In occasione del dodicesimo anniversario della morte del compianto Giorgio Ferigo, non so perché vorrei scrivere qualcosa su di lui di più umano, di meno ingessato di quanto sinora proposto, di più vivo. Avevo cercato di parlare di Giorgio uomo, dei suoi sogni, della sua vita in Carnia, così difficile dopo che aveva sposato l’ideale comunista, dopo che dal nero della tonaca era passato al rosso della ribellione, risentendo dei fermenti sociali del sessantotto, in una delle riunioni dell’assemblea annuale dell’Associazione che porta il suo nome, forse nel 2012, senza esser ascoltata. Unico ad assecondarmi Marino Zanier, fratello del più famoso Leonardo, anche lui di Comegliàns, anche lui comunista, desideroso che fosse maggiormente valorizzato il vissuto carnico di Giorgio, di cui egli aveva impregnato le sue canzoni. Ma gli udinesi non ascoltarono, non sentirono … E vi fu chi mi disse che a lui interessava solo il poeta, il cantautore, l’uomo di cultura, non Giorgio come persona. Così ho cercato di scrivere qui un ricordo, un pensiero, anche sui temi da lui così stupendamente abbozzati nelle sue canzoni, ripiene dei termini friulani adatti a rimandare ad immagini e sensazioni. E questo era capace di fare lui, così schivo, talvolta quasi timido, lui così emotivo. Ed aveva una grandissima padronanza della lingua friulana nella parlata comeglianotta, e dei modi di dire locali, Giorgio. 

L’anagrafe ci tramette che Giorgio Ferigo, dal cognome vagamente paularino e la erre moscia, era nato a Comegliàns (Ud) il 9 agosto 1949, in un mese in cui molti, allora, venivano alla luce in Carnia, forse perché il freddo portava maggiormente a cercare, sotto le lenzuola, una qualche forma di calore nove mesi prima. Giorgio moriva di cancro all’ospedale di Tolmezzo il 5 novembre 2007, dopo che, qualche mese prima, aveva voluto sapere l’esito di un esame ad Udine che non gli dava più alcuna speranza.

Da bambino credo abbia giocato ed abbia fatto marachelle come tanti bimbi, tanto da dedicare, quasi ultima fra le sue opere, alle sberle, da lui ritenute anche educative del parentado un suo pezzo intitolato: “Elogio ragionato dei papins”, che è pure di piacevole lettura. Dopo le scuole elementari, la sua famiglia, come molte della Carnia, non avendo forse i soldi per farlo studiare, e come allora si usava, lo aveva inviato al seminario, che aveva lasciato dopo aver finito il liceo classico. Ma c’è chi mi ha raccontato che già in seminario andava controcorrente.  Volendo poi frequentare l’università ed avvicinarsi al mondo operaio, lavorò per un periodo come metalmeccanico, nella zona di Padova o Mestre.
Intraprese quindi, sempre a Padova, gli studi di medicina, e si laureò in medicina e chirurgia il 19 giugno 1976; nel 1980 conseguì la specializzazione in medicina del lavoro, e forse contemporaneamente, forse poi, quella in igiene pubblica e della prevenzione. (https://it.wikipedia.org/wiki/Giorgio_Ferigo). Per lui, però, la vita non sarebbe stata facile. Iscrittosi al P.C.I., le cui direttive di partito seguiva abbastanza pedissequamente, si trovò ad avere problemi sia con chi era al potere, in particolare con i democristiani, sia con l’estrema sinistra, che io mi ricordi.

Mi ricordo ancora le prime volte che vidi Giorgio: un paio di baffi scuri su una sciarpa rossa, che attendeva la corriera per Comegliàns, o che partecipava ad una manifestazione … Si parlava già di Giorgio il comunista, mentre non molti sapevano del suo passato da seminarista; si parlava già di Giorgio il cantautore, che avrebbe acceso gli animi con i suoi testi che raccontavano la Carnia meglio di qualsiasi altro, con accostamenti e giochi di parole studiati con una sapienza infinita. E nel 1977 era nato il gruppo musicale Povolar Ensemble, che portava nel suo nome il felice accostamento di quello di una frazione di Comegliàns con un termine francese che indica l’unione, e che fu una cosa sola con Giorgio, che ne era membro.

E Giorgio ha espresso tutto il suo sentire nelle sue canzoni, che parlano di vissuti, di tragedie, ed al tempo stesso di routine, come l’emigrazione carnica, così ben espressa nella sua “E la cjasa cidina…” o la ripetitività senza significati della vita nei piccoli paesi, rappresentata con pennellate sapienti nella sua “Sabida di sera …”. Ma egli non si è fatto sfuggire nemmeno una critica feroce ai suoi compaesani ed a Comegliàns che lo emarginava per il suo colore politico, che così diventa: «Comegliàns ‘picjul borc, pais bastart e sporc […]», (Comeglians, piccolo paese bastardo e sporco…) con le sue «bigotte dal riso ‘ruffiano’, che con l’acqua santa si ungono la mano ogni giorno, e che sono ‘madracs’, serpi, che sputano e spelano ogni cristiano, ma intanto pregano piano piano per la sua anima, con l’acredine nella voce»; con i suoi «‘sorestants’ superbi ed ignoranti,  solleciti della rinascita del paese e del loro portafoglio, che a un povero cavano sangue ed occhi, e poi si chiamano benefattori»; con i suoi giovani, «cul cur a forma di balon», che come ideale della vita hanno una macchina di seconda mano, e che si vendono anima e corpo per un piatto di briciole», con i suoi bancari o postini,  che, con il corpo atletico, combattono la loro unica battaglia contro il bottiglione del vino. (Povolar Ensemble ‘Ve Comegliàns’ testo di Giorgio Ferigo, in: https://www.youtube.com/watch?v=saIm6USLD7c).

E ha fotografato pure quel sabato sera in cui tanti pendolari rientravano al paese. «Ariva la coriera che da siet ca disciama i pendolars» «Arriva la corriera, quella delle sette di sera, che scarica i pendolari», quasi li vomita fuori da sé. Ed intorno a quell’arrivo «l’animazione accende vite e piazza» per un attimo, per poi spegnersi dentro un bar». E «Nel freddo di una giornata che si accorcia sempre più, già si accendono le luci; con la sigaretta in bocca qualcuno va verso i suoi amori felici o sbagliati; qualcuno è già ubriaco, qualcuno presto lo sarà, e cerca nell’alcool coraggio, desideri o la conferma a risposte che sa già».  «Questo – canta Giorgio – è un sabato di sera, uno qualunque al mio paese… dove quando arriva l’autunno è difficile restare qui e restare vivi, mentre studenti ed emigranti se ne sono già andati». E con l’autunno «incomincia il tempo della pazienza: finita la vita inizia la sopravvivenza per i pochi che sono rimasti». E quindi, passando alla prima persona e riconoscendosi fra quei sopravvissuti ma anche emblema degli stessi, aggiunge: «Così mi avvio, canticchiando, verso un tavolino d’osteria, sperando che si crei anche oggi una precaria compagnia; ed aspettando qualcuno che mi vada a genio, ritorno a leggere il ‘Gazzettino’, ed ordino o l’ultimo dei caffè o il primo di un’altra serie di ‘tajuts’ di vin. (…)». E bighellonando per il comune incontro Stefano, con già qualche bicchiere di troppo in corpo, e «parliamo di comunismo, di ‘rogne’ che dobbiamo risolvere da soli, di rivoluzioni che non abbiamo mai fatto, di Joyce, di ragazze, e di BMW 112».
«Qui per vivere d’inverno ci vuole un coraggio disperato […]. E ti vien voglia di scappare, di andare a cercare chissà cosa, ma sai di non avere scampo perché la vita da altre parti non è diversa da questa». E termina con: «È un paese intero a cullarsi nella sua rassegnazione, a credere nelle certezze e nelle sicurezze del proprio ‘spolert’ e del proprio ‘portone’. E se tu ragazza che vieni da fuori, leggi che qui uno si è sparato, non credere che lo abbia fatto per chissà quale motivo: è la vita quotidiana che lo ha ucciso».  (Povolar Ensemble, ‘Sabida di sera’, testo di Giorgio Ferigo, in: https://www.youtube.com/watch?v=1EgajvC5Kx0).

Ma nel rapporto con l’alcool vi è pure quella ricerca di affetto magistralmente riassunta da Giorgio nel suo: “Ma tu butiglia teta …”, che meriterebbe una analisi approfondita.
Però, al di là di alcune differenze date dal momento storico, cosa è cambiato oggi, da allora? Ben poco, forse nulla, solo che i paesi vanno via via spopolandosi ed è aumentato il pendolarismo giornaliero verso Udine, mentre interi nuclei familiari sono scesi verso la pianura, perdendo così legame con il territorio di origine e la cultura locale.

E Giorgio Ferigo ci descrive pure, con maestria, la partenza dell’emigrante, di suo padre che è uno dei tanti, per la Svizzera, a lavorare, a faticare.

«Quando parte mio padre, per la Svizzera «a fadiâ», tutti aspettiamo, silenziosi, che arrivi l’ora dell’addio. E la casa è silenziosa, non un singhiozzo neppure soffocato, ma, ad ogni boccone, il pane diventa più amaro, l’angoscia diventa più disperata. Mia madre lo guarda e tace, per non mettersi a piangere, per non crollare in un lungo pianto dopo aver riso di cuore, […], ed il bambino che hanno fatto insieme ma nè atteso né goduto insieme, è solo pieno di cioccolata in cambio di un padre perduto.

E arriva l’ora della corriera, e mio padre prende la valigia, quella valigia piena di rabbia e di paura più che di attrezzi ed abiti. Poi un bacio in fetta e furia, con il desiderio di sbattere quella valigia sul muro… e mio padre se ne va quasi fuggendo, senza più voltarsi indietro.
E gli occhi si cercano, gli occhi si incontrano dietro il finestrino, e gli occhi si incontrano e gli occhi si nascondono dietro il finestrino … E così anche questa notte riposeranno ognuno in un letto diverso, mia madre in un letto diventato troppo grande, e mio padre in uno scompartimento!». (Povolar Ensemble, E la cjasa cjdina … testo di Giorgio Ferigo, in: https://www.youtube.com/watch?v=A2ZLGr1eHyI).

Ed ancora: le canzoni di Giorgio Ferigo hanno frequenti riferimenti al sesso, riferimenti pieni dell’emotività che la materia comporta se trattata dalla gente comune e da Giorgio loro cantore… Giorgio scrive di una Carnia che non era nelle fotografie d’epoca, scrive emozioni forti viste o vissute, scrive il celato dietro la facciata del perbenismo, da comunista, da diverso da quei “ruffiani e bigotti” che riempiono il paese. L’impiccato, il figlio dell’altro, il bambino pieno di cioccolata, il letto freddo della donna il cui uomo è partito, il prete con ‘la bricje a pindulon’ quando entra il marito di Adelina, «una paruscule in tal cil», sua amante; la donna che non ama il marito “ca la doprave”, il ‘soldatino’ che si arruola pur non avendone l’età, senza sapere cosa gli accadrà, e tanti altri popolano il mondo delle sue canzoni. Giorgio scrive la Carnia, e Giorgio è della Carnia.

Ed anche lui un giorno comparve, all’albergo Roma, con una bella donna, forse la sua donna al fianco, alta, mora, dai lunghi capelli ed un abito chiaro, per poi ricomparire, tempo dopo, forse anni dopo, solo, davanti ad un bicchiere, confidandomi non solo la sua solitudine ma pure il suo desiderio, irrealizzato, di avere un bambino. «Sai se avessi potuto avere un figlio …. ». E forse per questo si sentì vicino ai bimbi degli altri, dedicando loro piccoli racconti tramutati in canzoni.

Era umano Giorgio, il comunista, mai con l’abito a giacca, era colto Giorgio, il comeglianotto dall’erre paularina, era affettuoso Giorgio, che credeva nel ‘Sol dell’avvenire’. Ed un giorno che dissi che ormai non vi era più speranza in un futuro migliore, nel “Sol dell’avvenire”, mi riprese e mi disse che non potevo abbandonare un sogno e la speranza in un futuro più giusto per tutti.

Domiciliatosi ad Udine, a due passi da piazzale Cella, in un appartamento in alto e arredato con gusto, Giorgio amava ricevervi chi voleva parlare con lui. Spesso la stanza di soggiorno si riempiva di musica e di fumo, e l’incontro poteva essere interrotto dallo squillo del telefono fisso, che annunciava una telefonata per motivi di servizio, che poteva pure importunarlo.
Avesse fumato di meno od avesse smesso in tempo, penso ora fra me e me, con rimpianto. Eppure quella pessima circolazione agli arti inferiori, presente qualche anno prima, avrebbe dovuto far riflettere Giorgio, che aveva conseguito la specializzazione in igiene e medicina preventiva, con orientamento in sanità pubblica. … Ma chissà …

Il lavoro era quello scelto ma pare abbia incontrato anche in ambito lavorativo mille problemi: se come medico di igiene firmava una osservazione: apriti cielo, e quando fu mandato, se ben ricordo, a controllare come trattavano le mele e la frutta ed altri prodotti agricoli in Friuli, fu anche malvisto perché faceva con rigore il suo lavoro e non tutti lo amarono.
E credo, anche se non ho prove nel merito, che la sua vita lavorativa in sanità sia stata per lui, talvolta, un tormento perché era allora pensiero comune, in ambito ospedaliero come nelle aziende sanitarie, che i rossi comunisti dovessero venir emarginati il più possibile, almeno in Friuli, e non si dovesse permettere loro di fare carriera alcuna. E così sotto il governo dei potentati democristiani vi fu forse chi ascese, anche per meriti politici, alle stelle, e chi restò, per demeriti politici, si fa per dire, nelle stalle. E se erro correggetemi, e mi scuso subito con chi potesse sentirsi offeso.
Credo comunque che in quel suo “Il certificato come sevizia. L’igiene pubblica tra irrazionalità e irrilevanza (Udine, 2001)”, abbia voluto rendere noto tutto ciò che egli patì nel e per lo svolgimento del suo lavoro che riteneva talvolta inutile, frutto di burocrazia fine a se stessa.

Infine Giorgio Ferigo, dopo aver vinto il concorso per ufficiale sanitario presso l’ass3 allora usl, si trasferì a Comeglians, anche se il suo legame con Udine non si ruppe mai ed egli ebbe così l’occasione di partecipare e organizzare, in Carnia, diverse proposte culturali.

Nel frattempo, però, decise di abbandonare posizioni politiche più radicali, volgendo maggiormente verso il dialogo e sposando, forse, quanto fatto proprio anche dal Pci uscito nel 1991 dalla svolta della Bolognina e trasformatosi nel P. Ds, accettando di cogliere alcune occasioni come quella di affiancarsi a Lucio Zanier, professore di educazione fisica, presso la Fondazione Museo Carnico, o di iscriversi e diventare attivo nella Filologica Friulana. E quando criticai tali scelte mi disse che bisognava coprire gli spazi culturali in Carnia, per diffondere una cultura nuova e scientifica.

A livello lavorativo, si trovò inizialmente bene nel suo ufficio in via Carnia Libera, ma poi, di colpo, fu catapultato in un appartamento di proprietà dell’Ass3, perché quegli spazi in via Carnia Libera pareva servissero ad altri, magari nell’ambito di una delle solite riorganizzazioni aziendali. Quella soluzione logistica, difficile da conoscere ad invalidi e altri che vi dovevano aver accesso, non fu vissuta da Giorgio Ferigo di buon occhio, anche perché in quell’appartamento ci stava stretto, aveva solo una scrivania e nessuno spazio per ricevere con un po’ di privacy l’utenza, e lavorare divenne per lui nuovamente difficile. Nel frattempo, però, aveva ottenuto un piccolo incarico come docente all’università di Udine, incarico che lo appassionava. E si prodigò ad affrontare il tema della rottura del femore nell’anziano, e amava pure illustrare le sue lezioni con immagini da quadri d’autore.

Sempre pronto ad aiutare, se necessario, mi sostituì all’ultimo momento in un incontro sulla cooperazione nell’agosto 2006 anche se mi disse poi che aveva potuto parlare solo di ciò che sapeva bene. Infatti egli non inventava mai. E fu anche grazie al suo aiuto, essendo egli entrato a far parte del gruppo Gli Ultimi dopo esser stato presidente di Cjargne Culture, che potei pubblicare l’archivio fotografico Vittorio Molinari. Ed avrebbe desiderato approfondire con me alcune tematiche relative alla storia della massoneria ed a certa borghesia illuminata ed illuminista, ma non ne ebbe il tempo. Quando la madre ebbe problemi di salute notevoli, la assistette con dedizione, fino alla propria malattia, e lo volle fare personalmente, benché lo avessi invitato a riposarsi un po’. Una delle ultime volte che lo vidi per le vie di Tolmezzo, stava guidando la sua mini rossa, se non erro, non certo nuovissima, ma non era sua cura cambiarla. L’automobile per lui era un mezzo con cui muoversi non uno ‘status simbol’.

Poi il vomito, la nausea, i capogiri. Inizialmente pensò di essere troppo stanco poi seppe la verità. E, prima di appisolarsi in attesa della fine, pieno di morfina, al suo secondo ricovero, mi disse che avrebbe preferito morire a casa sua. Quello che mi stupì, invece, fu la quasi incapacità di chi lo conosceva bene ad accettare che fosse malato terminale, che la morte lo avrebbe portato via quando non aveva ancora compiuto i sessant’ anni.

Giorgio Ferigo, oltre alle sue opere ci lascia l’esempio di un modus operandi rigoroso e scientifico, nel lavoro come nella ricerca e proposta in ambito culturale, ci lascia la sua passione politica il suo rigore morale. E quando vide una rappresentazione teatrale dei ragazzi del Solari che richiamava un suo testo, fu contento ma mi disse che potevano fare molto di più, che i giovani carnici ora giocavano troppo al ribasso.

E Giorgio non era uomo di pastette e non era corruttibile. Egli, consigliere di minoranza al comune di Comeglians, mi ha insegnato pure come scelte fatte solo dalla giunta potessero passare senza discussione alcuna in detto comune, come credo in altri, applicando il principio dell’urgenza ed indifferibilità a decisioni che potevano non possederle, tanto che riteneva la sua posizione inutile. Ma con questo non voglio certo offendere il comune di Comeglians, ma solo riassumere quanto Giorgio mi aveva detto. E auspico vostri commenti e se ho posto imprecisioni vostre correzioni.

Riposa in pace Giorgio, sperando che in questa Carnia addormentata altri incomincino concretamente, al di là dell’Associazione che porta il tuo nome e che già molto ha fatto, a ricordare e ricordarti, ed a tenere in seria considerazione sia la tua parlata friulana comeglianotta, sia il contenuto delle tue canzoni che ancora rappresentano bene questa Carnia nuovamente “cidina”.

Nel ricordo di Giorgio, affettuosamente chiamato ‘Ghiorghios’ da mia figlia Annalisa, per quanto l’ho conosciuto e vissuto, senza offesa per alcuno, queste righe ho scritto. Riprendiamo a camminare con lui, per non morire. 

Laura Matelda Puppini

 

Non ho trovato immagine alcuna di Giorgio con la sciarpa rossa e così ho posto una immagine con la scritta” Vedi alla voce comunist”, (reclame di uno scritto) da me elaborata in rosso e tratta da: https://www.unilibro.it/libro/ferigo-giorgio/scritti-vedi-voce-cumunist-elogio-ragionato-papins/9788875416621, perché il fatto di essere comunista segnò indelebilmente la vita dI Giorgio Ferigo. Per non dimenticare, per non ingessare in stereotipie, ho scritto questo mio. Laura Matelda Puppini.

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