È la fine di maggio, sono stanca ed affaticata, e voglio riposare un po’. Così accetto, senza pensarci molto, uno dei tanti inviti che mi sono giunti: quello della Fondazione Alexander Langer, per un incontro al Monastero di Montebello. Io ed Alido ci andiamo “al buio”, sapendo poco o meglio nulla del Monastero, ma desiderosi di una riflessione e di un po’ di pace.

Il Monastero ci attende con le sue mura, ricostruite da Gino Girolomoni, con la sua chiesa spoglia, con i lunghi corridoi, le pareti bianche, le stanze silenziose e curate. Si respira un’aria di pace e di cose antiche, anche se poi il moderno pastificio, al di sopra, ci ricorda che siamo nel ventunesimo secolo, come la luce elettrica ed i confort, nonché una grande pala eolica che trasforma il vento che scompiglia i capelli in energia.

Non vi è televisione, e si gode un insperato senso di pace. Al piano terra, il pozzo dei frati ed un piccolo museo di civiltà contadina, sapientemente allestito; all’ingresso, le foto di Gino e Tullia Girolomoni e dei loro figli; sulle scale di pietra un lampadario poliedrico, al primo piano una immagine di San Girolamo.

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Il primo monastero venne fondato, lassù, fra terra e cielo, da Pietro Gambacorta da Pisa, appartenente ad una ricca e potente famiglia nel lontano 1377 od 80, che aveva raggiunto la località, comunemente appellata Montebello, vestito di sacco, per vivere come eremita la sua esperienza di fede e preghiera. Era quel luogo «servito per lo più da alberi […] fertile di ottimo grano e di biade» e ricco di erbe per i pascoli degli armenti, permettendo così di produrre formaggio di buona qualità.

Non era solo però lassù Pietro eremita, perché nella macchia vivevano anche perseguitati forse politici, forse dalla chiesa interessata al potere, o forse fuggiti da altre calamità, da un’invasione, da … Con alcuni di loro e con altri Pietro costruì un piccolo cenobio. Alla sua morte gli eremi-monasteri presenti erano ben 13, aggregati alla Società dei poveri Eremiti di San Girolamo, e raggiunsero la cifra di novanta alla fine del 1700.  (Pietro Gambacorta, in: AA.VV. Mediterraneo Dossier, N.44, Fondazione Girolomoni edizioni, primavera 2014, p. 96).

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Così scrive del Monastero Grazia Francescato: «Viviamo in un’epoca in cui la memoria è in estinzione […]. L’inizio del Terzo Millennio è contrassegnato da una accelerazione degli eventi mai sperimentata prima nella storia dell’umanità. Questa inedita velocità, unita alla complessità della realtà che ci circonda, condanna cose e persone ad una rapidissima obsolescenza. Tutto cade nell’oblio con rapidità sconcertante, tutto diventa vecchio, out, in un batter d’occhio: pensate al crollo del muro di Berlino, sembra un secolo fa.  Pensate alla tragedia delle twin towers che ha scosso la coscienza del mondo intero. Sembrano passati decenni ed era solo il 2001.

Di fronte a questa impossibilità/incapacità di tener traccia del passato, di fronte a questa costrizione a vivere solo nel presente, (un presente frammentato, sgangherato, inconsapevole proprio perché la perdita della memoria comporta anche la perdita della nostra identità collettiva) fermarsi a recuperare il valore della memoria è un “esercizio spirituale di enorme importanza”.

Ecco perché è bello e consolante stare qui, tutti insieme, e dedicare un giorno intero […] a Gino e Tullia, alla ricostruzione del loro mondo, dell’universo di Montebello., […] di una grande avventura comunitaria, in un’epoca in cui dilaga l’individualismo senza radici spinto solo dal desiderio di una gratificazione immediata, facile da consumarsi subito». (Grazia Francescato, Custodire la vita, in: Mediterraneo, cit., p. 18).

«Per noi – scrivono Marilena e Daniela Mezzolani – Montebello è condivisione di fede. Un luogo speciale in cui riflettere, conoscere, pregare, e sperare […]». (Marilena e Daniela Mezzolani, Custodire sé stessi, la propria anima, in: Mediterraneo, cit., p. 23).

Ma quando Gino Girolomoni ci andava da ragazzo, era un rudere.

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Ma chi è Gino Girolomoni?

Ora molti vicini al mondo dell’agricoltura biologica, ambientalisti, mistici lo conoscono, ma prima di costruire il suo progetto Montebello, era un giovane come tanti, con qualche sfortuna in più, con qualche fortuna in più.

Gino Girolomoni era nato ad Isola del Piano, un piccolo borgo marchigiano, sotto il monte Berardo, antico nome di Montebello, da una famiglia contadina. Il paese non offre molto. «Intorno c’è poco. Ma quel poco avanza. È un piatto di polenta per sfamarsi, è l’acqua appena tirata su dal pozzo, è un bicchiere di vino per compensare la fatica di ogni giorno». (Massimo Orlandi, La terra è la mia preghiera, emi ed., 2014, p. 11).

Però allora, scrive Gino, «Nelle campagne c’era sì la povertà, la fatica, ma c’erano anche i valori che gli uomini hanno dimenticato: la parola data, la solidarietà, la cura di un paesaggio che era bello anche da vedere». (Ivi, p. 11.).

Poi il collegio, la nostalgia di casa, una suora che gli narra la Bibbia, il diploma di perito meccanico, l’arte di fare di tutto per sopravvivere.

La madre è morta giovane lasciandoli soli, la famiglia ha bisogno di braccia. Così un’estate Gino, quattordicenne, ed il fratello Alessio di dieci anni, si ritrovano a dover arare da soli tutto il podere, perché il padre ed il nonno sono ricoverati, contemporaneamente, all’ospedale. (Ivi, p.15).  Si cresce alla svelta ad Isola del Piano, come da tante altre parti.

Le prime esperienze lavorative di Gino Girolomoni sono «figlie della necessità e della logica».

Fa il collaudatore di moto Benelli, il caporeparto in uno zuccherificio, l’addetto alle pubbliche relazioni in una scuola per corrispondenza, occasionalmente il fabbro, il boscaiolo, il costruttore di sci. (Ivi, pp. 27-28). Ha un fisico asciutto Gino, occhi penetranti, ride poco, e pensa: «Se il Signore mi ha dato cinque talenti, io gliene voglio restituire dieci, magari dodici». (Ivi, p. 21).

Poi la partecipazione ad una selezione per ferrovieri in Svizzera, dove si trova lo zio Giovanni, la vittoria, il posto sicuro e la sistemazione garantiti. Tutti si congratulano con lui… «Ma l’euforia per le nuove prospettive aperte dura meno di una settimana. Gino si rende conto che questa volta la decisione non la può affidare al tempo ed agli eventi. E decide. Decide quello che nessuno si aspetta, […] quello che in famiglia tutti faticheranno a capire […]». Una lettera di dimissioni e un biglietto di ritorno chiudono la possibilità, e riportano Gino ad Isola del Piano. (Ivi, pp. 28-29).

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Ha scelto di fare il contadino, come i suoi avi, mentre tutti gli altri contadini se ne vanno da Isola del Piano, consci che i vecchi contratti di mezzadria sanciscono la condanna irreversibile alla miseria attraverso la ripartizione dei prodotti, sempre a beneficio del padrone, e la mancanza di qualsiasi autonomia nel lavoro.

Ma poi la situazione si era modificata, negli anni cinquanta, con le innovazioni nei rapporti politici e sociali e la crescita industriale. «In poco tempo era avvenuto quello che non era successo per millenni: una presa di coscienza collettiva di quello stato di totale sudditanza […]». (Ivi, p. 45-46).

Il “progresso” dilaga nelle campagne con la scuola, la luce elettrica, le strade che avvicinano alle città, con i trattori che alleggeriscono la fatica dei campi.  Ed i contadini iniziano ad abbandonare la terra. Sanno che «non è profumato il pane di città» che è dura anche la vita scandita dai ritmi della fabbrica e della catena di montaggio ma non intendono tornare indietro. (Ivi, p. 46). «Le sirene del boom economico hanno un suono irresistibile […] non una voce che si alzi per chiedere se ha davvero senso quest’esodo, se è davvero migliore la vita nelle periferie tutte uguali delle città». (Ivi, p. 20).

E chi resta nelle campagne incomincia a ferire la terra con nitrato ammonico, per aumentarne la fertilità.

Anche il paese si sta trasformando: Isola del Piano si è “urbanizzata”. La parte abitata «viene via via deturpata da interventi di rinnovamento che, in nome di una presunta modernità, hanno causato la distruzione di un convento del Seicento e la realizzazione di edifici assolutamente anonimi. (Ivi, p. 31).

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Girolomoni vuol fare il contadino, pur non sapendo perché si senta così bene quando si occupa di vacche e letame. Ma comprende pure che senza una modifica culturale dei suoi paesani non potrà fare nulla. «Occorre ripartire da un’azione diffusa, che coinvolga altre persone, da un’operazione culturale che ridia dignità di esistenza al mondo rurale, e da un impegno politico che offra strumenti di sostegno e di sviluppo anche per queste realtà marginali» – pensa. (Ivi, p. 31). Così incomincia a trattare i problemi del paese con gli amici, con la gente. Lo fa nella stalla, lo fa mentre il padre fa il barbiere, lo fa nei capannelli di persone che si formano dopo la messa. Vi è chi inizia a notare questa sua attività e, al tempo delle elezioni amministrative, i primi a chiedere la sua candidatura sono i democristiani. Ma Girolomoni la rifiuta, perché quelle persone e quel partito, diviso da lotte intestine, sono la causa dello sfascio del centro storico. Accetta, invece, la proposta dei partiti della sinistra, «poveri di uomini di mezzi e di voti», ed ai cui componenti il prete neppure benedice la casa. (Ivi, p. 32).  Si presenta come indipendente e fa incetta di voti.

Nel 1970 è sindaco, esperienza che lo arricchirà dal punto di vista amministrativo e burocratico, e gli permetterà di far «entrare la campagna negli uffici del comune». (Ivi, p. 33).

E il 13 aprile 1971 sposa Tullia, che lo accompagnerà nella realizzazione dei suoi sogni: riedificare il monastero di Montebello, come luogo di vita e centro di spiritualità e cultura, e ritornare alle radici con l’agricoltura biologica.

Nel 1973, per riavvicinare i suoi concittadini alla terra, chiede loro di cercare oggetti di lavoro e di porli in un fondo del comune. Serviranno per una “mostra della civiltà contadina”, se così si può dire. Asce, falci, martelli, botti per il vino, aratri di legno, gioghi, telai e macine in pietra si uniscono a raccontare la loro storia e la storia degli abitanti ed artigiani di Isola del Piano. Tremila sono i visitatori della mostra, in quell’estate. (Ivi, p. 49). Di agricoltura e pastorizia si può ancora vivere, dice Girolomoni, e vuole dimostrare che quanto pensa è realizzabile.

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«Volavano i falchi, sopra il Monastero di Montebello quando ci arrivai la prima volta» – scrive Gino Girolomoni. È ridotto ad un rudere, non vi abita più nessuno, vi è solo il vento tra quelle rovine, conosciute solo da coppiette e cacciatori. Ma Girolomoni ha deciso di farne il suo nido e di ricostruirne mura e storia, dedicandosi all’agricoltura, all’allevamento, riprendendo le antiche attività artigianali. (Ivi, pp. 17-18). Così inizia a realizzare questo suo sogno prendendo in comodato gratuito una parte di Montebello. Quindi acquista tre capre, un cavallo ed un cane, e sale ogni giorno al monte per vedere di loro.

Poi l’idea di portare al Monastero i giovani di Isola del Piano. Così, ancora sindaco, organizza una specie di campeggio estivo a Montebello, ove incomincia a parlare con loro dei loro sogni delle loro aspirazioni …

Al rientro in paese i giovani iniziano ad incontrarsi ed a scambiarsi idee presso l’Associazione culturale “La Crina”, fulcro dei nuovi fermenti innovativi. Due seguiranno Girolomoni nella creazione della Cooperativa “Alce Nero”.

Ma Gino Girlomoni sa che assieme al braccio ci vuole la mente, e così, nel 1974, invita una serie di intellettuali a dargli spunti ed idee per rivitalizzare la campagna, seguendo l’antica tradizione, e narrando la sua esperienza ed i suoi sogni. Molti rispondono al suo appello, recandosi pure ad Isola del Piano, che così diventa luogo di incontro e di fermento culturale, come sarà poi il Monastero. Fra questi gli scrittori Fabio Tombari e Paolo Volponi, Giambattista Vicari e Calo Bo. Morta la moglie, Sergio Quinzio, teologo e biblista, che Gino aveva conosciuto per caso, si trasferirà ad abitare nel piccolo borgo marchigiano, aiutando Girolomoni in vario modo. Infine Gino organizza una rappresentazione in più scene della vita contadina, cacciata dalla città e dal progresso, che si riappropria della sua valenza, che ha enorme successo. (Ivi, pp. 54-59). Sono vari i modi che Gino utilizza per far conoscere il suo pensiero e per diffonderlo, ed al tempo stesso per coagulare interesse ed idee intorno a sé. Vi è un sentimento profetico in lui, profondamente cattolico, che lo sostiene nel percorrere la sua via, che lo stimola ad andare verso un progetto finale che ha per lui un forte valore spirituale.

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Gino, finito il secondo mandato di Sindaco, visita l’azienda di Ivo Totti, che segue il metodo biodinamico di Rudolf Steiner, e da lui compra il bestiame, poi si affretta ad acquistare terra, e, sistemata una stanza nel Monastero, vi si trasferisce con la famiglia, non senza critiche da parte dei suoceri.

All’inizio quella che Gino chiama casa, è composta da una stanza, l’acqua si attinge dal pozzo, d’inverno la temperatura scende sotto i 10°. Non si trovano inoltre molti muratori disposti inizialmente a lavorare al Monastero, per riedificarlo, su un progetto dell’architetto Giorgio Roberti.

Quando Giorgio Roberti sale a visitare le rovine dell’edificio, né ha un’impressione “in bianco e nero” che così descrive: «[…] era una giornata autunnale, con il Monastero sferzato da un forte e fresco Garbino…, nubi grigie, foglie nell’aria. L’edificio, per la gran parte rudere, aveva un che di spettrale, dentro quell’immensa rovina non c’era angolo che non fosse battuto dal vento che ti inseguiva fin quasi dentro la grande stanza in quel che doveva essere il refettorio, trasformato in monolocale dalla famiglia». (Giorgio Roberti, Il Monastero di Montebello, in: Mediterraneo, cit., p. 57).

I lavori di ricostruzione del Monastero, pagati con soldi privati, di cui se ben ricordo una delle quote maggiori viene da Sergio Quinzio, ma non è il solo a contribuire, si protraggono per 35 anni. È un «cuci e scuci degli spazi», con scelte anche funzionali, è un ritornare con mura e pavimenti all’austerità del luogo, è ridare spessore alla corte interna, ove ora si colloca il Museo della Civiltà Contadina, che Giorgio Roberti, a distanza di anni, apprezza in modo particolare. (Ivi, p. 58). La riedificazione di “Montebello” termina con la copertura della chiesa con la volta, che la Soprintendenza vuole a botte, e con il suo arredo: una pietra come altare, le pareti dell’abside coperte da immagini del deserto di Har Kartom, che forse parlano del “patriarca Girolomoni” più di tante parole.

Quello che si coglie giungendovi non è solo però il Monastero, ma il suo esser inserito in un contesto paesaggistico che ne fa un unicum di indescrivibile bellezza.

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Parallelamente al riedificarsi dei muri, dei pavimenti, dei soffitti, inizia l’avventura della cooperativa “Alce Nero”, il cui motto diventa «Tradizione è rivoluzione», e che coinvolge più soci ed ha il Monastero come riferimento. Si inizia a lavorare la terra in modo biologico, secondo gli antichi insegnamenti, mettendo al bando fertilizzanti chimici e diserbanti. Si ruotano le colture, si concima con le deiezioni degli animali, si coltivano, come un tempo, grano avena ed orzo.

Il latte viene trasformato in formaggio, e venduto pure nel negozietto che Tullia, la moglie di Gino, gestisce con la cognata ad Urbino. Poi il salto verso la produzione di pasta biologica integrale, con frumento macinato a pietra. Ma la legge italiana non la prevede e così, un giorno del 1979, i carabinieri dei Nas suonano alle porte del Monastero. La cooperativa uscirà assolta dalla causa per frode alimentare, ma il suo cammino si mostra irto di ostacoli.

Nel 1981 “Alce Nero” decide di accettare la proposta di Gino Girolomoni di creare un moderno pastificio. È un’avventura che impegna finanziariamente la cooperativa per 2 miliardi di lire. Ma ci sono in particolare i mercati esteri da coprire, ove la pasta “Alce Nero” è molto apprezzata. Il 10 dicembre 1989 «dubbi e speranze sono confusi tra la folla che […] sale a vistare il nuovo stabilimento, costruito sul colle a fianco di Montebello». (Massimo Orlandi, La terra è la mia preghiera, op. cit., p. 89).

Poi il passaggio, per vari motivi, dal marchio “Alce Nero”, a quello “Montebello” ed infine “Girolomoni”.

Ma, nella visione alternativa del mondo che Gino ha in mente, trovano posto anche le fonti energetiche “pulite” come l’eolico, la cui pala viene montata nel 1987, la scuola, la farmacia, come ai tempi degli antichi frati, e per 10 anni il Monastero ospiterà un laboratorio di piante officinali. Vuole creare una scuola alternativa, guardando a don Milani ed agli insegnamenti che ha appreso da Ivan Illich, per i suoi bimbi e per quelli di Isola del Piano, ma l’iter burocratico è talmente intricato che infine desiste. Ma il Monastero diventa scuola per altri. Si iniziano a tenere incontri, vi giungono nomi di prestigio, l’edificio si trasforma in luogo di amicizia, condivisione, partecipazione, riflessione per molti, ove ogni “pellegrino” viene accolto.

E mentre i possedimenti della cooperativa “Alce Nero” aumentano, Gino pensa anche allo spirito perché egli è profondamente cristiano. Ma è pure il Presidente della cooperativa, e così Sergio Quinzio nota che, spesso, l’amico appare «visibilmente stanco, preoccupato, teso», e costretto ad un «attivismo feroce» che non gli permette, spesso, di parlare con le persone o pregare insieme. (Ivi, pp. 116-117).  Inoltre il crollo, nel 1995, di una cooperativa finanziaria, la Coofin di Fano, in  cui molti di Isola del Piano, su suggerimento di Gino Girolomoni avevano creduto, creando un fondo comune, lo trascina in una brutta avventura. Decide di pagare con il prestito per la cooperativa “Alce Nero” i perduti risparmi della gente del comune, e mitiga l’ira verso di lui che sta sostituendo l’invida nel cuore dei compaesani. «Il tracollo -spiegherà poi Girolomoni – è avvenuto perché Coofin aveva un presidente arrogante, un consiglio che glielo ha lasciato fare e un direttore con alcuni dipendenti che hanno tirato a campare un po’troppo». (Ivi, p. 145).

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I problemi però non sono finiti ed uno trascina l’altro. La cooperativa è costretta a cedere il marchio “Alce Nero”, e si struttura in nuova società cooperativa “Montebello”, ma il marchio fatica ad imporsi. (Ivi, p. 143-151).

Dopo “mille” peripezie, Gino Girolomoni finalmente può concedersi qualche viaggio e qualche esperimento: viene a conoscenza del grano trovato in un’antica tomba egizia: rende meno di quello del ventesimo secolo, ma egli lo converte nel grano Graziella Ra; attraversa, con una spedizione archeologica, il deserto del Negev, e sale al monte di Har Karkom (Sinai), ove Mosè ricevette le tavole della legge; si reca in Marocco. La Bibbia guida i suoi passi: «Noi siamo figli di Abramo, figli di Isacco e figli di Giacobbe» afferma Gino, con voce grave, ad Har Karkom (Giorgio Fornoni, Har Karkom, in Mediterraneo, cit., p. 46).

Poi l’inferno della malattia della moglie, che si spegne consumata da un tumore, e la solitudine della vedovanza, rotta dall’affetto dei figli, l’ultimo anelito verso Dio con la sistemazione della chiesa, prima di raggiungere il cielo, nel 2012. Gino Girolomoni muore di infarto nello stabilimento che tanto aveva sognato.

Ora restano i figli: Samuele che cura Montebello, la terra, la stalla, Maria che si dedica al cibo ed alla locanda, Giovanni Battista che cura con gli altri il pastificio, sulle orme dei genitori.

E ritorniamo al Monastero di Montebello. Scrive Gino Girolomoni che, come un tempo si fuggiva dal mondo non per abbandonarlo ma per ricreare, in nuovi luoghi dello spirito, una nuova possibilità di vita cristiana, così è stato per lui, ragazzo, quando sentì i pianti della campagna, pieni di ferite, con i casolari caduti a pezzi, la chiesa abbandonata con gli arredi sacri. Egli aggiunge che ha pensato la sua vita come un andare verso Gerusalemme, verso Dio e verso ed i suoi sentieri: un andare verso Montebello, un progetto di vita e spiritualità al tempo stesso.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo è stata da me scattata e rappresenta l’interno del Museo della Civiltà Contadina presso il Monastero di Montebello. Laura Matelda Puppini

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