Sabato 3 giugno scorso sono stata ad ascoltare un interessante incontro al borgo di La Glesie /Leopoldskirchen (dicitura presente all’entrata del paese) conosciuto ora anche solo come San Leopoldo, frazione del comune di Pontebba, condotto da studiosi del luogo, che ha sollecitato in me una serie di domande e ricerche per possibili risposte. 

Preciso comunque che don Mario Gariup ha scritto un intero volume su questo paesetto, intitolato: San Leopoldo: (Villa Ecclesiae: Leopoldskirchen : Dipalja ves), edito dalla Società Cooperativa editrice Dom nel 1992, che ha ben 274 pagine e che si può prendere in prestito presso più biblioteche della provincia di Udine. Lo farò anch’io appena potrò, perché sto per partire. Ma il sacerdote ha scritto molti volumi sulla Val Canale.

Il villaggio viene descritto come un tipico villaggio carinziano composto da 70 case, (Giovanni Daniele Piemonte, su: Il Friuli, 5 ottobre 1969), e luogo ove, in epoca medievale, vi era stato un ospizio ed un posto di ristoro per viandanti, aspetto sottolineato ieri dai relatori. Ma il lazzareto e l’ospizio vengono posti da altra fonte a Pontebba, ove esisteva la Confraternita di “S. Maria de Pontevia”. Ed ivi officiavano, nella chiesa madre, esistente dai tempi antichi e dedicata a S. Maria, i benedettini di Moggio, in quanto era sotto la loro giurisdizione e lo rimase fino alla metà del 1400. (Giovanni Marinelli, (a cura di Michele Gortani), Guida della Carnia e del Canal del Ferro, Tolmezzo, stabilimento tipografico Carnia, 1924-25, p. 297- 298).  

L’aspetto allora “germanico” della chiesa si può notare in alcune immagini in vendita su ebay, e risalenti forse a prima della prima guerra mondiale e comunque antecedenti alla distruzione parziale dell’edificio per cause belliche, ove si vede, sulla parete volta alla strada, un grande crocefisso ed accanto un’edicola incastonata nel muro con soggetto non identificabile, coperti da spioventi differenziati a protezione dalle intemperie. Inoltre l’edificio di culto è circondato, come si usava anche in Italia e si usa ancora in Austria, dal cimitero.

Il paese si chiamava prima Villa ecclesiae (Giovanni Marinelli, op. cit., p. 310), e così si chiamava pure, inizialmente, Iglesias in Sardegna. Poi qualcuno modificò, in una trascrizione errata, od in una friulanizzazione magari dal parlato, questa dicitura in “La Glesie”. (Ivi).

Il fatto che accanto a questa denominazione del paese permanga anche attualmente quella tedesca, posteriore però alla canonizzazione di San Leopoldo, secondo me, fa venire alla mente il dominio sul villaggio della città di Bamberga, che una lapide (ma non è unica fonte) dice essersi protratto nel tempo, oltre che alla multietnicità della popolazione, composta da sloveni, tedeschi, italiani. Per la precisione agli inizi del Novecento, abitavano a La Glesie /Leopoldskirchen 343 persone di cui 189 di nazionalità tedesca, 118 slovena, 36 italiana. (Ivi, pp. 310- 311). La borgata, ora come allora, appariva raccolta intorno alla chiesa, definita antica, e si dilatava, credo come ora, con il suo territorio, di circa 20 chilometri, a Nord sulle pendici dolomitiche dello Scinòuz, ed a Sud verso il Monte Piccolo, lo Schenone, la Fella. (Ivi, p. 311). Si noti come allora alcune località avessero, nel loro nome, una “o” al posto di una “a”. Così il monte qui si chiamava “Scinòuz”, invece che “Scinàuz”, come ora. La stessa cosa dicasi per esempio per malga Promosio, in comune di Paluzza, poi diventata Pramosio. Inoltre, secondo la parlata friulana, i nomi propri dei fiumi erano o femminili o maschili, e quello che noi ora chiamiamo “il Fella” era allora “la Fella”, il But era “la But”, mentre il Tagliamento era ed è maschile. Forse ciò deriva da un’ancestrale divinizzazione, in senso maschile o femminile, dei principali corsi d’acqua, forse era solo forma in uso chissà da dove proveniente. Lo Schenone, da quanto si legge, viene chiamato Lipnik dai tedeschi, Jôf del Zuc di Biéliga nelle antiche carte. (Ivi, p. 291).

A La Glesie /Leopoldskirchen, è ancora presente l’istituto della vicinìa, con compiti, pure, di mutuo soccorso, ben descritto, nel corso dell’incontro, da Fausto Buzzi del Consorzio Vicinale, come del resto in tanti altri villaggi e paesi della montagna. Infatti i diritti degli abitanti su legna, pietra, terra e pascoli, dovevano venire, qui come là, tutelati e regolamentati. Dopo il 1848, la proprietà stessa dei beni vincolati dall’uso passò direttamente ai valligiani, modificando il precedente assetto fondiario. I sessanta fuochi, (allora si diceva in questo modo, intendendo i focolari, e cioè le famiglie del luogo), poterono così diventare padroni di boschi, 2 malghe e la latteria, a cui si aggiunse il casello ferroviario, dopo la dismissione dall’uso. Ma ora da 60 i nuclei familiari si sono ridotti a 48. Inoltre, con il trattato sugli “optanti”, stipulato tra Mussolini e Hitler nel 1939, in particolare per risolvere il contenzioso creatosi in Südtiroler ma relativo alla popolazione abitante in Italia di madre lingua tedesca, pure a La Glesie /Leopoldskirchen, come in val Canale, famiglie germanofone lasciarono l’Italia per andare nel Terzo Reich.

E si viveva allora, di agricoltura e zootecnia. Ma il Marinelli attesta la presenza a La Glesie /Leopoldskirchen, ai primi del secolo scorso, di due segherie, due “molini a palmenti” ed una latteria turnaria. (Ivi, p. 311). Per quanto riguarda la ferrovia, Marinelli ricorda che ivi si fermavano solo i treni omnibus, cioè diremmo oggi, i treni locali. (Ivi, p. 310).

La chiesa, dedicata a Santa Geltrude di Nivelles, era, verosimilmente, una delle cosiddette “chiese nel bosco” (dott. Anita Pinagli) che ritengo però essere meramente dato geografico, sorto quando non esistevano ancora mappe e carte dei luoghi, e che potrebbe indicare una maggiore estensione della foresta di Tarvisio. Ed è noto, pure, che Leopoldo, margravio d’Austria e suo Santo Patrono, fece costruire chiese e monasteri «che si svilupparono in luoghi impervi come le foreste». (https://it.wikipedia.org/wiki/Leopoldo_III_di_Babenberg).

 

 

San Leopoldo, che si vede rappresentato negli affreschi del coro entrando a destra, sul fondo, ha nella mano, come anche nell’iconografia classica, un edificio, che potrebbe essere la chiesetta stessa. Infatti se è vero che detto santo è spesso rappresentato con un monastero od una chiesa in mano, a simboleggiare l’altro numero di chiese e monasteri da lui fatte erigere, nel contesto di una politica di espansione territoriale, (Patrizia Fontan Roca, San Leopoldo III il Pio Margravio d’Austria, in: http://www.santiebeati.it/dettaglio/77750), è altrettanto vero che, in genere, ogni chiesa antica ha l’immagine del fondatore con l’edificio in mano. Pertanto anche se il dipinto potrebbe essere recentissimo, il suo autore, Antonio Morocutti, potrebbe aver ripreso parzialmente precedenti affreschi. Qui comunque il Santo indossa una parte di armatura, ha l’aureola, e non corrisponde totalmente alle sue rappresentazioni classiche.

Sulla stessa parete, dal lato opposto, si trova l’immagine di San Floreano. La volta a raggiera con costoloni, ricorda l’impianto architettonico delle chiesette tre- cinquecentesche friulane- austriache e slovene «che riempiono il paesaggio del Friuli, sparse nella pianura, situate lungo i corsi d’acqua, nascoste tra il verde delle colline, poste a dominare le ampie vallate della zona montuosa».  (Giuseppe Bergamini, Chiesette votive, in: Touring Club Italiano, Guida di Udine e Provincia, 2007-2009, p. 22). Ma essa manca del caratteristico pergolato e del campanile a vela, riportando ad altro influsso e datazione l’origine del manufatto, e ricorda, appunto, più una chiesa austriaca di impianto antecedente, che una chiesa di campagna. Certamente però le vicissitudini della Val Canale coinvolsero, come spiegato, il paesino oggetto di questo mio articolo, portando a modifiche pure nell’assetto della chiesa, che potrebbe aver avuto gli interni rifatti magari più volte.     

Una lapide, nel muro di cinta verso la strada, scritta in tedesco da Martin Kovač nel 1909, ricorda che la chiesa di Santa Geltrude venne distrutta, assieme a 36 case, dal fuoco nel 1759, e che divenne parrocchia indipendente nel 1770, ritornando, poi, nuovamente succursale ma della parrocchiale di Pontebba Nuova, mentre prima lo era di quella di Ugovizza (Giovanni Marinelli, op. citi., p. 311), legata a Gurk. Martin Kovač rammenta pure numerose morti per colera nel 1836, una grande alluvione nel 1903, il rogo del campanile nel 1905. Era facile che, essendo presenti anche strutture lignee, con qualche candela o per fiamme in altra parte originantesi, un edificio di culto, allora, andasse a fuoco.  

La fondazione della chiesa risale ai primi dell’anno mille. (1106 -1139  in https://de.wikipedia.org/wiki/San_Leopoldo_Laglesie). Il culto recente del Sacro Cuore, rappresentato, con le immagini di Cristo e della Vergine con davanti il cuore visibile ed una fiammella, da Antonio Morocutti sulla volta dell’abside, porta a questa particolare devozione, che si diffuse a tappeto, nel 1700- 1800,  in terre di montagna ove si temeva sempre il propagarsi del pensiero protestante, nel contesto delle scelte controriformistiche e seguendo un gusto “romantico”.

La devozione al Sacro cuore si sviluppò nel corso del 1600, prima ad opera di Giovanni Eudes, (1601-1680), poi per le rivelazioni private di Margherita Maria Alacoque, diffuse da Claude La Colombière (1641-1682) e dai suoi confratelli della Compagnia di Gesù. Il culto del Sacro Cuore dette anche origine, nel 1700, a diatribe non di poco conto, chiuse da Pio VI con la sua Auctorem fidei. Dopo la diffusione delle visioni di suor Margherita Maria, mistica francese, il mese di giugno venne dedicato al Sacro cuore di Gesù e prese piede la pratica dei primi nove venerdì del mese. Pare inoltre che la festa del Sacro Cuore sia stata istituita in Francia nel 1672, per poi diffondersi in particolare nell’arco alpino.

All’ interno di questo culto, nel territorio del Tirolo storico, quindi anche in Trentino-Alto Adige, è da lungo tempo radicata la tradizione di accendere dei falò, i cosiddetti “Herz-Jesu-Feuer”, sulle principali cime montuose della regione, durante la notte della domenica della festa in onore del Sacro Cuore. (https://it.wikipedia.org/wiki/Sacro_Cuore_di_Gesù).

A questa recente tradizione si potrebbero riportare i fuochi del mese di giugno in Friuli Venezia Giulia, in particolare nell’arco alpino, che nulla hanno a che fare con i fuochi epifanici ed al Dio Beleno. (Cfr. Laura Matelda Puppini. Antiche tradizioni friulane per l’anno nuovo, come narrate in: Il Cjavedâl, nel 1952, e da me commentate, in: www.nonsolocarnia.info). Ma forse poi, essendosi perso il contesto e significato originale di detti fuochi nel tempo, andò a finire che gli uni si confusero con gli altri.

Per quanto riguarda ancora la chiesa di La Glesie /Leopoldskirchen, la sua fondazione è attribuita ad Ottone, vescovo di Bamberga, e proclamato santo nel 1189, gran cristianizzatore, che aveva distrutto, secondo la leggenda, in Pomerania, (territorio storicamente definito a nord di Polonia e Germania), la mitologia slava, sostituendola con il cristianesimo, da lui portato e diffuso. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ottone_di_Bamberga). Può darsi che in La Glesie /Leopoldskirchen si adorassero inizialmente detti dei slavi, e poi fosse subentrato agli stessi il cristianesimo, ad opera di Ottone o, più verosimilmente, dei missionari da lui inviati.  

Così narra la leggenda della chiesa: Ottone di ritorno da un viaggio passò di lì e per ordine di Leopoldo istituì la chiesetta. Un’altra leggenda locale narra che un gruppo di ladroni, o briganti che vivevano nelle grotte fuori del paese (dove si diceva, in narrazioni di altri posti, vivessero i pagani allontanati dai villaggi divenuti cristiani, e che erano ovviamente cattivissimi, anche se i ladroni che si appostavano per rubare ed uccidere furono nei secoli una realtà), tolse la bisaccia con i denari ad un pellegrino che veniva da Roma, (che sarebbe interessante sapere chi fosse, se magari Ottone), e poi gli chiese se avesse ancora del denaro ed egli disse di no. Così fu lasciato andare ma egli, quando ebbe percorso un tratto di strada, si accorse che aveva ancora qualche moneta sotto le vesti e ritornò indietro per darla ai briganti. Questi furono colpiti dal gesto e decisero di cambiare vita. Furono perdonati a condizione che ritornassero il mal tolto e che erigessero una chiesa, che fu dedicata a San Leopoldo perché Leopoldo era il nome del loro capo.

Da che ho compreso, comunque, dette storie popolari sono state narrate, in tedesco, negli anni ’80 da anziane del luogo, e questo è solo un mio tentativo di capire come esse fossero nate, ricordando che un tempo non esisteva la storia come la intendiamo noi ora, ma storie didattiche e tramandate. Non esisteva infatti il nostro modo di configurare il pensiero, il nostro linguaggio, la nostra razionalità, e la gente povera aveva bisogno di affreschi che narrassero e di storie eclatanti che portassero a perseguire il bene.

Anche secondo il Marinelli, come sentito ieri, sul paese di La Glesie /Leopoldskirchen ebbero, ad un certo punto, giurisdizione i signori di Gemona ed Ospedaletto, il che sfaterebbe la continua presenza solo di Bamberg. (Giovanni Marinelli, op. cit., p. 311).

Ricordavo nel mio: “Strade e vie del Friuli. Un paesaggio che cambia dall’XI° al XIII° secolo” in: In Carnia, marzo 2014, che nel 1007 Enrico secondo, il Santo, Imperatore del Sacro Romano Impero, fondò il Vescovado di Bamberg/Bamberga, allargando la giurisdizione dello stesso sui territori che si estendevano da Villach fino alla Valle del Fella, a Pontebba, all’Alta valle del Lavanthal. Ed esso divenne, nel 1245, un vero e proprio principato vescovile, mentre si andava consolidando pure quello di Salisburgo. E continuavo dicendo che per tutto il Medioevo i due Vescovadi attuarono una razionale politica territoriale, dotando i loro possedimenti di chiuse, ponti, mercati, che miglioravano i tragitti e favorivano i mercati, ma introducevano anche dei pedaggi da pagare alle “chiuse”. Un sito dice che uno di questi era proprio La Glesie /Leopoldkirchen. (https://de.wikipedia.org/wiki/San_Leopoldo_Laglesie), posto all’inizio della Val Canale, cioè della parte alta del corso del Fella. Ma, alla fine del 1700, pare che il limite confinario si trovasse al rio Pontafel, dividendo Pontebba Veneta da quella imperiale.

Relativamente al guado romano, ben descritto dal dott. Helmut Tributsch, posto nel luogo ove l’attraversamento del fiume era più basso e favorevole, ricordo come le vie romane, rettilinee, fossero formate da lastre larghe e poco coese, mentre quelle medievali, più sinuose per permettere di raggiungere monasteri, castelli e borghi anche collinari, si presentassero più coese, essendo formate da ciottoli levigati a calce, ed atte al lento passo dei buoi che portavano il carico delle merci. (Laura Matelda Puppini, Strade e vie del Friuli, op. cit.).

La giornata culturale è terminata con la visita a luoghi della nuova e recente storia: quella della guerra fredda, fra una funivia che saliva erta e ripida alla cima del monte, dove vi era una stazione radar alimentata elettricamente, (da “Base Orso a Base Cedrone, con sistema di moto invertito, cioè manovrata a monte) ed una base nascosta, ove si dice fosse posta una testata atomica, pronta a distruggere anche gli ignari abitanti della val Canale, in caso di attacco da Est. Il tutto fu costruito dopo l’atterraggio, avvenuto il 14 agosto 1969, di un Mig sovietico, guidato da un ufficiale ungherese disertore, sulla vecchia pista dismessa di Osoppo costruita dalla Todt nel corso della seconda guerra mondiale. Ma anche Romano Marchetti diceva che testate nucleari, da che narrava suo fratello Baldo, erano presenti in Veneto ai tempi della guerra fredda, e molto si mormora su Aviano.   

Ricordo ancora l’interessante visita alla segheria “dm diemme legno” in località Dobje, ove si narra sorgesse un castello tedesco, a cui si riferisce una leggenda che non vorrei fosse una alterazione e volgarizzazione locale, come pare, della storia di Santa Elisabetta d’Ungheria, o un refuso di più racconti popolari. Inoltre, nella narrazione di leggende, potevano venir apportate variazioni personali, che piano piano modificavano nomi, luoghi ed avvenimenti, caricandoli di pathos e diventando magari, soggetto per rappresentazioni sceniche popolari. Comunque ieri così veniva raccontata, con modifica però nei nomi dei personaggi e nel finale. Era padrone del castello di Dobje  Sigfrido o Teobaldo, (nome di un santo asceta, vissuto nel primo secolo dell’anno mille e molto venerato) che aveva una figlia di nome Elisabetta. Nel castello ci si divertiva, ed avvenivano feste e banchetti, ma Elisabetta era buona, brava e virtuosa, oltre che bella, ed era promessa sposa a Filiberto o giovane con altro nome, od era con lui maritata ed andavano molto d’accordo. Ma poi lo sposo, o a lei promesso, e suo fratello partirono per le Crociate o furono inviati da non ben identificati Signori, che stavano sopra di loro, a combattere i briganti, che non erano distanti, insomma a compiere un’azione che dovevano portare a termine, pena il loro onore. Ma sul finire di detta azione, o al ritorno dalle Crociate al sud Italia, il cognato o futuro cognato di Elisabetta aveva colpito per errore a morte il fratello. Qui le storie si dividono nel finale. Una dice che giunse da Elisabetta un messaggero che le portò la notizia della morte del marito nelle Crociate, una che fu il futuro cognato che, ritornato a casa, dette la notizia ad Elisabetta, ed aggiunse che non l’avrebbe sposata finché non avesse espiato, par di capire partecipando alle crociate, la sua colpa. Ma non ritornerà più. Così Elisabetta si dispera, e va, sconsolata, verso le rocce, non distanti dal castello e a nord di La Glesie /Leopoldskirchen, ove o viene colpita da un fulmine o da un masso, o si getta, in preda al dolore, in un burrone e muore. Qui pare che il finale sia quello della giovane disperata per la morte dell’amato che si suicida, senza che si possa dire apertamente che lo fa. 

La storia di Santa Elisabetta di Ungheria narra che ella era promessa sposa al primogenito di Ermanno I di Turingia, per suggellare una alleanza fra le due casate, ma essendo questi morto, ella divenne moglie di suo fratello, Ludovico detto “il Santo”, da cui ebbe tre figli. Il matrimonio fu molto felice ed armonioso, ed Elisabetta si distinse subito per le sue opere di carità. Ma poi Ludovico partì per le Crociate, e, quando si trovava ad Otranto, pronto ad imbarcarsi per la Terra Santa, con suo cugino Federico II, si ammalò e morì, lasciando nello sconforto Elisabetta, che subì poi varie angherie, e terminò la sua vita come terziaria francescana, dedicandosi ai malati che si trovavano nell’ospedale di Marburgo, da lei fatto erigere. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Elisabetta_d%27Ungheria). La similitudine fra le due storie è palese.

Inoltre non ho trovato traccia, seppur nella mia velocissima ricerca, di castelli nei pressi di La Glesie/Leopoldskirchen, anche se vi poteva essere, in ipotesi, in località Dobje una torre di vedetta a controllo della strada e del fiume. (Cfr. per esempio, l’antico sistema di controllo del Danubio in Alta Austria, da me visto).        

Secondo il Marinelli, le propaggini del monte Schelone si chiamano “La Veneziana” e, raggiunta, da Pontebba, la località dove vi è il cippo del vecchio confine, che testimonia la riconfinazione del 1757, si raggiuge il “Filon dei Slavi” (dialetto veneto) oltre il quale vi è una sella che scende a La Glesie /Leopoldskirchen. (Giovanni Marinelli, op. cit., pp. 299-300). Parrebbe, quindi, che ivi si trovasse, ad un certo punto, un possedimento veneziano, ricordando che Venezia conquistò il Friuli nel 1420 e sicuramente ebbe giurisdizione su Pontebba, la cui storia potrebbe essere scissa da quella di La Glesie /Leopoldskirchen, in quanto quest’ultima avrebbe potuto, in epoca veneziana, essere collegata ad Ugovizza, come la sua chiesa.  

E termino qui dicendo che questo scritto non ha assolutamente la pretesa di essere storico, ma rappresenta solo due mie impressioni su quanto ascoltato ieri. Ringrazio davvero Fausto Buzzi del Consorzio Vicinale, Raimondo Domenig, la dott. Mirta Faleschini della SFA, il dott. Luciano Lister dell’Associazione don Mario Cernet, la dott. Anita Panigali dell’Associazione Landscapes, il dott. Helmut Tributsch, già docente universitario a Berlino, ed il signore che ha presentato il deposito militare di San Leopoldo e la teleferica, e li invito a commentare questo mio od a precisare ove quanto da loro narrato fosse impreciso per presenza di appunti solo scritti e mancando registrazione.

Vi invito infine ad andare a visitare La Glesie /Leopoldskirchen, ed a seguire le attività dell’Associazione Landscapes e della Società Friulana di Archeologia. 

Le immagini che corredano l’articolo sono mie e rappresentano gli affreschi interni, presumibilmente dipinti con intento didattico, della chiesa attualmente dedicata a Santa Geltrude, inizialmente a San Floreano, e quindi a San Leopoldo, fra l’uno e l’altra, e la lapide posta sulla cinta muraria, e sono state da me scattate sabato 3 giugno 2017.

Laura Matelda Puppini

Se volete riprodurre anche parti di questo articolo lo potete fare, basta che citiate l’autore e il sito di pubblicazione. Laura Matelda Puppini

        

 

 

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