed era incentrata su: “polvere sei e polvere ritornerai” a cui tutti sussultavano, seguita dalla benedizione a vivi e sepolcri.

Il cimitero era però anche luogo di incontri per persone che si vedevano di rado, e di sorrisi nel riconoscersi ancora in questo mondo. Una stretta di mano, una domanda “Come state” quattro parole sui cari defunti e sui nuovi ospiti del cimitero, suggellavano queste visite, in un’epoca dove non c’erano internet, cellulari, e la festa di Ognissanti non era confinata alla notte consumistica di Halloween.

L’unica battaglia della giornata era per mantenere accesi i lumini, che spesso si spegnevano fra la disperazione dei più.  E so che, come del resto continuiamo a fare ora, un fiore ed un lumino andavano anche alla maestra Maria Zanini, sorella di mia bisnonna Laura, sepolta nella tomba accanto a quella della nostra di famiglia. Poi io e la maestra Anna riprendevamo la corriera e rientravamo a Tolmezzo.

Vittorio Molinari, detto Pochit, Il nuovo cimitero di Tolmezzo in costruzione.

Il giorno seguente ci recavamo in cimitero a Tolmezzo e, dopo una breve carrellata a conoscenti di mia nonna ed un omaggio alla tomba di monsignor Ordiner, ci recavamo verso un grosso parallelepipedo di cemento ove mani pietose avevano già posto diversi lumini. Non una scritta a chiarire cosa fosse, e, se ben ricordo, neppure un simbolo della croce, eppure molti si recavano in quel luogo a pregare. Era l’ossario comune, dove erano finiti molti resti dissotterrati per far spazio ad altri corpi, ma anche, forse, le salme di coloro che non avevano denaro sufficiente, allora, per una degna sepoltura che li ricordasse, o persone decedute in tempo di guerra, morte senza che nessuno fosse riuscito a dar loro un nome.

Molti furono i militi ed i morti ignoti anche nella seconda guerra mondiale, benché si cercasse di ricordare ogni nome, ogni volto. Ed anche a Tolmezzo, davanti al vecchio campo sportivo, c’era, quando ero bimba e ragazzina, un cimitero di soldati inglesi: una serie di croci in metallo, forse con un nome e cognome, forse no. Ma nessuna pietas, nella saga del cemento del post’ terremoto, che ha trasformato Tolmezzo in una cupa periferia cementata, ha salvato quei corpi e quei nomi, finiti chissà dove. Ma in fin dei conti non erano cattolici, erano Anglicani, e nessuno metteva loro un fiore, nessuno recintò quello spazio che finì per essere pure luogo di gioco per bimbi ignari e di scorazzamento per cani. E forse nessuno ha mai scattato una fotografia a quel posto, che avrebbe dovuto essere sacro come ogni sepoltura. In questo modo, credetemi, Tolmezzo si è trasformata in un paese senza storia, perché ne ha cancellato ogni traccia ed ogni segno.

E quando don Pierluigi Di Piazza, nel ricordare il milite ignoto, lo ha fatto assurgere a simbolo contro ogni guerra, credo che avesse ragione da vendere.

Cimitero inglese di Minturno, che raccoglie 2049 tombe per lo più di soldati britannici caduti nella battaglia svoltasi lungo le rive del Garigliano nel gennaio 1945. (Da: https://www.viviminturnoscauri.it/luoghi/cimitero-inglese/).

E così ricorda Romano Marchetti nelle sue memorie, questo tempo dell’anno: «Il tempo “dei santi e dei morti” era caratterizzato dall’interesse, che accomunava piccoli e grandi, per le fiere (i mercati) paesane e dalla cura alle tombe: portar crisantemi, accendere lumini, giostrare con acqua e recipienti presentava, per noi bambini, sempre un certo fascino. Ed iniziava, con la fine dei lavori agricoli e dei raccolti, l’epoca delle “file”, dello “sfueâ”, e delle fiabe raccontate dal vecchio di turno». Era quindi novembre il mese in cui i ragazzi, rientrati dall’emigrazione, incominciavano a fare la fila davanti alle porte delle famiglie ove vi erano ragazze da maritare. Venivano fatti entrare in cucina e passavano la sera con le giovani ed i parenti onde valutare, pure, possibilità matrimoniali da ambo le parti. Ma era anche il mese in cui si sfogliavano, all’aperto od accanto al focolare, le pannocchie.

E voglio finire con un ricordo recente. Al di là del fatto che la Festa di Ognissanti ed il giorno dedicato ai morti siano stati creati per allontanare tradizioni e capodanni celtici dalla religione cattolica, mi ricordo di aver sentito una delle poche prediche che mi sono rimaste impresse proprio un primo novembre a Roma, a San Giovanni in Laterano.
Disse il cardinale che sostituiva il Vescovo di Roma, allora credo Benedetto XVI, che la giornata di Ognissanti è dedicata a tutte quelle persone che potrebbero esser santificate per la vita che hanno condotto, e che potrebbero essere anche un vicino di casa od una persona che si incontra per strada.  Ma non sempre le loro esistenze vengono conosciute dalla chiesa, che beatifica e santifica chi Le è noto, magari meno degno di tanti ignoti a noi, ma non a Dio.

Laura Matelda Puppini.

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta il nuovo cimitero di Tolmezzo in costruzione ed è di Vittorio Molinari. LMP.

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2021/11/archivio-Molinari-312.jpg?fit=797%2C581&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2021/11/archivio-Molinari-312.jpg?resize=150%2C150&ssl=1Laura Matelda PuppiniETICA, RELIGIONI, SOCIETÀScrive Guccini nella sua “Canzone dei 12 mesi”, ricordando novembre: «Cala Novembre e le inquietanti nebbie, gravi coprono gli orti. Lungo i giardini consacrati al pianto si festeggiano i morti, si festeggiano i morti», dove a me piace molto il termine festeggiare, non solo ricordare. Ed anch’io, oggi, primo novembre,...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI