Ho ascoltato l’interessante convegno, dedicato a Placido Rizzotto, tenutosi in questi giorni a Paluzza, e mi è sembrato più che pertinente l’accenno alla sua storia come radicata nello ieri e proiettata nell’oggi, anche se questo aspetto non è poi stato vagliato dal punto di vista storico, sufficientemente nel corso del convegno. Cercherò pertanto di farlo io, in tre diversi articoli, per non farne uno solo troppo lungo.

Correva il primo dopoguerra e fame, disoccupazione e miseria segnavano profondamente il Sud.

Le occupazioni di terre incolte da parte di contadini, ebbero origine, al Sud, nel diciannovesimo secolo cioè nel 1800, ed ebbero fra i fattori di spinta sia la disoccupazione dilagante e con essa la miseria e la fame, sia l’esigenza che venisse prodotto frumento a sufficienza perché potessero venir fatti pane e pasta per tutti. (1).

Una situazione tragica si ripresentò alla fine della prima guerra mondiale, quando il motto “La terra ai contadini”, coniato da Antonio Salandra, presidente del consiglio dal 21 marzo 1914 al 18 giugno 1916, quando fu costretto a dimettersi, e con collegio elettorale a Lucera, per coinvolgere nella guerra «con maggior vigore la classe contadina, che forniva gran parte degli effettivi al fronte» (2), divenne appannaggio dei soldati reduci da quella disastrosa guerra, che ne chiedevano la realizzazione. Loro avevano combattuto con quel sogno nel cuore, ora spettava allo stato fare la sua parte.

Laura Matelda Puppini.  Lapide con l’elenco dei soldati locali caduti nella prima guerra mondiale a Vieste.

Così la frase di Salandra “La terra ai contadini”, si trasformò in una parola d’ordine «in un contesto di profondo disagio sociale ed economico, […], e fu recepita dai contadini non solo come la possibilità di poter realizzare un’antica aspirazione, ma anche di trovare una concreta e subitanea risoluzione ai gravi problemi della vita quotidiana, raccogliendo legna per affrontare i rigori dell’inverno, frutti e verdure per supportare un regime alimentare insufficiente». (3). 

Intanto le Camere del Lavoro andavano riorganizzandosi, mentre vecchi e nuovi sindacalisti socialisti riprendevano la loro azione contro il latifondo e per migliori condizioni di vita in terre che erano prive dei più elementari servizi. Rinascevano le Leghe rosse, si affacciavano alla storia le Leghe bianche, espressione del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, e si venivano formando cooperative che reclamavano pane e lavoro. In più parti della penisola, manifestazioni di piazza si susseguivano a manifestazioni di piazza, ove donne con i loro bimbi e uomini marciavano uniti contro il caro vita e l’aumento dei prezzi, per non morire.

Ma come in ogni storia di manifestazioni, i protagonisti non erano solo i manifestanti ma anche i carabinieri e le forze dell’ordine, che spesso sparavano, ed i proprietari terrieri, che talvolta sparavano anche loro, che non intendevano dare ai contadini un millimetro della “loro” terra, anche se in precedenza la stessa era stata demaniale ed era stata arbitrariamente introitata. (4).

Infatti nelle zone pugliesi dell’alto Tavoliere e del Gargano, vi erano questioni demaniali risalenti al diciannovesimo secolo, che vedevano su fronti opposti le masse contadine e le grandi famiglie latifondiste le quali «avevano costruito buona parte delle loro immense proprietà anche usurpando demani pubblici e comunali». (5).

E mentre in questi ultimi anni, in ricordo della prima guerra mondiale e periodo seguente, ci hanno riempito di pubblicazioni su percorsi ed eroismi, su Trieste italiana dimenticando molto opportunamente Trento e l’Alto Adige, tenacemente contrarie ad esser italianizzate, e quindi oggetto di “particolari attenzioni” da parte del primo fascismo, ed ora ci propongono persino D’ Annunzio, ci siamo dimenticati del grande contributo di sangue dato dal Sud Italia in soldati nella prima guerra mondiale, e della miseria che dilagò poi.

Ma se prima del 2 settembre 1919, le invasioni ed occupazioni di terre potevano ritenersi abusive, e si configuravano come vere e proprie «invasioni spontanee» (6), dopo tale data non fu proprio del tutto così, perché quel giorno fu approvato dal Parlamento il decreto Visocchi. Con lo stesso si «riconosceva ai contadini, purché organizzati in cooperative, di gestire per quattro anni, oppure a tempo non limitato, i fondi di terre incolte su cui si erano insediati». (7).

E dopo quel decreto, i contadini, che ben poco si fidavano dello Stato, uniti in cooperative, benché mancassero loro i mezzi finanziari, gli animali, i macchinari gli attrezzi, e fossero stati avvertiti delle insidie del decreto, decisero di occupare le terre incolte, che così avrebbero poi potuto legalmente lavorare. (8).

A queste occupazioni seguirono le domande delle cooperative agricole di gestire i fondi occupati in base al decreto Visocchi, ma ben poche furono le domande accettate dalla Commissione preposta, almeno nella Capitanata, e coinvolsero solo poche migliaia di ettari. «Le illusioni e le speranze delle masse dei contadini nullatenenti che si impegnarono nel movimento di occupazione andarono quindi deluse» e l’applicazione del decreto Visocchi non modificò, di fatto, l’assetto proprietario e nel foggiano incise sulla realtà sociale in modo minore che nelle altre province italiane. (9).

Contadini occupano terre incolte negli anni ’50. (http://anpi.it/media/uploads/patria/2010/5/LE_FOTOSTORIE_33.pdf).

E tutto ciò avveniva mentre l’agricoltura era in ginocchio a causa di tre anni di guerra per Trento e Trieste. Infatti quasi centomila ettari di terra solo nella Capitanata, erano stati abbandonati a causa della chiamata alle armi dei contadini, e il ritornarli a rendere produttivi comportava spese non di poco conto. Ed a questo problema si aggiunse, in Italia, quello della forte spinta inflattiva, che spesso rendeva vane le lotte dei braccianti, perché gli aumenti salariali, se ottenuti, venivano risucchiati dal caroviveri. (10). Ciò implicò che venissero invasi da poveracci anche tenute padronali per poter tagliare rami con cui scaldarsi o uliveti per raccogliere le olive a terra, secondo una antica consuetudine, ma anche che venisse praticata la pesca nel lago di Lesina, fortemente avversata dalla famiglia Zaccagnino, proprietaria della tenuta che circondava gran parte del lago. (11).

Ed in provincia di Foggia l’intensità delle lotte contadine fu tale che si giunse a punti alti di violenza ed anche ad interventi durissimi e non sempre giustificati delle forze dell’ordine. (12). Ma, talvolta, spararono anche i contadini. E credo che ciò sia accaduto un po’ dovunque, perché la situazione sociale era tragica.

Non si può negare, però, che le conquiste fatte dalle leghe per le povere masse bracciantili siano state consistenti. Ed in alcuni casi il padronato pagò anche lavori fatti senza richiesta sui terreni incolti. Inoltre si domandava allora, nel foggiano, a gran voce l’utilizzo di manodopera locale rispetto a quella forestiera pronta ad immigrare dalle province vicine, in particolare da quella di Bari. (13).  

Ma le manifestazioni, gli scioperi, ed il progressivo rafforzamento delle organizzazioni proletarie e delle leghe contadine sia bianche che rosse, ed i tentativi di innalzare nei municipi la bandiera rossa, assieme all’occupazione di fabbriche e terre, suscitarono timori ed ansie nel padronato, aprendo la porta ai picchiatori ed assassini delle squadracce fasciste ed al fascismo. (14).
Ed il solo e mero timore di invasioni di terre spinse i proprietari terrieri a fare pressione sulle autorità ipotizzando […] la minaccia di imminenti occupazioni ed invocando provvedimenti per il mantenimento dell’ordine pubblico» (15).
Infine nel 1920 nascevano anche nel foggiano, ma credo anche nel resto del Sud, i Fasci di Combattimento, che trovarono l’appoggio immediato degli agrari e di molti borghesi, spaventati dall’avanzata socialista. (16).

Ed anche al Sud, come in Padania ed in Romagna, i Fasci di Combattimento utilizzarono massicciamente la violenza contro le leghe sia bianche che rosse, come del resto fecero, sotto la guida di Italo Balbo, in Romagna. Ed iniziarono, pure, a dar fuoco alle sedi delle Camere del Lavoro ed a far cadere, in un modo o nell’ altro, le giunte socialiste. (17). E i fascisti utilizzarono come loro bandiera quella italiana, ritenendola loro appannaggio, dicendo che era contro quella rossa e socialista. Questo sarebbe secondario se non portasse a fare alcune riflessioni anche sul secondo dopoguerra. (18). Non da ultimo, vi furono casi di picchiatori denunciati ed assolti dai giudici, come accadde dopo una rissa fra socialisti e fascisti a Lucera, dove i socialisti furono tutti condannati, mentre gli esponenti del Fascio furono tutti assolti. (19).

Ed in Capitanata, secondo Barbaro, l’azione dei Fasci di Combattimento ebbe successo anche grazie all’atteggiamento delle forze dell’ordine, «che di fatto non contrastarono con un’adeguata azione investigativa, l’offensiva condotta dai Fasci in Capitanata, giungendo invece ad affiancarla, come nel caso di Cerignola, con l’arresto in massa dei dirigenti socialisti». (20).

Così, fra pestaggi, roghi di sedi delle Camere del lavoro, intimidazioni e la distruzione delle giunte socialiste, oltre che occupazioni di città come accadde a Ferrara da parte delle squadracce dei Fasci di Combattimento, si giunse, accondiscendente il Re, al regime fascista, alle guerre di conquista, alla seconda guerra mondiale e quindi al movimento partigiano che aiutò a risollevare le sorti d’Italia ed a farla volgere verso la democrazia. Ma non bisogna dimenticare che nelle zone non occupate dai tedeschi non possiamo parlare di movimento di Liberazione partigiano come al Nord, perchè il regime fascista cadde proprio con l’entrata degli Alleati al Sud. (21).

E qui termina la prima puntata di questa storia di fame, miseria, tentativi di riscatto e di feroce repressione. E mi appresto a scrivere il secondo capitolo, che riguarda anche Placido Rizzotto.

Laura Matelda Puppini

  1. Francesco Barbaro, La Capitanata nel Primo Dopoguerra. Biennio rosso e nascita dei Fasci di Combattimento, Claudio Grenzi ed., 2008, p. 50 e p. 184. Il volume, ben documentato, si riferisce al territorio denominato ‘Capitanata’ cioè quello pugliese che comprende la provincia di Foggia. Tale denominazione deriva dall’antico termine “catapano” che indicava un funzionario amministrativo sotto Bisanzio.
  2. Francesco Barbaro, op. cit., p. 49.
  3. Ibid.
  4. Ivi, p. 37. Nel periodo fra la fine della prima guerra mondiale e la presa di potere del fascismo, più volte le forze dell’ordine, nel foggiano, perché quest’area è oggetto di analisi nel volume di Barbaro, spararono sui contadini. Uno dei casi più noti e ricordati fu la “strage di Lucera”. In detta città, soldati e carabinieri, affiancati da reparti di arditi, spararono all’ impazzata sulla folla colpendo almeno ottanta persone. A detta azione seguì l’occupazione militare della città. (Ivi, p. 44). E spararono sui contadini anche proprietari terrieri, come accadde, per esempio, nel 1920 a Gioia del Colle. (Ivi, p. 90).
  5. Ivi, pp. 52-53.
  6. Ivi, p. 50.
  7. Ibid.
  8. Ivi, p. 54.
  9. Ivi, p. 55.
  10. Ivi, pp. 76-77.
  11. Ivi, p. 86 e p. 88.
  12. Ivi, p. 99. Per scontri e uccisioni, anche di una madre con il proprio bambino, cfr. Ivi, pp. 50- 113.
  13. Ivi, p. 94.
  14. Ivi, p. 99 e p. 111.
  15. Ivi, p. 185.
  16. Ivi, p. 195.
  17. Ivi, p. 196-197. Nel 1922 anche la sede della Camera del Lavoro della Carnia fu data alle fiamme, ed andarono distrutti moltissimi documenti che ci avrebbero permesso di ricostruire in modo preciso una parte della nostra storia.
  18. Ivi, p. 196.
  19. Ivi 221.
  20. Ivi, pp. 222-223.
  21. Cfr. www.nonsolocarnia.info: Laura Matelda Puppini, Storia. Quel terribile ’42-’43, periodo di svolta in Italia.

 

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta l’incendio della Camera del Lavoro di Torino, avvenuta il 18 dicembre 1922, ed è tratta, solo per questo uso, da: https://slideplayer.it/slide/2450717/. Laura Matelda Puppini. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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