Quando si parla di soldato fotografato si pensa immediatamente alle fotografie del militare in divisa, solo o con i compagni, con la famiglia, od alle feste del coscritto che parte … (Silvana Rivoir, Il soldato fotografato e fotografo, in: La guerra rappresentata, rivista di storia e critica della fotografia, Priuli e Verlucca ed., 1980, p.11).

Ma vi furono anche soldati, non fotografi di professione ma dilettanti, spesso ufficiali appartenenti ai ceti abbienti e borghesi, che partirono per il fronte con la macchina fotografica ad immortalare la “loro guerra”, (Ivi, p. 13) pur autolimitando  immagini troppo forti o che potevano cadere sotto il vaglio della censura ufficiale, (Ivi, p. 16) che voleva non si producessero  immagini contro la guerra. (Ando Gilardi, I tabù impossibili della censura militare in: La guerra rappresentata, op. cit., p. 42).

Durante la prima guerra mondiale operò, in Italia, pure il Servizio Cinefotografico Italiano, simile a quello di altri stati belligeranti, «che aveva il compito di documentare a scopi propagandistici l’avvenimento, rispettando una regia il più possibile patriottica ed indolore. Sono quasi sempre gli stessi operatori che riprendono di volta in volta films o fotografie, negli stessi luoghi e nelle stesse situazioni. Specialmente i films dovevano esser proiettati ad un pubblico di civili o soldati per rassicurarli dell’efficienza dell’armamento e dell’organizzazione dell’esercito in guerra». (Bernardo Mario Valli, Appunti sul cinema e la fotografia nella prima Guerra Mondiale, in: La guerra rappresentata, op. cit., p.48).
Ma Liberale Frescura, soldato fotografo, viene impiegato anche per fotografare i cimiteri di guerra, in guerra, dall’Ufficio Centrale Cure ed Onoranze funebri di Udine.  (Claudio Fontana,  Dal marcescibile all’ immaginario, in: La guerra rappresentata, op. cit., p.53). Intorno ai morti si crea poi tutta una retorica, che paragona la morte al sonno, la morte in campo di battaglia alla gloria, e che si regge su: “In grazie al soldato morto la Patria vive”. Il corpo del soldato non si putrefà ma riposa, il campo di battaglia diventa il campo dell’onore. (Ivi, pp. 56-57).

A parere di molti, non esclusi storici irreprensibili, in tanto sconcerto ci fu, a difesa dell’uomo, una macchina e un armamentario: quello fotografico. Ma in tal modo si confonde, con il senno di poi, il ruolo che le fotografie di guerra, di quella guerra e in quella guerra, svolsero, che fu quello di: «strumenti di annientamento, come le armi e gli uomini che ritraevano». (Angelo Schwarz, La guerra rappresentata, in: La guerra rappresentata, op. cit., p. 1). Le immagini del soldato qualunque, dei ministri e generali in parata, degli strumenti di distruzione, degli interni delle trincee e delle fabbriche di munizioni erano finalizzate alla guerra e non alla pace. Ricostruire i meccanismi della messa in scena di quella rappresentazione “meccanica” «è forse l’unica possibilità per poter oggi guardare, diversamente da allora, le fotografie della Grande Guerra e scoprire quanto tacquero, quanto consolarono, quando non mentirono» (Ivi).

 « Di immagini di questa guerra – scrive Gira –  esaltata dai nazionalisti esecrata da molti altri, ne esiste un numero enorme, grazie all’opera svolta, durante il conflitto, dal Reparto Fotografico del Comando Supremo del Regio Esercito” e da singoli fotografi amatoriali».  (Gira, 1915 – 1918 La grande Guerra rappresentata, in: http://www.cimetrincee.it/rapp.htm).

La tipologia in cui si può dividere il patrimonio fotografico mondiale sulla Grande Guerra è, grosso modo, anche secondo Gira, la seguente:

•Le fotografie ufficiali, quelle che, dopo accurata scelta da parte di un apposito ufficio censura, venivano pubblicate sui giornali e, soprattutto, sui periodici dell’ epoca: in particolare su “La Domenica del Corriere”; “L’Illustrazione Italiana”; “La Tribuna Illustrata”. Nel giugno del 1916 tale materiale fotografico confluì nell’opera dei fratelli Emilio e Guido Treves, composta da 18 eleganti volumi, dal titolo “La guerra”. Così si esprime Wladimiro Settimelli, su detta opera: «L’analisi dei vari fascicoli […] visti nella loro sequenza di uscita nelle librerie, conferma che, nel complesso, la pubblicazione è saldamente in mano al Comando supremo che riesce a farne un esemplare strumento di propaganda, scegliendo immagini di una certa guerra e non della guerra […]».  (Wladimiro Settimelli, La guerra a dispense, in: La guerra rappresentata, op. cit., p. 72).
Oggetto di queste fotografie furono: movimenti di truppe; mezzi a disposizione dei combattenti; corvées in alta montagna; trincee; paesaggi; visite ufficiali dello Stato Maggiore, presunte o reali prime linee ecc.

• Le fotografie scattate da soldati, fotografi dilettanti, come ricordo o documentazione privata. Essi erano, in genere, ufficiali dell’esercito appartenenti alle classi nobili o borghesi, visto il costo dell’attrezzatura. La produzione di questo foto – amatoriali è vasta ma composta, sempre, da immagini che ritraggono momenti tranquilli della vita quotidiana, quali la tregua, il riposo, momenti di compagnia con i commilitoni, il segno di una vittoria (per es. un paese distrutto), paesaggi di diverso tipo. Spesso queste fotografie venivano inviate ai familiari, per rasserenarli. Uno dei pochi che ebbe il coraggio o l’incoscienza di documentare, a livello fotografico, la morte, la paura, i disagi, fu Carlo Salsa, che, successivamente, corredò, con queste immagini, il suo libro “Trincee: memorie di un fante”.

• Le fotografie dei paesaggi delle zone operative, a scopo puramente bellico e strategico. «All’inizio della guerra l’osservazione dall’alto era basata sulla ricognizione visuale: il protagonista del volo, soprattutto inizialmente, era l’ufficiale osservatore, mentre il pilota era considerato alla stregua di uno chaffeur. Nel marzo 1915 fu preparata con le fotografie una prima mappa delle trincee e da allora fu una continua richiesta di ricognizione fotografica, sia per realizzare mappe sia per tenere d’occhio l’attività nemica. La nazione che diede il maggior impulso alla fotoricognizione aerea fu la Germania che, già alla fine del 1917, produceva circa 4.000 fotografie al giorno, coprendo tutto il sistema di trincee del fronte occidentale due volte al mese. Il continuo impiego dell’aerofotografia cominciò a delineare un confine, fino ad allora incerto, fra la realizzazione di mappe e la raccolta d’informazioni militari. Per gli inglesi la ricognizione aerea in Egitto e in Palestina fu uno dei fattori di vittoria su quel fronte, consentendo la realizzazione di mappe di vaste zone fino ad allora prive di carte geografiche. Anche l’esercito italiano incrementò molto l’uso della fotografia aerea: per dare un’idea dello sviluppo dell’aerofotografia a fini militari in Italia, basta pensare che nel settembre 1915 furono consumati 36 mq di lastre sensibili e 187 mq di carta al bromuro, mentre nel luglio 1918 si era passati rispettivamente a 451 mq e 3.855 mq, con un aumento delle fotocamere aeree da 22 a 391. La ricognizione coprì anche, per la prima volta, delle fotoplanimetrie della zona dolomitica». (L’evoluzione della fotografia aerea nella prima guerra mondiale, in: Il volo e la fotografia, in: http://aeroclub.it/).

Ma ritorniamo al Reparto Fotografico del Comando Supremo del Regio Esercito. Esso aveva lo scopo di fornire alle persone lontane dal fronte una testimonianza “reale” dello sforzo bellico sostenuto dall’Italia, con palesi intenti di tipo celebrativo di un momento storico così importante. Alcuni fotografi operavano in pianura, a ridosso degli Alti Comandi, altri in zona montana, altri ancora facevano i “fotografi d’ assedio”.
Dei fotografi “accreditati” più noti, si conosce il nome; il più famoso fu certamente Luca Cormerio, uno dei primi e più importanti cineoperatori italiani dei primi Novecento. All’inizio della guerra, fu l’unico civile autorizzato dal Comando Supremo a riprenderne le scene. Egli non si servì solo di immagini fotografiche ma, talvolta, pure di riprese cinematografiche sui campi di battaglia, dando, in tal modo, il via al primo servizio ufficiale e moderno di cronisti di guerra. Dopo Caporetto, venne istituita la Sezione Cinematografica del Regio Esercito, da cui Cormerio venne escluso. Altre fotografie vennero firmate da inviati di quotidiani o riviste come, per esempio  Arnaldo Fraccaroli del “Corriere della Sera” o Aldo Molinari dell’ “Illustrazione Italiana”, o da fotografi mandati da qualche agenzia specifica al seguito delle truppe. (Gira, 1915 – 1918 La grande Guerra rappresentata, in: http://www.cimetrincee.it/rapp.htm).

A proposito Dario Reteuna scrive: «Lo spaventoso uragano di ferro e di fuoco che si sta abbattendo sull’Europa, devastando uomini e cose, forse per la prima volta viene vissuto anche dalle persone lontane dai fronti, attraverso il documento fotografico o cinematografico. (…).
In quegli anni, giornali, riviste e altri mezzi di comunicazione dedicano uno spazio sempre più crescente all’immagine “retinata” (fotografia o ripresa n.d.r.) perché meglio di un disegno può informare: ma a seconda del suo utilizzo, può anche illudere e mistificare .
Per questo non si tratta di una grande conquista perché le icone di guerra “ufficiali “ sono spesso “posate” per non dispiacere agli Stati Maggiori; quindi ancora una volta la fotografia, alla pari della litografia e del disegno, si presterà a ogni genere di falsificazione a fini propagandistici e rassicuranti, con il solo scopo di nascondere la realtà dei fatti». (Dario Reteuna, Una pocket per l’alpino, il bersagliere e il marinaio e alcune fotocamere da sparo, in “La guerra rappresentata” – Rivista storica…op. cit. “, p. 35).

Alcune caratteristiche di come la “Grande Guerra” venne illustrata anche all’estero è riportata sull’articolo di Angelo Schwartz “ La retorica del realismo fotografico”. Egli parla, in proposito, di “estetizzazione” della guerra, e dà un esempio concreto di ciò che intende dire, citando una fonte dell’epoca.

“Apriamo, per esempio, la collezione dell’”Illustrierte Zeitung”, il grande periodico illustrato di Leipzig (nome tedesco di Lipsia n.d.r.) –  scrive Schwarz – riferendosi ai numeri del 1917 – e vediamo quello che vi trova il borghese di Monaco o di Dresda, il quale ogni settimana lo consulta all’ “Hofbrau” assaporando caffè di ghiande di noci zuccherato con un “ ersatz” di zucchero.
Fin dall’inizio si scopre in questi numeri una faticosa ostentazione di libertà di spirito. (…). Si parla tranquillamente di musica, pittura, scultura. Ci si interessa ai minimi problemi estetici. L’occupazione della Lituania non è che un felice pretesto per ammirare i monumenti del paese, per descrivere con commozione i costumo patriarcali degli abitanti (…), per fotografare delle scene pastorali. (…).
E per far vedere a tutti che non si è barbari si citano con noncuranza strofe di Alain Charter nel loro testo originale.» (Angelo Schwarz, La retorica della guerra rappresentata, in: “La guerra rappresentata, op. cit., p.3).

Inoltre l’autore riprende l’iconografia delle copertine della nota rivista, nel periodo bellico.
Sulla sinistra, in alto, si poteva vedere «un ovale in cui sono raffigurati tre soldati tedeschi in posizione di fuoco con una mitragliatrice […] al centro di una allegoria dove, incorniciate da una ghirlanda di foglie di quercia, vediamo due torce fumanti in croce opposte a dei fogli […] su cui poggiano due penne d’oca e un sigillo, e poi una torre sotto un bombardamento con un cavallo che si impenna, una grande croce di ferro con la data 1914 due fasci di bandiere tra le quali si intravedono due cannoni le cui bocche guardano il lettore.
E se il soggetto dell’ovale cambia ogni settimana, il resto rimane invariato durante quaranta mesi di guerra». (Ivi, p.3).
E per quanto riguarda il francese “L’ Illustration”, Schwartz nota che, per fare un esempio, “Un intero numero […] è dedicato al Marocco “rappacificato”. Il testo è un elogio della tutela francese e del folklore locale. La riproduzione di dipinti, incisioni ed accattivanti immagini fotografiche di tipo turistico non accenna minimamente a quei marocchini che, oltremare, servono l’armée, impiegati in opere del genio militare quando non in prima linea “ (Ivi, pp. 3-4).

Ma se sfogliando “ L’Illustration” non è possibile trovare una fotografia che ritragga un soldato francese morto, conducendo la medesima ricerca su “L’Illustrazione italiana” o “La Domenica del Corriere” dal 1915 al 1918, «non si riesce a trovare – scrive sempre Schwartz – un’immagine che ritragga sul terreno un morto identificato come italiano». (Ivi, p.4). E si deve inoltre tener presente che, nel periodo preso in esame, furono circa ottocento le foto concernenti la guerra pubblicate da “La Domenica del Corriere” e circa milleottocento quelle pubblicate da “L’Illustrazione italiana”.
Sulla base delle immagini fotografiche pubblicate, conclude l’autore citato, si potrebbe sostenere che “sul campo dell’onore” cadde solo il nemico o, in rarissimi casi, l’alleato. (Ivi, p.4).

Ciò non toglie, che a fini di riconoscimento del “caduto”, le due riviste illustrate sopraccitate riportassero riproduzioni di funerali ed anche fototessere «già quasi tombali […], di ufficiali e soldati alle quali […] vengono dedicate centinaia di pagine; ma queste immagini significano altra cosa: lì la morte è già un mito. E la censura era cosciente di ciò quando imponeva l’assenza di filetti ai necrologi dei morti». (Ivi, p.4).

Nel 1916, “L’Illustrazione Italiana “ dedicò tre pagine alle fotografie, di carattere pittografico, scattate dall’architetto Pietro Portaluppi in quanto già allora la montagna, di fatto teatro di guerra e morte, veniva vista come «luogo salubre, che permette la caccia al camoscio e di praticare lo sci». (Ivi, p.4).

Curioso, infine, fu quanto fece la rivista fotografica francese “Le miroir”. «Durante la Grande Guerra, la rivista fotografica francese “Le miroir” documentò il conflitto ma si distinse dalle altre riviste fotografiche per la particolarità delle immagini pubblicate: nel 1914 la rivista aveva lanciato infatti un concorso fotografico con premi in denaro per i soldati che avessero inviato le proprie fotografie scattate al fronte. Interni di trincea, soldati feriti e distruzioni, ma anche città bombardate, civili, momenti di tregua riempiono le pagine del settimanale, ma la vera novità è rappresentata dal fatto che i fotografi – gli “inviati speciali” – sono i soldati, protagonisti e testimoni al tempo stesso.
Le fotografie spesso mostrano la guerra con il suo volto più crudele, ma il tono delle didascalie e la presentazione delle immagini trasmettono ai lettori messaggi rassicuranti sull’immancabile vittoria. Per parte sua, il filtro del giornale escludeva dalla visione i caduti francesi e le vittorie tedesche, ma l’orrore della guerra, a chi era disposto a guardare, non rimaneva nascosto.
Nel corso del conflitto, il settimanale raggiunse una tiratura straordinaria (500.000 copie) e, sulla base delle foto premiate, contribuì a modellare il repertorio iconografico dei soldati/fotografi, che inviavano al giornale ciò che intuivano più gradito: in questo modo, “Le Miroir” concorse a sedimentare un’educazione allo sguardo ed a diffondere uno stile fotogiornalistico». (Stefano Viaggio (a cura di), Fotografie della Grande Guerra sulle pagine di “Le Miroir”, presentazione di una mostra intitolata: “Soldati fotografi” tenutasi a Rovereto dal 13 febbraio al 25 settembre 2005,in: http://www.museodellaguerra.it/portfolio/soldati-fotografi/).

In sintesi le immagini fotografiche, nel corso della grande guerra, furono usate come mezzo di propaganda da un lato, per mediare il ricordo della guerra, dall’altro. Ma vi furono anche coloro che , come Giuseppe Pessina e Giuseppe Baduel, riuscirono a documentare la vita reale delle trincee, altri che ci provarono ma vennero censurati.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’ articolo fa parte del fondo Albino Candoni dell’ isis Fermo Solari di Tolmezzo, che ringrazio e che mi ha concesso la riproduzione di immagini delal grande guerra a fini culturali. Laura Matelda Puppini

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