Ho chiesto a Francesco Cecchini di poter pubblicare questo suo racconto autobiografico, un pezzo di vita fatto di incontri, paesaggi, bidonville, rivoluzionari, donne, perchè mi è piaciuto. Io credo che i viaggi degli altri aprano la mente, portino a conoscere esperienze, mondi, vissuti diversi.

Francesco dedica questo scritto a : Sybila Arredondo, vedova di José Maria Arguedas, rivoluzionaria che ha trascorso 14 anni nelle prigioni peruviane.

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Ho lavorato e vissuto in Perù negli anni 80 in due occasioni. Il Perù di quegli anni era un inferno…

Ho conosciuto Gonzalo Fernandez Gasco che è morto l’ ottobre scorso. Gonzalo partecipò alla guerriglia degli anni 60 con il MIR di De La Puente Uceda e fu importante per conoscere il paese.
Ho conosciuto Maria, una studentessa si offriva per insegnare spagnolo agli stranieri. Maria diventò militante di Sendero Luminoso e come tanti altri sparì nel nulla. Conobbi e frequentai anche l’archeologa Maria Reiche…

 

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Perù, in spagnolo Perú, in francese Pérou, in quechua ed aymara Piruw.

Il paese che ho conosciuto era ancora fatto di due mondi, che appaiono mescolati a Lima. In alcuni luoghi della costa parlano due lingue, hanno due culture e due tradizioni.

Per un anno intero, una volta al mese, andavo da Lima ad Ancascocha e Coracora, nelle Ande centro meridionali, facendo poi ritorno. Partivo nel primo pomeriggio, viaggiavo lungo la panamericana e facevo una sosta per dormire a Nazca all’Hotel de Turistas, perché non è consigliabile andare di notte ad Ancascocha. La sera ascoltavo Maria Reiche parlare di las lineas de Nazcas, gli antichissimi enormi, indecifrabili, disegni tracciati sul terreno.

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Un giorno mi prendo una vacanza e con pochi altri seguo Maria Rieche fino a una torre metallica al lato della panamericana. Da lì fino a Palpa si estende la Pampa Colorada, dove si trovano la maggior parte dei disegni, dalle forme zoomorfe o fitomorfe.

Un calore che brucia, e il vento che alza la sabbia, non mi permettono di vedere e capire molto di quegli strani tracciati. Osservo da vicino Maria Reiche, alta e magra, un poco curva, occhi azzurro-grigi dietro gli occhiali, capelli bianchi spettinati, pelle del viso consunta dall’aria, e abbronzata dal sole.

Nel primo pomeriggio con un piccolo aereo, un Cesna, sorvolo per una trentina di minuti un deserto di sabbia che pare un paesaggio lunare, con i suoi disegni: un’iguana, un gabbiano, pesci, un cane, figure geometriche che possono essere visti solo dal cielo. Distinguo bene le linee che secondo l’archeologa tedesca puntano alla luna, al sole e alle stelle.
Dopo aver dormito poco, all’alba abbandono la panamericana e salgo verso la cordillera delle Ande.

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Un viaggio epico, alcune ore per una strada stretta e di terra, tutta curve, chiamata la cuesta del borracho, la salita dell’ubriaco. Arrivo fino a Pampa Galera, per attraversare l’altipiano e poi scendere alla diga di Ancascocha, a circa 3000 metri e ad una decina di chilometri dal pueblo (villaggio) di Coracora.

Mi ricordo qualche strapiombo, cieli limpidi da dicembre a maggio e nubi di polvere sollevate dall’auto, da poche corriere e camion. Durante l’inverno, che inizia a giugno, cadono piogge torrenziali, fango e frane. Nella “Puna”, las vicuñas, animali locali, a tratti corrono parallele alla mia auto. A volte incontro l’esercito, a volte Sendero Luminoso: nell’un caso e nell’altro caso c’è sempre un biglietto da pagare per poter andare oltre e continuare il viaggio. Di solito, sia all’andata che al ritorno, mi fermo a Puquio per una sosta, tirare il fiato, bere e mangiare qualcosa.

La piccola città, capitale della provincia di Lucanas, è lontana dalla costa non solo per i chilometri ed il tempo necessario per percorrerli. I giornali arrivano un giorno sì e molti altri no, il telefono funziona male, non c’è la televisione, la radio è disturbata, si parla poco lo spagnolo. La gente che se ne va difficilmente ritorna, e un huayno canzone dal ritmo musicale caratteristico: “Expreso Puquio Perez Albela”, racconta in quechua, l’idioma locale, il dramma continuo dello sradicamento. Una cassetta mal registrata in un mangiacassette sgangherato, è quasi sempre la colonna sonora dei miei pasti in un piccolo ristorante della Plaza de Armas.

A Lima ho degli amici, tra cui Maria, una studentessa di lettere all’Università di San Marcos, che insegna spagnolo agli stranieri e canta in alcuni locali, quando capita, canzoni che non ama. Bisogna pur vivere, dice. A me piace ascoltare “Cardo o ceniza” di Chabuca Granda:

Cómo será mi piel junto a tu piel
Cómo será mi piel junto a tu piel
Cardo o ceniza
Cómo será
Si he de fundir mi espacio frente al tuyo
Cómo será tu cuerpo al recorrerme
Y cómo mi corazón si estoy de muerte
Mi corazón si estoy de muerte.

Maria, simpatizzante di Abimael Guzmàn, il Presidente Gonzalo, capo del Movimento Comunista armato Sendero Luminoso, mi guarda come se fossi un gringo stupido e decadente.

Di solito incontro Maria, che vive a Magdalena, in Jiron Amazonas, a Plaza San Martin, davanti al Bolivar Hotel o all’entrata del Teatro Colon.
Il cuore coloniale di Lima, brulica di andini dalla pelle scura e dai capelli neri come il carbone. Decine di bambini o chiedono l’elemosina o si bagnano nell’acqua delle fontane. È facile essere derubati del portafogli o dell’orologio.

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Se non andiamo al cinema, al Colon, la convinco a venire a Miraflores, il quartiere dove vivo e lavoro. Ci sono buoni ristoranti, si può ascoltare jazz, blues e musica afroperuviana che piace a Maria. Qui il pericolo di venire assaltati e derubati è debole. Da quando Abimael Guzmán ha iniziato le ostilità, impiccando ai pali della luce decine di cani anche squartati, altri con il pelo imbrattato di nero, tutti con la scritta “Deng Xiao Ping hijo de perra“, Lima, di notte, è una città rischiosa.

A Maria piace la musica andina huaynos, quena, arpa, ma non ci sono peñas folkloricas, posti ove si suoni musica tradizionale, a Miraflores, quindi a volte, la domenica pomeriggio, dopo aver mangiato cibo peruviano cinese in una cifa a Chon Wa, andiamo in un locale, oltre il ponte sul Rimac, la peña Hatuchay, dove ogni tanto suona l’orchestra “La Agresiva, salsa durissima”.

Mi fa conoscere anche il coliseum per la pelea de gallos, l’arena per la lotta fra galli, ma non mi accompagna a vederla. Maria sta anche lontana dalle corride della plaza de toros di Huacho. Mi porta invece a Polvo Azules, un vero e proprio souk (mercato) a una cinquantina di metri dal palazzo presidenziale, paradiso del contrabbando. Si può comprare artigianato andino, whisky scozzese, sigarette Marlboro made in Usa, e vestiti Pierre Cardin fatti in loco.
Compro una coperta di alpaca da un uomo di Cuzco che mi propone, furtivo, l’acquisto di huacos, vasi funerari ed altro, ben nascosti sotto la bancarella. Uno sguardo severo della mia amica mi dissuade dal trafficare in reperti archeologici.

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Una sera, all’Haiti, racconto a Maria delle soste a Puquio per mangiare caldo de pollo, cuyes arrosto, patate, chicha morada e caffè lungo e nero, a volte mate di coca.

A Maria luccicano gli occhi ed esclama con voce eccitata:
«Ma Puquio è il pueblo dove José Maria Arguedas ha trascorso parte della sua infanzia e adolescenza, parlando il quechua prima che il castigliano! Arguedas, è il grande scrittore peruviano, che ha scritto romanzi dove l’idioma dei conquistadores si incrocia con quello degli Inca e con lo spagnolo delle Ande. A torto è stato definito indigenista, mentre è un’inventore di scrittura con una coscienza sociale. Un grande scrittore più grande di Palma, di Ciro Allegria e perfino di Vargas Llosa, che a voi piace tanto».

Dice il nome di Vargas Llosa con ironia e disprezzo: mi guarda negli occhi, ma io non raccolgo la provocazione, anche perché non ho ancora letto “La ciudad y los perros”, “La casa verde”, “Pantaleón y la visitadoras” e gli altri romanzi dello scrittore di Arequipa.

«Proprio a Puquio, Arguedas ambienta il suo primo romanzo del 1941 – prosegue Maria – “Yawar Fiesta, Fiesta de sangre”. È il romanzo del Perù andino, figlio degli Incas e degli spagnoli. Leggilo, i tuoi viaggi dalla costa alla sierra non saranno più gli stessi. Sarà diverso quello che ascolterai e vedrai, perché lo capirai meglio».

Maria continua a parlare. «Con un gruppo di studenti di San Marcos ed un professore ho visitato alcuni anni fa Puquio, ricorrendo il Jirón Bolívar, dove, quando Arguedas era bambino, abitavano i mistis ed i notabili, vi erano la Escuelas de varones, il carcere, la piazza centrale, il posto della Guardia Civil. Dall’abra di Sillanoy ho potuto scorgere i quartieri degli indios, gli ayllus, di Pichk’achuri, Chaupi e K’ollana. Ho visto i torrenti di Pichk’achuri e Yalpu. Sono stata nella puna di Koñani. Ho visitato i resti della casa di Arguedas che si trovano in una fattoria a San Juan de Lucanas, non lontano da Puquio. Poi abbiamo proseguito per Abancay e Cuzco».

Mi faccio ripetere lentamente i nomi e li scrivo sopra un paio di tovaglioli di carta. Prima o poi mi fermerò a Puquio e a San Juan de Lucanas per un paio di giorni.

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«Con lo stesso gruppo sono stata anche a Chimbote dove Arguedas ambienta “El Zorro de arriba y el zorro de abajo”, “La volpe della cima e la volpe del basso”. – continua Maria – Chimbote era ed è l’immagine di un Perù mischiato, un porto dove s’incontra tutto il paese, volpi della sierra e volpi della costa, ma non solo: vi sono cinesi, giapponesi, neri. Una grande barriada, un grande quartiere di periferia sul Pacifico.

Dopo Chimbote volevamo visitare anche la prigione El Sexto, ma non ce lo hanno permesso. Prima di terminare il suo ultimo romanzo, che è anche un’inchiesta antropologica, Arguedas si suicidò e chiese come ultimo desiderio di venir accompagnato al cimitero El Angel con musica andina. Musicisti, suoi amici, suonarono quenas, arpas e charangos. Fu un corteo funebre imponente, con molti studenti con bandiere di Cuba e del Vietnam del Nord, che cantavano “L’Internazionale“. Ho sempre voluto scrivere qualcosa su José Maria Arguedas, magari lo farò per la tesi di laurea».

Da narratore dei miei viaggi andini divento un ascoltatore attento, preso dall’uomo e dallo scrittore Arguedas, dalla sua scrittura, dall’impegno, dall’infelicità e dalla morte. Annoto i titoli dei suoi libri “El Sexto”, “Los rios profundos”, “Todas las sangres” e soprattutto “Yawar Fiesta”.

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Il giorno dopo non vado in ufficio, ma cerco il romanzo “Yawar Fiesta” nelle librerie del centro di Lima. Lo trovo in una libreria all’inizio del Jirón de la Unión: è un piccolo libro tascabile pubblicato dalla Editorial Horizonte. Sulla copertina, gialla, è disegnato un toro nero con legato sul dorso un condor dalle ali spiegate, che lo ferisce alla testa ed alla schiena con gli artigli ed il becco, mentre dal dorso del toro sgorgano fiotti di sangue.

La cassiera guarda la copertina e dice:«Nel romanzo non viene narrato il Turupukllay, la lotta tra questi due animali. Il Turupukllay fa parte della Yawar Fiesta, ma non sempre viene realizzato. Io vengo da Ayacucho, ne ho sentito parlare, ma non l’ho mai visto. Esiste ancora però. Dicono che di solito vinca il condor, ma alla fine è spennacchiato ed anche lui perde sangue.»

«Io, ho visto i condor solo volare nei cieli di Lucanas o di Coracora».

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Dopo il lavoro e la cena rinuncio ad uscire e inizio la lettura che termina la mattina.

É sabato, per fortuna, così posso dormire quanto voglio. Leggendo, traduco mentalmente dallo spagnolo all’italiano, aiutato dalle molte parole in quechua che hanno a piè di pagina una spiegazione. Ayllu è il villaggio indio, cholos sono i meticci, yaku è l’acqua …

Alcune parti, poche e non lunghe, le traduco per iscritto, per esempio l’inizio della storia:
«Tra campi di erba medica, coltivazioni di frumento, fave ed orzo su una collina accidentata si trova il villaggio. Dalla gola di Sillanok si vedono tre torrenti che scorrono, avvicinandosi tra loro via via che arrivano alla valle del grande fiume. I torrenti scendono dalla puna correndo in un letto brusco, ma poi si distendono in una pampa irregolare dove c’è perfino un piccolo lago; termina la pianura ed il corso dei fiumi si rompe un’altra volta e salta di cateratta in cateratta fino ad arrivare in fondo alla valle. Il villaggio si vede grande, sopra il monte, seguendo la collina tetti di tegole si alzano dalla riva del torrente, dove crescono alcuni eucalipti, fino alla cima; nella cima terminano perché sul bordo della collina si trova la via Bolivar, dove abitano i notabili...».

Il romanzo racconta di una tradizione delle comunità indigene del Perù, la corrida india, dove il toro viene affrontato non in una plaza de toros da un torero, ma all’aperto da centinaia di indios. Durante il massacro del toro, e di qualche indio, si suonano delle trombe, le wakawak’ras, fatte con le corna di tori uccisi negli anni precedenti.

La tradizione rischia quell’anno di venire sconvolta da una ordinanza dell’autorità di Lima che proibisce la forma selvaggia praticata dagli indios e ordina che la corrida avvenga nella forma civile (civile è tutto dire, io toglierei questo aggettivo) praticata dagli spagnoli e cioè in una plaza de toros, anche se provvisoria, e con un torero professionista.

Alla fine le cose non vanno come ordinate e il giorno della festa centinaia di toreri indios occupano Puquio. Cori di donne cantano inni che incitano il toro:

«Ay turullay, turo, wak’raykuiari, sipiykuyari, turullay turo
Ay toru cornea pues, mata pues totro
Ahii toro. Dai incornalo, dai uccidilo, toro, toro».

Ed ancora:

«Turullay, turo, wak’raykunkichu sipiykunkichu turullay, turu!
Ay toro, toro como has de cornear, como has de matar, toro,toro».

Ibarito, il torero venuto da Lima, si fa impressionare dai cori e dice:
«Senor Escobar, potrebbe far chiudere la bocca a queste donne che già vedono il mio cadavere?» Poi inizia a toreare, ma quando il toro si avventa sul suo corpo e tenta di travolgerlo, corre a gambe levate a ripararsi.

Gli abitanti di Puquio lo sfottono ed incitano gli indios toreri ad affrontare l’animale, che prima ne incorna uno, poi viene abbattuto con un candelotto di dinamite.
«Vede signor Sottoprefetto? Queste sono le nostre corride, la vera festa di sangue». – dice l’Alcalde, il saggio, nell’orecchio dell’Autorità.

Parlo per telefono a mia moglie Elena della lettura del libro, e lei mi dice che il romanzo, tradotto da Umberto Bonetti, è stato pubblicato da Einaudi, assieme ad altri lavori di Arguedas: “I fiumi profondi”, “Il Sesto”…

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Quando a fine anno ritorno in Italia, per le vacanze di Natale, la prima cosa che leggo è il romanzo “Festa di sangue“. È un’ottima traduzione che trasmette emozioni al lettore, attraverso la storia drammatica di questa corrida india, ambientata nelle Ande del Sud.
Il traduttore, inoltre, sa conservare in italiano il sapore di uno spagnolo speciale, influenzato dal quechua, sia per la presenza di molte parole in lingua, sia per la struttura del testo e soprattutto per i dialoghi.

Confronto la traduzione di Umberto Bonetti con i pochi pezzi che ho tradotto da solo, e noto che vi sono delle differenze, ma tutto sommato ininfluenti. Che importanza ha tradurre la parola varayok con alcalde, invece che con saggio? Oppure jirón con girone e non con via? O ancora riachuelos con fiumiciattoli, invece che con torrenti? Nessuna o molto poca, agli occhi del normale lettore.

Leggo la traduzione italiana, con a fianco il testo originale e quello dei pochi brani che ho tradotto. Al termine della lettura sono tentato di terminare il mio esecizio di traduzione, per migliorare italiano e spagnolo, anche se quello di Arguedas è molto speciale, molto peruviano e indio. Lo farò con molta lentezza e a salti, ma alla fine esiste un “Yawar Fiesta” tradotto da me.

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Di ritorno a Lima, in un cinema del centro, guardo i film di Louis Figueroa, “Kukulí” ,”Yawar Fiesta”, “Perros hambrientos”. Le immagini aiutano a capire le parole.
Ne voglio parlare a Maria, ma è sparita. La cerco nell’appartamento buio di Jiron Amazonas, ma mi dicono che da un paio di mesi non vive più lì, né ha lasciato un recapito.

Vado anche All’universtà San Marcos. Il prato ed i portici sono affollati da studenti con volantini da distribuire, fazzoletti rossi al collo e bandiere rosse alzate. Una ragazzina, dall’aspetto di una chola, di una andina, ha un altoparlante e grida slogan: “Compagni, dobbiamo abbattere il governo fascista, far sentire la nostra voce e quello del popolo oppresso…”

Mi avvicino e chiedo di Maria, ma la ragazzina mi guarda come se fossi un poliziotto. Anche gli altri mi danno occhiate ostili, quindi me ne vado.

Passano l’estate e l’autunno australi ed infine, un giorno d’inverno, prima di una partenza per Ancascocha, Maria mi telefona e nemmeno mi chiede come sto o mi lascia il tempo di chiederlo a lei.
«Portami a Coracora, vieni a prendermi domani mattina presto, ma non con la tua macchina, telefona a questo numero, l’autista sa dove trovarmi».

Il mattino dopo è una giornata di garua, nebbia che rasenta il suolo e che arriva, a raffiche, dall’oceano. È umido totale.

Attraverso la città da Miraflores a nord. L’entrata della bidonville è piena di spazzatura; la strada che porta al centro è sfondata e fangosa; gli scarichi delle fogne sono a cielo aperto.

Trovo Maria che indossa scarpe da ginnastica, jeans, un giubbetto di plastica nera; sotto braccio ha un poncho ed in mano tiene una borsa da ginnastica. Mi fa un sorriso, ma nessun saluto. Con l’autista scambia uno sguardo.

«Perché hai scelto me per raggiungere le Ande?» le chiedo.

«Perché ti conoscono la Dircote il corpo speciale antiterroristico, l’esercito e la polizia ed anche noi ti conosciamo. L’impresa per la quale lavoro, Ingenieros Constructores, dà denaro sia all’esercito che controlla agua abajo, l’acqua a valle di Ancascoscha, sia a Sendero che è controlla agua arriba, l’acqua a monte. Tutti sanno che la diga darà acqua ai peruviani».

Nel primo pomeriggio lasciamo la città, ancora grigia e indolente. Lungo la panamericana sur,  a qualche decina di chilometri da Lima, il cielo color panza de burro, pancia d’asino, scompare, e appare il sole.
Il viaggio è veloce, c’è poco traffico, e a Paracas, Lluvia de arena, non c’è la solita tempesta di sabbia. Non parliamo.
Al tramonto arriviamo a Nazca. Maria resta in macchina. Non le importa di ascoltare Maria Rike, e non vuole registrarsi. Salta la cena. Al mattino le porto una bottiglia d’acqua minerale.

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Riprendo la Panamericana. La strada per Puquio è controllata dall’esercito. Poco dopo devio per Puerto de Lomas, un piccolo porto di pescatori. È Maria che suggerisce il luogo. Nel 1919 dopo sei giorni di cavallo da Lucanas, è in questo porto che José Maria Arguedas si imbarca nell’Urubamba per visitare per la prima volta Lima.
«Conocí al mar de noche. Conobbi il mare di notte», cita Maria da non so dove, ma non capisco cosa voglia dire.

In un piccolo hostal facciamo colazione. Maria, che non ha cenato, prende chidea, ceviche, birra e caffè, poi, prima di ripartire, va al bagno per lavarsi. Mentre aspetto esco e nella caleta, mi soffermo a guardare le barche ed i pescatori ritornati dalla pesca notturna.

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Il viaggio a Chala dura poco più di un paio d’ore. La strada è una striscia d’asfalto che scorre tra un deserto di dune e l’Oceano Pacifico.

Maria parla e cerca di convincermi ad abbandonare il Perù.
«Francesco, quello al quale ora stai assistendo è nulla. Ancora poco e la lotta popolare diventerà rivoluzione e sarà un inferno. E nessuno ama los gringos come te, né i  Tupac Amaru, né l’esercito, né la gente, né noi».
Continua a dire noi, quindi penso che sia già arruolata in Sendero Luminoso.

«Torna a casa fino a che sei in tempo!»

Sono attento alla strada, ma riesco a darle uno sguardo ironico.

«Ritorno in Italia il prossimo anno, a lavoro finito. Il tuo paese è già nell’inferno, ma io non mi sento in pericolo».

Poco dopo Chala lascio la panamericana e prendo la strada che porta a Coracora.
Salendo dalla costa alla sierra, Maria passa dalle esortazioni alla fuga, all’indottrinamento.

Recita a memoria, o quasi, il programma generale della rivoluzione senderista: «Il partito comunista del Perù si fonda ed è guidato dal marxismo-leninismo-pensiero di Gonzalo, come applicazione creatrice della verità universale alle condizioni concrete della rivoluzione peruviana…».

Dopo un po’ non l’ascolto più, ma con la mente vado al Sendero che conosco.

A metà del luglio scorso i senderisti entrano a Coracora, saccheggiano negozi, incendiano il municipio e gli uffici statali, uccidono un direttore di scuola ed un poliziotto.

Poco dopo, un sabato notte, arrivano alla diga, prendono una camioneta, della dinamite e radunano tutti in un piazzale. Una donna con un passamontagna che copre il volto, parla del Presidente Gonzalo, la quarta spada della rivoluzione. Chiude la predica esortando il personale a non ubriacarsi, a non buttare i soldi in vino o pisco, tipica acquavite, ma di inviarli alle famiglie che ne hanno bisogno.

Penso ai villaggi attorno ad Ancascocha, tetti di paglia o calamina, lamiera, muri di pietra od adobe, un misto di materiali di scarto e paglia. Niente acqua, niente elettricità, né scuole, né ospedali. Gli abitanti non parlano lo spagnolo, ma il quechua e la coscienza di trovarsi in Perù è debole se non inesistente. Sendero si presenta come l’organizzazione che può portare quello che manca, ed arruola donne, ragazzi e uomini nell’esercito popolare.

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Quando raggiungiamo l’altipiano, appare all’orizzonte il vulcano Sara Sara. La neve della cima è eterna e brilla sotto il sole del tardo pomeriggio.

«Sara è il mio secondo nome, mi chiamo Maria Sara» dice Maria.

«Il vulcano è stato scalato da poco. Un collega appassionato di archeologia, amico di Kaufman Doig,  mi ha detto che c’è in programma una missione archeologica sulla cima. Non ora, certo, troppi senderisti in giro. Nelle cime innevate gli Incas facevano sacrifici umani e poi lasciavano le vittime mummificate, anche bambine. Se ne troveranno una, la chiameranno Sarita».

«Maria Sarita, allora!» esclama Maria.

«Glielo dirò».

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Nel tratto di strada che costeggia la laguna Parinacocha fermo la macchina e scendiamo. Offro a Sara una sigaretta, un Inca: tabacco nero senza filtro, difficile da fumare nel calore della costa, ma qui a 3000 metri va bene.
Guardiamo in silenzio i fenicotteri rosa. Maria è tesa e lo sono anch’io. Poi saliamo di nuovo in macchina e mi chiede se ho delle sigarette. Le lascio il pacchetto di Inca e l’accendino.

La faccio scendere all’inizio di Coracora. Mi da un bacio sulla guancia e mi dice: «Suerte», «Buona fortuna».

Ricambio il bacio e le dico: «Suerte y cuidate», «Buona fortuna e stai attenta».

Non entro in paese ma accelero verso Ancascocha; non voglio che mi piombi addosso la notte andina, stellata ma pericolosa.

Non rivedrò mai più Maria, né sentirò parlare di lei.

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Ritorno in Perù nel 2008 e riattraverso il paese che ho conosciuto: Lima, Cajamarca, Chota, Chiclayo, Nazca, Puquio, Coracora, Cuzco, Madre de Dios, Costa.  Sierra e selva sono meno separate.

Le bellezze coloniali di Lima, i parchi di Miraflores e Barranco, le spiagge lungo il Pacifico sono sempre lì, ma Lima è ora una città immensa, una megalopoli di oltre 7 milioni di abitanti. Anche la periferia, las barriadas, i pueblos jovenes si sono estesi, veri e propri slums.

La strada che da Nazca porta a Puquio è asfaltata. Da Lima si arriva a Cuzco in meno di 24 ore. A Coracora c’è internet. I combattenti di Sendero o dell’MRTA per lo più sono morti o in prigione, ma le lotte sociali del popolo peruviano nelle città, nelle Ande, nella selva o altrove, sono ancora vive, come sono vive le città.

Francesco Cecchini.

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Il testo è già stato pubblicato sul sito http://www.storiastoriepn.it/ il 27 aprile 2015, con diverso editing.

Laura Matelda PuppiniARTE E FOTOGRAFIASenza categoriaHo chiesto a Francesco Cecchini di poter pubblicare questo suo racconto autobiografico, un pezzo di vita fatto di incontri, paesaggi, bidonville, rivoluzionari, donne, perchè mi è piaciuto. Io credo che i viaggi degli altri aprano la mente, portino a conoscere esperienze, mondi, vissuti diversi. Francesco dedica questo scritto a :...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI