“He let his mind drift as he stared at the city, half
slum, half paradise. How could a place be so ugly
and violent, yet beautiful at the same time?”

“Mentre guarda la città, mezza bassofondo e
mezza paradiso, lascia la sua mente viaggiare.
Come un posto può essere così brutto e
violento e allo stesso tempo così bello?”

(Chris Ambani, Graceland, New York 2004).

Ho conosciuto Bombay prima ancora di visitarla. Avevo visto film, letto romanzi, ascoltato musica e canzoni indiane, ma la città mi rimaneva comunque lontana. Gli occhi che la guardavano e le parole che la descrivevano non erano le mie, non mi appartenevano.
Poi mi capita per lavoro di andarci a vivere per un anno intero.
Vi arrivo a notte fonda. Durante l’atterraggio guardo dall’alto il mare di luci che si estende lungo tutta la costa, da nord verso sud, intervallato da macchie di nero al centro; sono le baraccopoli della famosa Dharavi ed altre.
È l’alba del 20 Luglio 2005 quando lascio l’aeroporto Chattrapathi Shivaji diretto ad un alberghetto di Bombay South.

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La stagione delle piogge è iniziata da poco più di un mese; il monsone è tranquillo, ma indovini e meteorologi prevedono entro pochi giorni l’arrivo di un diluvio di acqua e vento. La gente ha paura. C’è sì bisogno di acqua per le riserve idriche della città e per l’irrigazione delle campagne circostanti, ma un monsone infuriato può rappresentare per la città una vera e propria sciagura.
Vikram Kaur, un collega, mi accompagna al piccolo tempio di Sri Sankara Mattham che si trova in Telang Road, nel quartiere di Matunga, per assistere ad una cerimonia religiosa.
Ogni anno, infatti, all’inizio della stagione monsonica bramini vestiti di bianco con corone di fiori al collo, immersi in bidoni pieni d’acqua, invocano il Dio della Pioggia affinché ne conceda a sufficienza.
È mattino, il vento e la pioggia sono leggeri. Telang Road è una stradina stretta lungo la quale sorgono l’uno accanto all’altro diversi templi.
Vikram, anche se di casta bramina, non è un frequentatore abituale di luoghi sacri e non sa quale sia quello in cui si svolgerà il rito. Chiediamo a un passante che ce lo indica.

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Lasciamo scarpe e calzini nell’atrio, il luogo è silenzioso, illuminato da candele e profumato d’incenso; vicino ad una colonna, seduto a gambe incrociate, vi è un uomo forse il custode. Ci avviciniamo. Vikram inizia a parlare in hindi senza tradurre; afferro solo un paio di parole che conosco: namaste e yajna. Parlano per una decina di minuti ed alla fine scopro che siamo in ritardo, la cerimonia è già avvenuta il giorno prima.
Quando usciamo nuovamente in strada, pioggia e vento sono cessati. Ci fermiamo ad un banchetto di cibo per mangiare qualcosa. Il mio amico improvvisamente scoppia a ridere ed esclama:
«Forse i bramini hanno esagerato questa volta a chiedere piogge abbondanti ed ora è troppo tardi. Me lo ha detto il santone che abbiamo incontrato al tempio. Sta per arrivare il diluvio universale»!

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Il pomeriggio del 26 luglio, sei giorni dopo il mio arrivo, il Dio della Pioggia attacca Bombay e la colpisce con una violenza inaudita, scaricando in poche ore quasi un metro d’acqua. I quartieri, separati l’uno dall’altro, diventano isole galleggianti e negli slums, dove vivono i poveri e gli emarginati, affiorano e si intravedono solo i tetti delle baracche.
Il sistema dei trasporti è paralizzato: treni, bus e automobili sono fermi. Uomini e donne si spostano con difficoltà, nuotando o guadando da un punto all’altro, con l’acqua che arriva oltre le ginocchia. Ad aumentare le ferite di una città già devastata, contribuiscono anche le frane di fango che in un attimo seppelliscono intere baraccopoli e i cicloni al largo della costa che distruggono barche e fanno strage di pescatori.
Dopo il primo violento schiaffo, il monsone fortunatamente si attenua, ma continua a imperversare per quattro lunghi giorni, mettendo in ginocchio la città. La gente, dimenticate le divisioni tra musulmani, indù e cristiani, si aiuta e distribuisce cibo, brucia i morti, trasporta con ogni mezzo i feriti negli ospedali, giorno e notte, sorridendo, parlando ed ascoltando musica alla radio. Una nuova canzone viene cantata e ricantata:

Bombay affaticata
Si dice che Bombay non dorma mai
Non si fermi mai
Non si stanchi mai
Ma, fratello mio,
Martedì 26 Luglio
Bombay si è fermata
Si è stancata

L’emergenza dura ancora qualche giorno, poi l’acqua inizia a ritirarsi, lasciando al suo posto una spessa coltre di fango. In poco tempo Bombay ritorna quella di sempre, la “Città che danza”.
Bombay…
Un tempo chiamata dai naviganti portoghesi che per primi la scoprirono “Bom Bahia”, “La Buona Baia”, formata da sette isole che gli inglesi comprarono e trasformarono in una penisola, sulla quale costruirono la “Perla dell’Impero”, sopravvisse al crollo del dominio britannico. Poi il suo nome fu cambiato in “Mumbai”, in onore di una dea Mumba semisconosciuta. Attualmente è la più grande metropoli indiana, un luogo che cambia pelle in continuazione.
Troppa gente. Una ventina di milioni, forse di più, di residenti; centinaia di migliaia di lavoratori che ogni mattina arrivano dai villaggi dell’entroterra, lavorano quattordici ore di fila e poi rientrano a sera tarda nelle case lontane. Un giorno dopo l’altro… Una vita di merda che giustifica malessere, frustrazione, odio ed anche rivolta.

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Bombay…

Eldorado per i disperati in cerca di un luogo stabile in cui lavorare, mangiare e sopravvivere, meta di pellegrinaggi a tutte le ore di tutti i giorni.
Quando questa moltitudine affamata e triste non riesce a trovare un alloggio si adatta a vivere in tende, lungo le strade, sui marciapiedi, oppure sotto ponti e viadotti, rischiarata solo dalla luce delle stelle, quando ci sono. Queste persone conducono una vita da cani randagi, vissuta ai margini del lusso sfrenato di una élite opulenta. Vengono chiamati slumdogs, cani delle baraccopoli, abitanti di Slumbay, la Bombay di Dharavi, Kalina, Matfalan. Una terra di nessuno fatta di catapecchie di legno, cartone, lamiera e teli di nylon bianchi e blu. In questi posti non c’è acqua potabile e a volte manca anche quella per lavare e lavarsi. Di notte è difficile addentrarsi, camminare ed uscire dal labirinto di questi luoghi privi di luce che, con il calare delle tenebre, diventano ancora più miseri e squallidi.

Nel quartiere bordello di Kamathipura, con la sua via principale Falkland Road, uomini, donne e bambini sono costretti a vendere il proprio corpo per poche rupie. Qui acqua e luce ci sono, perché la prostituzione va avanti ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana senza un attimo di pausa.
Troppe macchine, bus, taxi, moto, motorini, che non si fermano mai, bruciano benzina e diesel, trasformando questi liquidi nella spaventosa nube di smog che avvolge tutti e tutto.
Il rumore dei motori assieme alla musica delle canzoni indi è l’inno di questa città, la colonna sonora che non abbandona mai la vita della moltitudine, come il fetore dei rifiuti, l’odore del cibo cucinato all’aperto, dei profumi dolci e delle spezie.

Bombay…

Immensa, sporca, rumorosa e puzzolente. Un mostro urbano il cui fascino è simile a quello di una donna bella e pericolosa, incontrata in un bar di malaffare.
Accanto alla bruttezza di Slumbay, dei quartieri della prostituzione e dei marciapiedi dormitorio, infatti, risplende la bellezza di Juhu Beach, delle Torri del Silenzio, del quartiere di Bandra, di Churchgate, delle colline, dei laghi e del parco Sanjay Gandhi. Vi si trovano ristoranti, bar e pub alla moda, ma anche locali malfamati frequentati da provocanti e seducenti bar-girls .
In questa metropoli, più che in ogni altra, bellezza e bruttezza convivono, a volte si mescolano. I confini non sono mai netti.
Il mio anno a Bombay vola. L’11 luglio 2006, il giorno prima della mia partenza, la città viene colpita da una nuova catastrofe. Questa volta non si tratta del Dio della Pioggia ma di una pericolosa organizzazione terroristica islamica chiamata Lashkar-e-Quahhar. Sette esplosioni in sette stazioni diverse squarciano il ferro dei treni e lacerano impietosamente i corpi di uomini e donne. In un pugno di minuti la morte sorprende coloro che, dopo una lunga giornata di lavoro stipati nei vagoni dei treni, stavano rientrando a casa. La folla, che a quell’ora brulica nei bazar e nei mercati circostanti, assiste in diretta all’orrore. Il bilancio è drammatico: 181 morti e 890 feriti.
Chiamo subito i miei amici, tutti lontani grazie a Dio dai luoghi in cui le bombe hanno cancellato quelle vite.
Solo il telefonino di Mary, la mia segretaria, continua a squillare a vuoto. A quell’ora, finito il lavoro, abitualmente prende il treno alla stazione di Jogeshwari per raggiungere la sua casa a Borivili.

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Ganesh, il fidanzato, imbarcatosi da poco su una nave come cuoco, mi chiama preoccupato e mi prega di ritrovarla. Mi aiuta nelle ricerche Mira, la sorella minore di Mary, che mi raggiunge a Bandra il quartiere in cui vivo.
Prendiamo un taxi e cerchiamo di dirigerci verso la stazione. La città, su cui ora è calata la notte, sembra in stato di guerra. Le sirene delle autoambulanze urlano, il traffico è bloccato, la gente si accalca impaurita mentre centinaia di poliziotti cercano di mettere ordine al caos.
Con una lentezza che aumenta l’angoscia, raggiungiamo la stazione semidistrutta. Si vedono ancora disseminati pezzi di gambe e braccia umane. È una visita all’inferno. Mary non c’è, né tra la folla ancora sconvolta né fra quei tristi brandelli di corpi inanimati. Iniziamo la ricerca partendo dagli ospedali e dalle cliniche situate nelle vicinanze, ma telefonare è un esercizio di pazienza: le linee sono spesso occupate e le risposte nervose e incomprensibili. Poi finalmente risponde il Bhagwati Hospital a Borivali. Una voce gentile di donna ci informa che sono stati ricoverati in quella struttura una trentina di morti ed una cinquantina di feriti, fra cui un paio di giovani ragazze di nome Mary.
Da sud a nord percorriamo tutta Bombay che, dopo una lunga e caotica notte, si prepara – nonostante tutto – all’alba di un giorno qualsiasi. Arriviamo all’ospedale il cui nome – mi spiega Mira – è quello di una dea e significa fortuna, e vediamo l’atrio occupato da molti corpi, avvolti in lenzuoli bianchi con larghe macchie di rosso. Evidentemente i posti negli obitori sono esauriti. Fa caldo e il fetore di carne in decomposizione è forte, ma non è possibile bruciarli senza prima effettuarne il riconoscimento. Molta gente aspetta in silenzio. Dopo un paio di ore ci dicono dove cercare; saliamo al piano superiore scavalcando uomini e donne, attraversiamo un salone intasato da feriti con gli occhi colmi di paura e tristezza. Dal tetto enormi ventilatori a pale muovono aria bollente. Vicina ad una finestra aperta, che lascia entrare la luce e i rumori della città, troviamo Mary, addormentata su un letto senza lenzuola. Il suo kameez salwar è stracciato e sporco di sangue. Ha ferite sulle braccia e sulle gambe, ma per fortuna è viva.
Rassicurato, guardo l’orologio e mi rendo conto di avere l’aereo fra meno di dodici ore. Non vorrei partire, ma mi è impossibile restare.

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Nel taxi che mi accompagna da Bombay South all’aeroporto, ripenso al tempo trascorso in questa immensa città, agli episodi, alle storie, alle sorprese, agli amici indiani.
Leggo le annotazioni e i pensieri che ho appuntato in un quaderno e l’idea di un romanzo che racconti Bombay, così come l’ho vista e vissuta, lentamente prende vita in me. Poco prima di arrivare a Chattrapathi Shivaji l’idea diventa una decisione.
Da questa mia esperienza nasce quindi Rosso Bombay.
Rosso, perché questo è il colore del sangue che scorre fra le storie che racconto, ed anche perché mi piace pensare che se un giorno la città verrà liberata dalla fame, dalla miseria e dalla disperazione in cui versa, e sarà questo il suo colore.
Rosso Bombay… Un romanzo. Ma anche il mio ritorno in questa splendida e contraddittoria città, per vivere un altro monsone, se non con il corpo, almeno con la mente.

Francesco Cecchini.

Questo racconto è stato utilizzato da Francesco come prologo del suo romanzo “Rosso Bombay”, pubblicato da Nuova IPSA, nel 2014, ed è già stato pubblicato sicuramente su: http://www.sagarana.net/, con titolo: “Una passione chiamata Bombay”.
L’immagine che correda l’articolo è tratta, solo per questo uso, da: www.unfilmunarecensione.com, e rappresenta Dhoby – Ghat a  Mumbay. L’ho ricolorata  in seppia,  per rendere la povertà che per me è monocolore. Laura Matelda Puppini

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