Vi sono storie emblematiche, come quella di Ermano di Luincis, che fanno riflettere su molti aspetti, per esempio sul valore vitale dell’acqua, sull’amore di un padre per un figlio, sul tentativo di nobili periferici di uscire dalla sfera di influenza del patriarca, pagandone poi da soli le conseguenze, ma anche sui limiti per alcuni aspetti di vicende tramandate e di località incerte. Sia Niccolò Grassi, nel suo: Notizie storiche della provincia della Carnia,  prima ediz., Fratelli Gallici alla Fontana, Udine, 1782, pp. 131-143, sia M. di Valvasone nel suo articolo. Il castello di Luincis, rubrica: Scene storiche friulane, in: L’alchimista friulano, domenica 19 gennaio 1851 – anno secondo numero 3, pp. 18-20, danno la stessa versione dei fatti. Ma chi era Ermano da Luincis, della cui casata, secondo il Grassi, si ha notizia dal 1261 (Niccolò Grassi, op. cit., p. 131)?

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Bartolomeo Cecchetti, nel suo: La Carnia. Studi storico-economici, Venezia 1873, Tip. Grimaldo e C., pp. 112-113, pone alcune notizie, che risalgono al XIV° secolo, su appartenenti alla casata in questione, e che riguardano anche la storia di Ermano di Luincis.  Il Cecchetti cita, sotto la data 1300, alcuni feudatari di Luincis reinvestiti. Trattasi di Biagio fu Odolrico, Ottomano fu Enrico, Enrico fu Mattia.  Nel 1327 Ermano fu Mattia, di Luincis, testimonia alla sentenza circa i pascoli di Rivalta e Selvamala.  Nel 1344 Enrico di Luincis assiste l’abate di Moggio nell’ emissione di una sentenza. Nel 1351 Nicolò Patriarca, colle genti del conte di Gorizia e i Castellani del Friuli atterra il castello di Porpeto, poi mano a mano, quelli di Tarcento, Mels, Castellerio, Villalta, Luincis, Socchieve e quasi tutti gli altri della Carnia.  Il 3 dicembre 1351 il patriarca cattura e chiude in carcere Armano (anche Ermano n.d.r) di Carnia (Luincis) con un figlio e fratello. Lo fa poi decapitare il 17 seguente. Nel 1355 i comuni di Udine e Cividale presentano istanza al Patriarca in favore di Mattiussio, figlio di Ermano di Carnia. Il 21 novembre “detto Mattiussio” viene posto in libertà a Gemona. Quindi pare che i rapporti tra la casata ed il Patriarca siano ritornati buoni se alla casata dei Luincis viene confermato il diritto di gismania. Nel 1390 il vicario patriarcale emana una sentenza su dei beni feudali per cui i Luincis ( ora scritti Luinzis) avevano fatto causa. E fin qui Bartolomeo Cecchetti. Non vi è dubbio che Ermanno fosse di Luincis e non di Luint, come pure da altre fonti. Vi sono dei problemi, però,  a definire il luogo ove sorgeva il castello dei Luincis. Cecchetti ipotizza che si trovasse ove sorgeva quello di Agrons,  che alcuni pongono ove ore è la chiesa di Santa Maria di Gorto,  ma vi è chi dice che sulla sommità a lato del prato di Praconcet vi fossero o sono dei resti di castello o castelliere. (Gianni Timeus, proprietario di Praconcet, 2010 e 2016). Il Grassi parla di un castello di Luincis «che sovrastava alla villa di Luint», (Niccolò Grassi, op.cit., p 131) il che non pare comprensibile se non per confusione fra Luint e Luvincis, di proprietà di Ermano di Luincis, ma pure del castello di Luincis che fu assediato dal Patriarca che costruì il ponte di San Martino, il che farebbe collocare il castello fra Luincis ed Ovasta, come tradizione orale vorrebbe. E che Ermanno di Carnia fosse di Luincis e non di Luint, nessuno ha dubbi, neppure Giacomo Valvasone di Maniaco, che nella sua Descrizione della Cargna, inviata al Cardinale Borromeo il 14 aprile 1565, scrive che Ermano di Luvincis ( altro modo di indicare Luincis n.d.r.) era padrone anche del castello di Nonta (e per questo, forse, Roberto di Socchieve era a lui legato). Ermano, secondo Valvasone di Maniaco, era stato, in Friuli, «uomo di grande autorità e capitano generale dell’esercito del Patriarca, ma dappoi per essere stato uno dei congiurati nella morte di Beltrame Patriarca (sic! Ma è Beltrando) fu punito nella testa in Udine da Niccolò suo successore». (Ermes Dorigo, Umanisti a Tolmezzo nel 1500, Andrea Moro ed., 2014, p. 26).

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Così ricorda la storia il Grassi. La riporto riassunta e trascritta da me in italiano ora corrente perchè possa essere da tutti compresa, e come da me pubblicata in: Laura Matelda Puppini, Ovasta di Ovaro – 9 maggio 2010 – Benedizione della chiesetta votiva in località Praconcet.

«Correva l’anno 1348, quando i Conti di Prata, Brugnera, Porcia, Vallo, Pertoldo, Porpeto,  Ermacora, Gian Francesco Turriani, ed altri ancora, fra cui Ermanno di Luincis, sostenuti dal conte di Gorizia, si ribellarono al patriarca Beltrando in quanto quest’ultimo era incline ad «arricchire di onori e roba gli Udinesi», fazione a loro contraria. E per questi motivi ed altri ancora, detti conti, capitanati da quello di Gorizia, ed il Patriarca vennero a scontrarsi. Ma alla fine si giunse ad una tregua, che però venne, inaspettatamente, violata.

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Mentre il Patriarca Beltrando si trovava a Padova, il conte di Gorizia ed i suoi accoliti si incontrarono a Cividale e decisero di uccidere il Patriarca, sorprendendolo lungo il viaggio di ritorno ad Udine. E quando Beltrando, accompagnato da cavalieri ed altri al seguito, raggiunse la pianura di Richinvelda, «quattro miglia lontana da Spilimbergo»,  egli fu aggredito dai nemici che lo uccisero pugnalandolo. E ciò accadde il 6 giugno 1350.

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Al suo posto fu eletto Patriarca di Aquileia Niccolò, figlio del Re di Boemia, che decise che tale efferrato delitto non potesse restare impunito. Per questo assoldò un grande esercito: espugnò e distrusse Porpetto e rase al suolo  gran parte di Caporiacco, ed avendo fatto prigionieri Gian Francesco di Porpetto, Enrico di Spilimbergo e Riccardo di Varmo, li fece decapitare.

Volendo poi continuare a distruggere tutti gli altri congiurati, si portò con il suo esercito in Carnia con il fine di combattere Ermanno di Luincis, «Cavaliere nobile e personaggio di grande animo e di grande autorità presso i Carni».

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Possedeva Ermano, per antico diritto, il castello di Luincis… Ed essendogli giunta notizia che il Patriarca Niccolò marciava contro di lui, si rinserrò nel castello, risoluto a resistere ad oltranza. Nel frattempo, mentre marciava verso Socchieve, il Patriarca, da cui la Carnia dipendeva, ordinò che tutti gli uomini «che valevoli fossero a portar armi» dovessero unirsi alle sue milizie ed in particolare i Castellani della Carnia, fra cui vi era Roberto di Socchieve. Questi temeva non poco per sé, per i suoi cari e per la sua gente se non avesse ubbidito all’ordine del Patriarca, ma d’altro canto era legato da un forte vincolo di amicizia ad Ermano di Luincis.

Pertanto egli da un lato si pose al servizio del Patriarca di Aquileia tardivamente e malvolentieri, e dall’altro tenne “segreti consigli” con gli altri Castellani della Carnia  per trovare il modo di negare, in concreto, l’aiuto richiesto dal Patriarca in nome della «comune  libertà», e venire in aiuto a Ermano.

E per far conoscere ad Ermano di Luincis i loro propositi e per «esortarlo a non perdersi di coraggio ed a conservare l’antico suo valore», i Castellani carnici inviarono a questi un messaggero che però fu intercettato dalle truppe del Patriarca e fatto prigioniero. Così i propositi dei Castellani carnici furono conosciuti dal nemico.

Roberto di Socchieve, però, nulla seppe dell’accaduto e pensò che la lettera spedita tramite il messaggero fosse giunta a destinazione ed «ansiosamente aspettava il tempo concertato che tutti giungessero al pattuito soccorso» al suo amico Ermano. Invece ciò non accadde mai ed il Patriarca si accinse a vincere gli assediati nel castello prendendoli per sete.

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Stava il castello di Luincis sopra un colle elevato ma non erto, colle ai cui piedi scorre il fiume Degano, che attraversa la piccola piana detta di San Martino, mentre  il resto del luogo era “rinchiuso” da rupi e monti. Il Patriarca si era accampato nella pianura e, affinché i suoi uomini potessero attraversare il fiume con vettovaglie e foraggi, ordinò che fosse costruito un ponte, detto appunto di San Martino.

Nel frattempo continuava l’assedio al castello, ma senza forzare le cose, in attesa di vedere se, il giorno convenuto, i Castellani della Carnia sarebbero giunti in aiuto di Ermano. E si continuava con le scaramucce, mentre il tempo passava. Avendo però il Patriarca appurato dai prigionieri che nel castello ormai si iniziava a soffrire per la mancanza di acqua, fece occupare da suoi soldati tutti i posti ove vi fossero sorgenti  al fine di costringere gli assediati a rifornirsi al fiume.

Quindi pose vari distaccamenti di soldati lungo la discesa dal castello verso il fiume, in modo che gli uomini di Ermano non potessero uscire di notte a prendere acqua. In questo modo ridusse gli assediati allo stremo ed all’ interno del castello iniziarono a morire di sete persone ed animali.

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Ermano poteva decidersi ad uscire dal castello e lottare prima di arrendersi ma invece scelse di continuare a sostenere l’assedio, anche se la situazione per lui diventava sempre più difficile. Ma egli sperava che gli altri castellani corressero prima o poi in suo aiuto. Non potendo però più attendere oltre per rifornirsi di acqua, decise di inviare i suoi migliori soldati, guidati da suo figlio Enrico, al fiume, seguendo il percorso più impervio,  sperando, così di eludere le sentinelle del Patriarca. In caso contrario i soldati avrebbero lottato sino all’ultimo per l’acqua.

Ma il gruppetto capitanato da Enrico di Luincis fu intercettato e venne circondato dai nemici che fecero prigionieri i suoi componenti. Il Patriarca, informato dell’accaduto, diede ordine che Enrico, figlio di Ermano, fosse “con diligenza” custodito, e, resosi conto delle difficoltà in cui ormai versavano gli assediati, ordinò di dare l’assalto finale al castello.

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Ermano, non vedendo ritornare suo figlio e coloro che aveva inviato a prendere l’acqua, «sospettò un sinistro evento», ma non si arrese e continuò a resistere.Il Patriarca, allora, comandò che fosse portato alla vista di Ermano il figlio Enrico, «in ceppi e catene avvinto» e minacciò di ucciderlo. A questo punto, visto ormai che la situazione era insostenibile, Ermano, anche per amore paterno, decise di consegnarsi al Patriarca, chiedendo, per sé e per il figlio, grazia e perdono.

Ma il Patriarca non dette ascolto alla sua supplica e, dopo un sommario processo, fece giustiziare sia Ermano che Enrico quali complici nell’assassino del suo predecessore Beltrando. Venne giustiziato pure Roberto di Socchieve, per aver tramato ai danni del Patriarca. Quest’ultimo fece radere al suolo il castello di Luincis e gli altri della Carnia per non lasciarsi nemici alle spalle e come avvertimento per chi avesse voluto opporsi al suo potere.

Così ebbe termine la storia di Ermano di Luincis, di Roberto di Socchieve, dei castellani e dei castelli carnici, dei quali, in certi luoghi, restano alcune tracce.

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Così ricorda, nel 1851, in forma più emotiva e romanzata, M. di Valvasone la stessa storia, intitolandola: “Il castello di Luincis”, e dividendola in due scene.

I

«Oscurissima era la notte: densi nuvoloni avviluppavano come d’ un drappo mortuario le cime nevose delle montagne, dalle cui gole scatenavasi impetuoso il vento, al cui sibilo acuto univasi l’allerta della sentinella del castello. La solida ed imponente massa di questo, innalzavasi tra lo tenebre sopra un colle eminente, quasi a dominarci la valle sottoposta; materiale espressione dei costumi di quel tempo, in cui il feudalismo sceglieva col nido la parte dell’aquila.

Nella sala d’armi del castello, benché la notte avesse già passata la metà del suo corso, passeggiavano pensosi due uomini armati di tutto punto, come aspettassero di momento in momento di slanciarsi nella mischia. L’uno giovine robusto sul fiore degli anni; l’altro bianco di capelli, ma non ancora curvato dall’età, da’cui sguardi scintillanti traspariva un’anima fiera ed indomita. Dopo d’aver più e più volte misurata in silenzio la spaziosa stanza, il più vecchio dei due riepilogando un discorso poco prima interrotto: Enrico, disse, quando li anni avranno incanutito i tuoi capelli come i miei, tu avrai imparato a conoscere di più gli uomini. Non illudiamoci. Il Patriarca Niccolò ha giurato di vendicare la morte di Beltrando, e di già le nobili teste di Gian Francesco di Porpeto, di Enrico di Spilimbergo, e di Ricciardo di Varmo sono cadute.

Or come vuoi che il superbo Boemo dimentichi me, Ermanno di Luincis, il fido compagno di quei prodi, il loro complice, se vuoi, nell’uccisione del Patriarca sulla pianura della Richinvelda?

Padre mio, rispose Enrico, la vendetta qualche volta si arresta quando è incerta e pericolosa. Il Conte di Gorizia, e le più potenti famiglie del Friuli del nostro partito, e con noi responsabili di quell’uccisione, deggiono dare assai da pensare al Patriarca, perché possa arrischiarsi fin nelle nostre montagne della Carnia.

Il Conte di Gorizia, replicò Ermanno, credilo a me, si umilierà dinanzi al Patriarca, e ne implorerà il perdono; in quanto gli altri, a tutti tolsero l’animo e l’ardire le fumanti rovine dei castelli di Porpeto e di Caporiaco.

Ebbene, allora, proruppe ferocemente il giovino, venga che noi l’attendiamo; e possìno le limpide acque del nostro Degano rosseggiare del suo sangue, e travolgere il suo cadavere nei loro gorghi.

Ermanno sorrise fieramente a queste parole: E sì, disse, s’avanzi pure che ci troverà apparecchiati a riceverlo. Tutti i Castellani della Carnia, minacciati come noi, mi promisero buone truppe per ischiacciarlo. Guai a lui se viene a trovare il leone nel suo covo, guai a lui se …

Qui fu interrotto dal suono di un corno, che rimbombò fuori del castello.

Era un messaggero che portava la notizia come l’esercito Patriarcale movesse, grosso e risoluto, nella Carnia alla volta di Luincis. Niccolò non avea dimenticato la sua implacabile vendetta. Il fratello di Carlo IV ed il selvaggio Castellano delle Alpi stavano per trovarsi di fronte.

Ermanno rimase imperterrito all’udire tal mossa, benché non la prevedesse sì pronta e sì vicina. Diede le ultime disposizioni per la difesa, spiccò messaggeri per tulle le parli onde far avvertiti li suoi fedeli alleati, e si chiuse nel castello, come la tigre che si rannicchia un’istante per slanciarsi più impetuosa a sbranare la preda.

Nel seguente mattino, quando il sole ebbe diradata la nebbia che copriva la vallata circostante, dall’alto della sua rocca egli poté vedere l’esercito Patriarcale che lo chiudeva minaccioso da tutti i lati. Da questo si spiccò un Araldo che, come di costume, venne in nome del suo signore ad intimargli la resa.

Le trombe del castello risposero al messaggero di pace, suonando la disfida e la battaglia.

II.

Il castello di Luincis, fabbricato a difesa dei barbari del settentrione sopra un colle eminente, bagnato alle radici dal torrente Degano, circondato da due parti da rupi e da monti, e difeso da un uomo la cui disperata bravura avea tante volte sfidato il pericolo, rendeva lunga, difficile e sanguinosa la prova al Patriarca. Di più non ignorava Niccolò come i Castellani della Carnia abborrissero il suo dominio, avendone una novella prova nella lentezza che, ad onta d’un suo positivo comando, mettevano quelli nell’unire alle sue le loro armi, come era lor debito di vassalli, nella presente guerra. Tuttavolta, come uomo d’alti concetti e d’una volontà di ferro, si dispose a tutto tentare onde riuscire nell’impresa, qualunque ne fosse il sacrifizio di sangue.

Strinse fortemente l’assedio; diede assalto sopra assalto al castello, ma l’ira sua e le sue armi spuntavansi contro la rocca, e l’indomabile coraggio del suo signore. Il leone delle Alpi bravava il figlio dei Re; il leone delle Alpi respingeva sempre sanguinoso il Sacerdote guerriero.

Tanto più tremendo avvampava di sdegno il Patriarca che vedendo non riuscirgli la forza, volle impiegare altri mezzi onde costringere l’intrepido Ermanno alla resa. Egli fece occupare tutte le fontane circonvicine, presidiò con le migliori sue truppe tutti i passi che dal colle conducevano al torrente sottoposto, e si dispose a battere il castello col più terribile dei flagelli, con quello della sete. Questa presto si fece sentire nella rocca, essendo essa mancante di cisterne, e costrinse i suoi difensori ad uscire a continui combattimenti onde procurarsi a viva forza l’acqua necessaria alla vita.

Ermanno tutto sopportava, anche la sete, sempre sperando l’aiuto promesso dai Castellani circonvicini. Ma era decretato che tanto coraggio fosso inutile e sfortunato.

Una notte, mentre spediva lo stesso suo figlio alla testa d’una piccola truppa de’ suoi più prodi guerrieri, onde tentare di far nel torrente la solita provvigione pel domani, questi fu avviluppato da tutte le parli dai soldati del Patriarca. A nulla valse contro il numero la più disperata difesa. Enrico fu gettato prigioniero ai piedi di Niccolò. Questi, tostochè ebbe nelle mani il prezioso ostaggio, intimò ad Ermanno la resa, minacciandolo di togliere al figlio la vita, tra i più atroci tormenti, ed avvertendolo nell’istesso tempo come non dovesse più sperare soccorso da nessuna parte, mentre egli aveva conosciute e sventate le macchinazioni dei Castellani suoi alleati, e già apparecchiavasì a punire i felloni.

La pietà del figlio strappò di mano al padre le armi. Così il castello di Luincis cadde in potere del Patriarca Niccolò. Questi lo distrusse dalle fondamenta insieme a tutti li altri castelli della Carnia, i di cui signori erano complici dell’uccisione di Beltrando, e pubblicò un editto che niuno in nessun tempo mai più ardisse rifabbricarli. Ermanno e suo figlio portarono la testa sul patibolo in Udine, lavando così il Patriarca il sangue col sangue.

Questo accadeva nel Friuli l’anno 1351».

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Se si legge Pio Paschini, Notizie storiche della Carnia da Venzone a Monte Croce e Camporosso, Libreria editrice Aquileia, seconda ed. rifatta, 1960, pp. 78-83, si nota come l’uccisione del Patriarca Beltrando il 6 giugno 1350 preceduta da quella dell’abate Gilberto di Moggio per mano dei Di Prampero il 4 marzo 1349, sia da collocarsi in una politica ampia condotta in particolare dal Patriarca Beltrando, che si era alleato con Alberto II di Asburgo e con Otto della stessa casata, onde far in modo che essi ritornassero in possesso dei feudi appartenuti alla chiesa di Aquileia e già dei duchi di Carinzia, in cambio di altri beni che spettavano al Patriarcato, che coinvolse pure le cittadine di Gemona e Venzone, e di una ricerca di maggior potere ed autonomia da parte dei signori locali, attraverso il tentativo di sganciarsi dal Patriarca e di allearsi con il Conte di Gorizia. 

Ben si sapeva anche allora il valore vitale dell’acqua. Sarebbe opportuno che la politica riflettesse su questo aspetto anche ora. Chi gestisce l’acqua ha il potere di vita o di morte, ed anche questo ci insegna la storia di Ermano di Luincis.

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

Laura Matelda PuppiniSTORIAVi sono storie emblematiche, come quella di Ermano di Luincis, che fanno riflettere su molti aspetti, per esempio sul valore vitale dell'acqua, sull'amore di un padre per un figlio, sul tentativo di nobili periferici di uscire dalla sfera di influenza del patriarca, pagandone poi da soli le conseguenze, ma...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI