Questa intervista è stata concessa a me, Laura Matelda Puppini dall’allora sindaco di Sauris Luca Petris nel settembre 1984 quando gli andai a domandare informazioni sul paese di mio nonno e molto caro anche a mia madre, dove talvolta passavo un mese da piccola. Ricordo, grazie alla signora dell’anagrafe del comune di Sauris, che Luca Petris era nato a Sauris il 28 dicembre 1913, ed è morto a Tolmezzo il 28 giugno 1999.

Il signor Luca Petris, all’inizio di questa conversazione, ci ha detto che informazioni su Sauris si possono trovare presso il Circolo Culturale, rivolgendosi al suo Presidente. In esso sono custoditi pure documenti originali. Però anche a Sauris ci sono molte cose che stanno perdendosi, perché non c’è spazio nel nuovo per mantenere tutto. Ed informazioni su Sauris si possono trarre anche da libri.

Dopo la pubblicazione, il 1° novembre 2022, mi è giunta una email da Lucia Protto del Circolo etnografico di Sauris/Zahre, con alcune piccole precisazioni, che apporto, ringraziandola.

BAMBINI A SAURIS. (ZHARE).

Nella bella stagione andavamo a caccia di farfalle ed insetti, ed eravamo abili costruttori.

«Lei mi ha chiesto di parlare di me, della mia vita.
Per quanto riguarda me, posso dirle questo: che io conosco abbastanza ma poco rispetto a tutto di Sauris perché sono andato via dal paese abbastanza presto, e la mia infanzia ed adolescenza l’ho passata fuori. Infatti io sono nato nel 1913 e mi sono fatto male, restando cieco, nel 1920 (1). E nel 1923 sono andato a vivere a Trieste, all’ Istituto per ciechi Rittmeyer. Ma prima ho vissuto qui, a Sauris.

E io ho cercato sempre di apprendere, e avendo vissuto per un periodo qui, posso raccontare anche per conoscenza diretta.

Eravamo bambini, allora, ma non avevamo giocattoli, come hanno i bimbi oggi. E ci costruivamo i giocattoli da soli. Ed a me è successo di farmi male proprio con un giocattolo costruito da me (2). Ma il giocattolo non era costruito male, sono io che l’ho usato male. Avevo preso una asse e l’avevo forata in parte, e avevo inserito nel buco un bastoncino, e mi divertivo a farlo girare intorno all’asse. Ma, ad un certo punto, dato che lo facevo girare troppo forte, il bastoncino si è rotto, e mi è saltato nell’ occhio, ed è andata così.

Mi ricordo poi che, da bambini, andavamo anche a caccia di farfalle ed insetti, di ‘cose piccole’ insomma, e poi ci piaceva grandemente fare i fischietti con la corteccia di un certo legno che cresce qui (3), stando attenti al diametro degli stessi. E nel mese di maggio, sotto la corteccia si forma l’umore, ed è facile sfilarla. Poi con questi tubicini di corteccia che uscivano, si facevano i fischietti. Essi venivano realizzati tagliando il tubo di corteccia e poi sopra si metteva un tappo, e veniva fuori una specie di trombetta, con cui ci si divertiva un mondo.

Ma ci si divertiva pure a fare tante altre cosette, e nel costruire si cercava di imitare, in piccolo, quello che facevano i grandi, oltre che costruire giocattoli. Per esempio si costruivano mangiatoie per le galline. Allora si dava da mangiare alle galline in una specie di ‘piroga’ ma di dimensioni ridottissime, e noi ci si divertiva a costruirle, come a fare annaffiatoi. Si prendeva un cilindro di legno, si bucava longitudinalmente, e poi da una parte si metteva una latta bucherellata, dall’altra si infilava dentro un pistone, e poi si immergeva l’oggetto nell’ acqua. (…). Ci si divertiva tantissimo a farci dispetti tra ragazzi, spruzzandoci.

1930. Scolaresca di Sauris di Sotto presso la canonica. (Archivio Pro-Loco, Sauris). Da: AA.VV., (a cura di Donatella Cozzi, Domenico Isabella e Elisabetta Navarra), “Sauris Zahre una comunità delle Alpi Carniche, 2 volumi, Forum ed., 1998, volume primo, p. 33. 

 Nei lunghi inverni utilizzavamo la neve per diverse costruzioni, e ci divertivamo.

Nei lunghissimi inverni, poi, per noi bambini la neve era il materiale privilegiato. Oltre che giocare a tirarci palle di neve, ci si divertiva a fare delle statuette con la neve, a scavare delle gallerie, a costruire casette, in cui pure noi piccoli riuscivamo ad entrare. Ed all’interno facevamo delle panchine, dei sedili sempre con la neve, e ci raccoglievamo lì dentro a scherzare, a fare i nostri giochi. E dentro queste capannette di neve si stava anche bene perché si soffriva meno il freddo anzi dentro non faceva proprio freddo. E questo accadeva anche perché si cercava di fare le parenti abbastanza spesse. Insomma, non dico che all’ interno facesse caldo ma non era certo freddo. E facevamo a queste capanne di neve il tetto spiovente, come c’era nelle case vere.

E con la neve facevamo anche gli scivoli, ed anche con questi c’era gran divertimento! E si faceva a gara a chi costruiva lo scivolo più lungo, più funzionale, dove ci si potesse maggiormente divertire.

Ma se dovevamo stare a casa, diventavamo un problema per gli adulti.

Nelle giornate di brutto tempo, quando la neve scendeva implacabile, noi bambini eravamo costretti a restare a casa, tra la disperazione di madri, padri e zie. Infatti non riuscivamo a star fermi. Ed allora, non sapendo che fare, buttavamo all’aria tutta la casa, con grande ira, nel mio caso, di mia madre e di mia zia. Infatti nella mia casa vivevamo noi e la famiglia del fratello di mio papà.

E le donne, d’inverno, filavano la lana utilizzando il filatoio. E facevano delle specie di strisce di lana e poi le arrotolavano, e ponevano questa specie di ‘salsicce’ sul filatoio per fare il filo. E noi bambini, non sapendo come occuparci nel corso delle giornate in cui non potevamo uscire, davamo loro fastidio e, per fare loro dispetto, rompevamo il filo vicino al salsicciotto di lana, dove sapevamo che era più debole.

Agivamo così: si faceva finta di giocare, ci si avvicinava e ‘involontariamente’ si spezzava il filo. E le donne dovevano riattaccarlo con la saliva. (5).

Donne che filano. Una ha in mano i ‘salsicciotti’ di cui parla anche Luca, le altre lavorano alla macchina a pedale. (Archivio Pro-Loco, Sauris). Da: AA.VV., (a cura di Donatella Cozzi, Domenico Isabella e Elisabetta Navarra), “Sauris Zahre una comunità delle Alpi Carniche, 2 volumi, Forum ed., 1998, volume secondo, p. 26.

LA VITA DEGLI ADULTI.

Gli uomini che facevano i tessitori avevano molto lavoro d’inverno, e così gli artigiani. Ed a Sauris avevamo molto ‘ingegno’. E dovevamo averne, visto che eravamo abituati ad esser autosufficienti per quanto l’ambiente lo consentiva. Importavamo solo quello che non cresceva qui, per esempio frumento o granoturco. E ci costruivamo da soli anche gli attrezzi da lavoro. Nessuno andava ad acquistarli fuori.

E c’era chi realizzava attrezzi o parti di attrezzi in legno, e c’era pure qualche fabbro molto capace.

Ma c’era chi sapeva fare anche senza esser necessariamente un fabbro od un artigiano, e in ogni famiglia c’era una incudine, e c’era un minimo di attrezzatura per poter lavorare sia il ferro che il legno. Così la dipendenza dall’esterno era proprio ridotta al minimo, certamente non per virtù ma per necessità, perché non era facile comunicare con i paesi limitrofi.

La strada che adesso passa per il ‘Bûs’ era, quando io ero bambino, un sentierino più per caprioli che per la gente. E chi si avventurava lungo quel sentiero per uscire dal paese si esponeva a grossi rischi a causa degli stretti passaggi sulle rocce a picco. Peggio con peggio se uno soffriva di vertigini! L ‘alternativa era uscire per il Pura, il che significava fare 7 o 8 chilometri in più all’andata ed altrettanti al ritorno. Faccia conto che chi voleva andare ad Ampezzo, doveva partire la mattina presto per rientrare la sera tardi.

Quando andavo a Trieste, c’erano mio papà e mio zio che mi portavano fino ad Ampezzo.  Ero un ragazzotto di dieci- dodici anni e la strada era lunga e per me ed era troppa. Allora mi prendevano a ‘cavalòt’, prima l’uno dopo l’altro, per tratti, e mi portavano sulle spalle, come del resto facevano anche con i vitelli, ma non sempre. Ma quello che ancor oggi mi impressiona di più sono i 26 chilometri da percorrere per raggiungere Ampezzo, perché la strada non era come oggi era molto più lunga.

Vivere con la neve d’inverno.

Quando venivano grandi nevicate, bisognava necessariamente sgomberare la neve ed aprirsi un varco. Allora non c’erano spazzaneve, neppure quelli a traino di mulo. Per la verità avevano incominciato a costruire qualcosa di molto embrionale adatto all’ uso, ma non di dimensioni tali da poterlo usare per sgomberare quella strada. Ed allora cosa succedeva? Tutti quelli che potevano, uomini, donne, ragazzi, vecchi, si mettevano gli ‘scafarots’ e partivano a spalare.

Quindi iniziavano il lavoro in fila, a distanza regolare uno dall’altro, cosicché chi guardava da lontano vedeva tutta questa gente disseminata lungo il tracciato della strada. Ed erano davvero in tanti. E tutto il paese si rendeva disponibile a spalare fino a raggiungere la strada che veniva da Forni di Sotto: fin lì si doveva andare spalando. E spalare la via era un lavoro immane.

Poi, magari, un giorno o due dopo aver finito il lavoro, tornava a nevicare, oppure il vento ricopriva il sentiero aperto con la neve fresca, e allora si doveva ricominciare tutto daccapo.

Sa non si usavano scarpe allora. Mia madre, per esempio, aveva avuto solo un paio di scarpe che aveva indossato per le nozze. Ed ha avuto solo quelle e non altre. E con quelle non andava certo in giro per il paese.

Ai piedi avevamo le ‘dalmine’ (6). E sopra le ‘dalmine’ si mettevano ‘las stivelas’ cioè una specie di calzettoni senza pedalino che aderivano alla dalmina e che si legavano con un ‘peciot’ (7) o con uno spago sotto alla calzatura, e i pantaloni si infilavano dentro questa specie di calzettoni, che salivano su fino al ginocchio.

Ma quando c’erano le grosse nevicate in paese, allora solo gli uomini, non le donne perché era un lavoro troppo faticoso, intervenivano a liberare le strade. E vi erano famiglie che abitavano fuori del paese, mentre la latteria era in paese, e c’erano magari 80 o 100 cm di neve e, in attesa che si aprisse il varco, si procedeva andando avanti rompendo il manto nevoso a poco a poco. E per fare questo lavoro si indossavano non calzettoni di lana fatti con i ferri da calza, ma calzettoni molto più grandi fatti di tela naturalmente tessuta sempre a Sauris, perché non entrasse la neve nelle dalmine.

1977. Sauris di Sopra. Il trasporto del pane dopo una nevicata. (Archivio Pro-Loco, Sauris). Da: AA.VV., (a cura di Donatella Cozzi, Domenico Isabella e Elisabetta Navarra), “Sauris Zahre una comunità delle Alpi Carniche, 2 volumi, Forum ed., 1998, volume secondo, p. 74.

Ed a Sauris usavamo sci ma anche le racchette da neve. Una racchetta era fatta da un ovale di legno forato e riempito con delle corde o striscette di cuoio intrecciate che aveva nel mezzo, dove poggiava il tacco, una striscia di tela. E noi, a Sauris, le usavamo molto d’inverno. Ma il loro uso dipendeva dal tipo di neve che c’era: infatti se la neve era farinosa, non si potevano utilizzare perché si sprofondava ugualmente e si sarebbe fatta maggior fatica ad avanzare. Viceversa quando la neve era sciroccosa, allora si galleggiava di più.

Il rapporto di tra bimbi e genitori.

I bimbi e ragazzi davano del voi ai genitori, e spesso avevano il terrore del padre, che cercava di essere severo, arcigno con loro e di non dare confidenza. Ma avevano riguardo in generale dei vecchi di famiglia.

Per esempio le voglio raccontare questo fatto. Mia madre era uscita da casa per sposarsi molto giovane, e a 15-18 – 20 anni, figurarsi che fame e voglia di mangiare a mezzogiorno che aveva! Ma il pranzo funzionava così. Il vecchio, il nonno, metteva sulla tavola un bel pezzo di formaggio e la polenta, però i giovani avevano un riguardo enorme a tagliare per sé il formaggio. Mai fette, ma fettine! Mica come oggi, che si taglia senza scrupoli! Insomma c’era molta sottomissione, molta dipendenza.

Certo, nonostante tutto, si facevano ugualmente marachelle. E mi ricordo che, a Carnevale, ragazzi e ragazze volevano andare a ballare, ed allora facevano finta di andare a dormire e poi fuggivano dalla finestra, ed erano molto più indipendenti di adesso!

I bimbi aiutavano i genitori nei campi. Anzi, non vedevano l’ora di andare ad aiutare, e chiedevano loro ai genitori di poterlo fare: di poter rastrellare e persino portare fasci adatti a loro, fascetti direi. E si insisteva persino a fare questo, ed era per noi bambini come una bravura riuscire a fare qualcosa con i grandi. Ci piaceva. Ed è accaduto anche a me quando ero bambino e facevo come gli altri: portavo fieno, rastrellavo … E aiutavamo persino a falciare. Ci facevamo delle piccole falci, delle ‘ falcette’ sul fac-simile di quelle degli adulti, perché si voleva a tutti i costi andare a falciare. Però noi, ragazzetti, realizzavamo la parte in legno, ma quella in metallo la faceva un’officina, un fabbro.

E nel realizzare una parte di questo attrezzo da soli, ci sentivamo grandi, ed era soddisfazione realizzare da soli qualcosa ‘da grandi!”

A Sauris non motivavano tanto i bambini come in altri paesi, ed erano comunque sani come “gli squignizzi di Napoli”. E indossavamo maglioni d’inverno ma andavamo anche non molto coperti quando di poteva scorrazzare e giocare. Ed eravamo anche temprati all’ambiente.

Uomini e donne a Zahre.

Gli uomini emigravano stagionalmente anche qui, prima della grande guerra, verso l’Austria e la Germania perché non tutti riuscivano a vivere di boschi ed allevamento. E detta emigrazione avveniva dalla primavera all’autunno, non d’inverno. Non so però quando detta emigrazione per lavoro sia incominciata, ma ai primi del Novecento questo fenomeno era ancora in corso. Ed andavano a fare i muratori, i bandai, e poi rientravano a Sauris in autunno, dove incominciavano un altro lavoro: quello di rivedere ed eventualmente riparare gli attrezzi, oppure farne di nuovi od ancora migliorare quelli che già c’erano. E c’era tutto un fervore nel fare cose a livello artigianale. E se noi potessimo avere una raccolta di quanto realizzato a Sauris in questo modo, troveremmo che qui si lavorava anche con cura, perché era importante non solo produrre l’oggetto al fine del servizio che doveva fare, ma anche perché apparisse bello all’occhio. E c’era pure una ricerca dal punto di vista estetico nel produrre artigianalmente.

Per esempio quando si costruiva un contenitore per la cote, cioè quell’oggetto dove si pone la pietra per affilare la falce, si usava molta cura, e se andavamo a confrontare le nostre porta-cote saurane con quelle che si vedevano in giro per la Carnia, ci sentivamo molto orgogliosi dei prodotti locali!

La famiglia di Floreano Plozzer (Sbaltn) e Maria Elisabetta Troiero (Trougar – della fontana) ritratti nel 1907 circa. Seduti i genitori con in mezzo la piccola Agnese. Dietro, da sinistra a destra guardando, i loro figli: Emidio (Midio) mio nonno, Giuseppe (Heppe), caduto nella prima guerra mondiale e sepolto al tempio Ossario di Timau, Anna Maria (Miele), Giovanna. Forse Agnese morì di spagnola nel 1918.  Manca Augusta che poi sposerà Agostino Domini. (Archivio Emidio Plozzer).

Le donne, invece, poverette, meriterebbero un monumento, e questo non termino mai di dirlo, almeno come memoria di tutto quello che facevano. E facevano molto più degli uomini. Perché le donne dovevano fare anche tutto in casa, mentre l’uomo non si degnava di fare i lavori domestici, o meglio non era nella tradizione che li facesse. Non era nella tradizione che l’uomo andasse al secchiaio, per esempio, non era nella tradizione che lavasse i panni, perché questo compito spettava alla donna, e non era nella tradizione neppure che prendesse in mano una scopa, abitualmente. Così andava a finire che la donna aveva a suo carico tutto il lavoro di casa: pulizie, lavare, rammendi e la cucina, e per di più doveva anche andare ad aiutare l’uomo in campagna. Naturalmente lì le fatiche più grosse le faceva l’uomo, ma non sempre e non dappertutto, perché poteva darsi che l’uomo non fosse presente, se per esempio emigrato.

E certamente era un lavoro portare fasci, che potevano essere di 70 – 80 – 90 – 100 chili anche, qualcuno. Ma coloro che portavano fino a un quintale a fascio, secondo me volevano fare i gradassi, e magari andava a finire che morivano prematuramente. Poi le donne dovevano mattina e sera accudire la stalla, e dopo la stalla c’era la cucina, e via dicendo.

Le stalle, a Sauris, però, non erano separate dalle case come a Ludaria di Rigolato, ma si trovavano vicino alle case, nelle aree circostanti (8). Ma tutti cercavano di farsi la stalla vicino alla casa per ragioni economiche, perché chi doveva accudire alla stalla l’avesse a portata di mano, sia per lo svolgimento del lavoro ordinario, sia quando si dovevano assistere le mucche nel parto. E quindi sicuramente la preferenza ed il desiderio erano quelli di avere la stalla vicino alla casa.

Foto D’ Orlando. 1969-70 forse. Emidio Plozzer, mio nonno, parla con una saurana incontrata a Sauris. (Archivio Emidio Plozzer). 

Certamente questo comportava delle conseguenze igieniche, ma comunque i saurani cercavano di difendersi da questi inconvenienti come potevano, e se c’era chi curava di meno questi aspetti, c’erano anche famiglie che, pur avendo la stalla molto vicino alla casa, cercavano di tener tutto pulito. Perché il problema era dato dai rifiuti della stalla, visto che le mucche, in particolare l’inverno, vivevano lì. E se c’era molta neve non uscivano.

Così si era costretti ad ammucchiare il letame nei paraggi.

SAURIS UNA COMUNITÀ ANTICA CON UNA ECONOMIA AUTARCHICA.

Oltre le mucche si allevavano a Sauris anche pecore per avere la lana. E si coltivava tutto quello che l’ambiente permetteva di coltivare, che si conosceva e che poteva essere utile alla sopravvivenza.

La coltivazione più abbondante era quella dell’orzo, con cui si facevano i minestroni, che se ci fossero ancora io li mangerei molto volentieri, e la segala, con cui si faceva un pane molto buono, specialmente se si univa alla farina di segala quella di grano saraceno. Perché la combinazione di queste sue farine dà un pane molto buono, ma anche la polenta di saraceno, prima che qui giungesse il granoturco, era ottima.

Ma a Sauris si coltivavano pure patate, avena e fave. Mi ricordo che noi, ragazzini, quando le fave erano mature, ci dedicavamo a grandi scorpacciate delle stesse, possibilmente prendendole sui terreni degli altri.
Mi ricordo che ci si infilava nei campi altrui, e poi ci si accovacciava giù per non essere visti, e si facevano scorpacciate di fave … Ma eravamo ragazzini …

Poi mi rammento che si mangiavano anche gli ortaggi che riuscivano a crescere compatibilmente con il clima. Si era tentato, per la verità, di coltivare anche frumento e granoturco ma senza grossi risultati. Ed il frumento cresceva meglio del granoturco, ma si poteva ottenere qualcosa solo nelle stagioni molto buone, ottimali. Il mais invece non riusciva per niente a crescere e maturare. Ma anche l’uva, a Sauris, non riusciva a giungere ad uno stadio di maturazione sufficiente. E non si riuscivano a raccogliere neppure mele o pere, ma solo ‘lops’ (9), susine selvatiche e ciliege, ma di qualità molto modesta.

Poi allevavamo animali: muli preferibilmente, piuttosto che cavalli, ma a Sauris c’era anche chi aveva cavalli, come per esempio la mia famiglia. E questi animali venivano utilizzati per il trasporto, per esempio di legname, tronchi. A Sauris infatti usavamo le slitte d’inverno e i carri d’estate per trasportare, ma erano a traino animale. Certamente c’erano anche le slitte a traino umano, ma venivano utilizzate solo dove l’animale non riusciva a salire: in luoghi impervi e ripidi. Ed esisteva anche il trasporto dei tronchi a strascico, fatto sempre con cavalli o muli, che veniva attuato in luoghi dove non si poteva andare con le slitte e fino alla prima strada raggiungibile.

A Zahre c’erano boschi demaniali dove tutti potevano tagliare, ma tutti avevano anche un loro proprietà. Ma c’era pure una grossa fetta di territorio incolto, formato da prati e boschi, di proprietà comunale. Allora il comune lo concedeva in gestione a signori, a privati, chiedendo ben poco in cambio, tanto che alla fine pare che, in un modo o nell’altro, una parte dello stesso sia entrato a far parte della proprietà privata di chi lo aveva avuto da sfruttare. Per esempio qui, guardando, dal lato della montagna, la grande proprietà terriera era comunale, ed il comune la concedeva a privati da sfruttare, o qualcuno la sfruttava senza chiedere.

Anna Squecco, mia nonna materna, ventenne, che poi sposerà Emidio Plozzer, a Sauris di Sopra dove faceva la maestra, in un orto recintato. (Archivio Emidio Plozzer).

Nella comunità saurana ogni famiglia aveva qualcosa per sopravvivere.

Comunque a Sauris non si può dire che ci fossero famiglie di signorotti.  C’è stato certamente anche qui chi ha dato i suoi terreni da lavorare in affitto, ma solo perché non poteva lavorarli in proprio, perché non aveva la forza necessaria per farlo. (10). Ed a Sauris non davano da lavorare a mezzadria od addirittura ad un quarto al contadino e ¾ al padrone, come accadeva in altri paesi della Carnia, credo perché qui l’estensione della campagna era ampia, e il paese non è ubicato in un fondovalle stretto. Così ogni famiglia aveva una proprietà a dimensione di diversi capi di bestiame: anche 10- 11 – 12- 13, e nessuno aveva meno di tre o quattro animali nella stalla. Per questo qui la mezzadria o altre forme similari non esistevano.

Ma chi non aveva nessuno in casa che lo aiutasse o non aveva la forza di lavorare, allora dava i terreni in affitto. E c’era gente che li prendeva in affitto per integrare quanto ricavava dal proprio podere, ma non perché non avesse di suo o non riuscisse a produrre neppure quanto bastava per il sostentamento di un capo di bestiame.

A Zahre, però, non c’erano le grandi proprietà, ma neppure quelle minime, e ognuno aveva di che sopravvivere. Insomma qui vi erano differenze meno marcate di stato sociale nella popolazione, presenti invece in modo marcato da altre parti, ma anche qui esistevano il benestante ed il meno benestante. In sintesi possiamo dire che a Sauris non c’erano grandi miserie e non c’erano grandi abbondanze e tutti riuscivano sopravvivere, a vivere almeno ‘al minimo’.

I trasporti venivano fatti con i cavalli.

A livello di trasporti, poi, chi aveva i cavalli li faceva da solo per sé, ma c’erano anche coloro che si rendevano disponibili per i bisogni degli altri, ovviamente contro pagamento del servizio. A Sauris c’era una grande disponibilità alla collaborazione ed allo scambio di manufatti o attività (11), ma nessun privato lavorava per altri per niente, in via ordinaria. Si poteva però pagare un servigio anche in natura: in formaggio, patate, burro, quello che faceva comodo. Diverso era il caso in cui si fosse prestata la propria opera in lavori di pubblica utilità o in caso di calamità: in questa evenienza tutti operavano insieme per la comunità.

Non da ultimo anche a Sauris le donne vendevano i capelli per comperarsi qualcosa, ma questa attività non era molto diffusa. Infatti qui le donne erano molto gelose dei loro capelli.

Cultura, canto, musica, documenti a Zahre.

Chi era preposto e si occupava, nei tempi andati, di istruire e di insegnare a leggere e scrivere alla gente erano i preti, e qui si parlava in tedesco anche a scuola, prima dell’Unità d’Italia. E voglio ricordare che molti preti sono usciti dalla nostra comunità saurana, e pure che qui c’era una grande soggezione nei confronti del pievano. (12).  Ed il parroco, a Sauris era considerato un Padre Eterno, non tanto però in materia sanitaria, ma se uno aveva bisogno di un consiglio andava dal prete, che definiva pure come regolarsi in situazioni diverse: sia di carattere morale, che in affari, che su aspetti di ogni genere. Ma quando io ero piccolo non c’era, a livello culturale, oltre questo, niente di niente: solo le feste popolari ed una gran voglia di cantare e ballare.

Mons. Giorgio Plozzer (Sbaltn). (Da: Calendario saurano 2016, Mese di febbraio, in: file:///C:/Users/User/Downloads/Calendario-2016_Johrzaitn_Ricorrenze-5.pdf

E si sapeva anche suonare: altroché, ed avevamo bravissimi fisarmonicisti nel paese, e qualche paesano suonava bene il violino, qualcun altro la chitarra, e avevano cercato di creare un po’ di orchestrina, per poter cantare con l’accompagnamento, e questo la gioventù: ma non solo la gioventù. Anche i gruppi di meno giovani si aggiungevano ai giovani, per cantare. E anche quando i saurani andavano a lavorare su, in alto, facevano dei momenti di sosta. Ed allora si sentivano dei cori che, a sentirli oggi, farebbero scendere lacrime di nostalgia. Perché sentire questi cori provenire dall’alto … Sa cantavano bene e, propagandosi il suono dall’alto in basso, vi era una riflessione acustica molto buona, e l’ascolto di questi cori fatti in alta montagna era molto gradevole.  E la sera, quando rientravano, questi ragazzi, questi giovani si dedicavano ancora a cantare, oltre che a ‘babare’ (13), a chiacchierare.

Lei mi chiede se c’era qui una bibliotechina popolare: no, non c’era. Il prete aveva i suoi libri ed i documenti ma erano per lui. Qualcuno, in forma privata, aveva in casa documenti anche importanti ed interessanti, ma chi li aveva non se ne rendeva conto e molto è andato perduto.

Qualcosa è stato raccolto da quelli del Circolo Culturale ma non grandi cose. Qualcosa di più si sarebbe potuto trovare negli archivi comunali. Ma gli archivi comunali di Sauris sono poveri perché tutto è andato distrutto nel 1758 mi pare, a causa di un grande incendio. (14). Certamente però ci sono i documenti del Novecento e successivi, ma ci vorrebbe che ci fossero dei cultori a visionarli. E non tutti i documenti sono scritti in saurano, perché anche noi eravamo sotto il Patriarcato di Aquileia, e quindi i documenti furono scritti anche in un italiano comprensibile, magari un po’ arcaico, ma insomma …

Ma sarebbe bene che Lei visionasse pure il libro di Fulgenzio Schneider (15) che si trova presso il Circolo Culturale di Sauris, che lo vorrebbe stampare da tempo, ma non è ancora riuscito a farlo ‘per via della grana’, cioè perché mancano i soldi. Vi è certamente in programma di muoversi per questa edizione del libro, ma si parla e si parla, ed in concreto non c’è nulla. Però io non mi sono occupato di questo perché sono un semplice socio del Circolo Culturale, mentre il Presidente è Tiziano Minigher (16), ed è con lui che si può parlare. E di Sauris si è occupata pure la professoressa Maria Hornung di Vienna (17), che si è interessata pure del libro di Fulgenzio Schneider, e vorrebbe farlo stampare nelle due lingue, in italiano così com’è ed anche in tedesco. Ma sinora non vi è nulla di concreto.

Fulgenzio Schneider. (Da: Dizionario biografico dei friulani, https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/).

Sanità di un tempo a Sauris.

Per quanto riguarda la sanità di un tempo, essa era “quella degli stregoni”, anche se ‘stregone’ è un termine brutto che non si addice alla nostra popolazione. Ma la funzione di chi curava, quando ero bimbo, era quella.

Qui a Sauris di dotto c’era, per esempio, ‘Pieri muini’ e abitava, venendo insù, nell’ultima casa a sinistra, subito di qua del Municipio, che è ora proprietà del prosciuttificio (18). E ‘Pieri muini’ era onnipotente in campo sanitario sia per la medicina che per la chirurgia, e nel settore era un onnisciente per il tempo. E appena uno aveva qualche cosa si rivolgeva a lui, ma anche quando stava male una mucca. Ed egli era capace di mischiare ingredienti di ogni tipo per creare medicine: in particolare utilizzava erbe ed impiastri, e cose così, po’ …

Io ho conosciuto molto bene quest’ uomo, ed era senz’altro intelligente, ma ti guardava dall’alto in basso, ti metteva soggezione. Oltre ‘Pieri muini ‘ c’erano altri che curavano nel comune, ma quello che passava per il ‘non plus ultra’, per quanto ne so io, era lui. Poi c’era l’ex- Matussin, quello che ha messo su la prima macelleria, un certo Dante (19), che ha scritto pure un po’ di poesie sull’ospedaletto, ed altri ma di minore calibro. Quello che sapevano era però frutto della cultura popolare, niente di scientifico che si possa paragonare all’oggi.

E per i parti c’era qualche donna che si arrangiava, come per esempio mia zia. Solo successivamente è venuta l’ostetrica, quella di Mediis, ed altre ancora, ma ai tempi passati si faceva tutto da soli. Ma anche qui è successo che morissero donne di parto, e, per quanto riguarda i bambini, qui dicevano che ne erano morti di più con l’ostetrica che con le donne del paese. (20). Ce n’era una specialmente … Ma lasciamo perdere, va… Diplomate ma …. Forse queste ostetriche erano uscite dalla scuola senza fare prima tirocinio.

Anche a Sauris è successo, poi, che qualche donna cercasse l’aborto volontario (21), ma non so cosa facessero per procurarselo, ma, comunque, chi lo faceva, lo faceva nella massima riservatezza possibile.

E per finire voglio dirle anche questo. C’era, quando ero piccolo, la perpetua del parroco, di don Piller, che aveva fatto prima l’infermiera alla Cavarzerani di Udine. E quando io mi sono fatto male, cosa hanno fatto i miei genitori? Si sono rivolti a questa donna e le hanno chiesto cosa fare. E quella ha scritto di farmi fare bagni oculari, impacchi di acqua borica. E questo è stato fatale per me, perché non avevo bisogno di impacchi di acqua borica, bensì di un intervento chirurgico.  Ma con questo voglio solo dire che anche la perpetua aveva un suo ruolo sanitario, in quel periodo.

Racconti e filastrocche popolari, quasi sempre a sfondo educativo.

Qualcosa c’era anche qui, ma più di me sull’argomento sa il presidente del Circolo Culturale, ed anche il coro che, grazie al nostro parroco, ha fatto un’ottima raccolta di canti antichi popolari nel nostro dialetto (22). Anche qui, certamente, vi erano nenie e filastrocche per i bimbi piccoli, ma io non sono un esperto in questo settore.

Coro di Sauris. (Da: https://www.sauris-zahre.org/coro-zahre/).

SAURIS TRA POLITICA LAVORO E RESISTENZA.

Non si può parlare certamente di socialismo saurano, ma di alcuni socialisti di Sauris. Insomma, qualche caso, prima però del 1925. E questi socialisti hanno messo su una specie di cooperativa di consumo a Sauris di Sopra, gestita da loro, ma erano davvero pochi. Poi questa cooperativa è andata a finir a male. Invece ci sono state, a livello privato però, diverse impresette qui, che facevano qualche lavoro edile. Ma anche queste non sono finite bene, ma non tanto perché non sapessero fare il loro lavoro, ma per difetto di tenuta amministrativa, almeno per quello che io so, perché non davano importanza a questo aspetto.

Qui erano sorte ed avevamo segherie, imprese edili, mulini, anche ditte che producevano acquavite che vendevano poi di contrabbando.

Comunque, anche sul piano politico, Sauris è stata sempre molto emarginata.

Sauris antifascista e terra partigiana.  

Per quanto riguarda Sauris nel corso della seconda guerra mondiale, c’era una grossa indisposizione, almeno in certi strati della popolazione, quella più ‘avanzata’, verso il fascismo, perché anche a Sauris i fascisti hanno fatto angherie, prepotenze, per cui padroni erano solo loro e gli altri dovevano solo obbedire. In sintesi chi era fascista poteva fare quello che voleva, mentre gli altri dovevano fare solo quello che volevano i fascisti.

Quindi una certa indisposizione verso il fascismo c’era senz’altro e questo ha favorito l’arruolamento di partigiani specialmente a Lateis, ma qualcosa anche qua a Sauris di Sopra, a Sauris di Sotto. E sapevo anche i nomi dei partigiani, ma bisognerebbe che facessi un momentino mente locale.

Inoltre, a proposito di partigiani, nel 1944, periodo molto difficile per noi che qui eravamo isolati, ci sarebbe molto da dire, ma … E, dal punto di vista alimentare, c’erano carovane di donne che dovevano andare in Friuli a prendere granoturco, frumento, giù, nel basso Friuli, a Varmo, a San Vito, ed andavano sino a Trieste a prendere sale… È stata un’odissea … E si veniva su per il Mont di Rest, e mi viene in mente pure un episodio. Sa, anch’io ho fatto un po’ di spola …

Io avevo uno zio a Dignano, che era un buontempone e io mi sono mosso con lui. Ma a Spilimbergo c’era un posto di blocco, e lui aveva in tasca una bolletta di dazio per la macellazione del maiale, che riportava una scritta in italiano ma il timbro dei tedeschi.  E quando ci hanno fermati, lui l’ha tirata fuori, e ci hanno lasciati passare. (23).  Ritenevano giusto farci passare. Ma quella strada per passo Rest, che passava per Meduno, Tramonti, è stata una via molto sudata, almeno per la gente di Sauris, e la si doveva percorrere pioggia o non pioggia … Ma qualche volta si passava anche per la Carnia. E qualche volta si trovava ai posti di blocco gente che ti faceva passare senza problemi, altre volte, invece, c’erano i pignoli.

Ed in quell’ inverno, in momenti di estremo bisogno, non ci si è avvalsi della caccia per sopravvivere, ma ci si è orientati subito ad organizzare queste carovane, perché a noi mancavano, principalmente, frumento, granoturco e sale.

Però sa, per ritornare a quelli che andarono partigiani, divennero partigiani non perché fossero molto ideologhi, non erano cioè a conoscenza del movimento, ma perché trascinati da compagni di cui avevano fiducia. (24). Tant’è che si sono anche lasciati andare ad atti che non avevano niente a che vedere con il movimento partigiano. Ma questo vale non solo per i nostri, anche per quelli di fuori. Perché c’era gente che, evidentemente, non sapeva neppure perché era lì, e così si lasciava andare …. Però ribadisco che qui i partigiani hanno trovato terreno favorevole perché preparato, in sostanza, dal fascismo.

Casa Plozzer (Sbaltn) a Sauris di Sotto. Foto integrale. (Archivio Emidio Plozzer).

Poi, successivamente, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ci sono stati dei tentativi di ricostruire una o l’altra sezione politica di partito, ma senza grandi risultati. Il Partito Comunista, per esempio, dal 1945 al 1950 aveva una buona sezione a Lateis, ma, quando alcune persone che la formavano sono andate via dal paese, le altre, che sono rimaste, non sono riuscite più a mantenere, potenziare, far crescere la sezione.

Per quanto riguarda i socialdemocratici, essi hanno costituito più volte le loro sezioni, ma non hanno mai funzionato se non durate le elezioni; mentre la Democrazia Cristiana continua, ancor oggi, ad ogni ricorrenza elettorale a ricostruire la sua sezione, salvo poi a farla cadere subito dopo.

Il Partito Socialista, il PSI mantiene la propria sezione ma è attiva soltanto durante la campagna elettorale: un disastro, insomma!

Economia, Sauris e Sade.

Si dovrebbe, a mio avviso, approfondire tutto l’aspetto economico, e mi piacerebbe approfondirlo, ma non solo per Sauris. Mi piacerebbe per esempio parlare del problema della Carnia e di tutte le zone emarginate, in relazione al passato, all’oggi, ed a quello che potrebbe venire qui, se lo si vorrà.

Per quanto riguarda la vita a Sauris dopo la costruzione della diga, essa si è molto modificata a causa della nuova strada, invece solo relativamente a causa della diga e del lago. La strada ha infranto quel cerchio che ci teneva prigionieri, mentre la diga ed il lago non hanno cambiato nulla qui in modo determinante.

La diga è stata importante per gli altri, ma per noi molto relativamente. La strada ci ha tolto dall’ isolamento che ci tagliava fuori anche da tutto il progresso culturale, scientifico, economico, che tanto è costato all’umanità e bisognava romperlo. Ma forse oggi Sauris è anche troppo aperto».

Così termina questa intervista, perché allora mia figlia Annalisa aveva sei mesi, mi attendeva all’aria aperta in braccio ad Alido, suo padre, ma aveva bisogno di essere allattata. Non sono riuscita poi ad intervistare più Luca Petris, ma credo che ci abbia raccontato molto di una comunità che ormai ‘si è aperta troppo’ perdendo, come del resto quasi tutte le comunità del mondo, le proprie peculiarità.

Per altri aspetti rimando sia a Fulgenzio Schneider, Raccolta di antiche tradizioni ed avvenimenti fino ai giorni nostri di Sauris, Circolo Culturale Saurano “F. Schneider” 1992 che ai due volumi di vari autori e curato da Donatella Cozzi, Domenico Isabella e Elisabetta Navarra, “Sauris Zahre una comunità delle Alpi Carniche, 2 volumi, Forum ed., 1998. 

P.S. Rispetto a quanto scritto su questi due volumi sull’abbigliamento, ricordo che mio zio Umberto Plozzer, nel 1977-1978 e poi, indossava, per andare in bicicletta, un giacchino di Sauris senza maniche, (un gilet), fatto con pelle di pecora con la lana, che proveniva da Sauris ed era di mio nonno, il che amplia il discorso sugli abiti, presente in particolare nel secondo volume. 

Inoltre rimando al mio: Anna Squecco Plozzer, cavazzina, maestra tra Cleulis e Sauris, in: http://nwww.nonsolocarnia.info. 

Laura Matelda Puppini- figlia di Maria Adriana Plozzer e nipote di Emidio Plozzer (Sbaltn).

Note.

(1) Un racconto popolare riportava che Luca, dopo essersi colpito l’occhio con un bastoncino, non avesse parlato in casa per paura, sperando che la situazione si risolvesse da sola. Poi, però, anche secondo la sua diretta testimonianza, quando aveva iniziato a star male e non vedere, i genitori si erano accorti che era successo qualcosa, ed avevano chiamato la perpetua che fungeva anche da persona di primo soccorso. Ma costei non aveva compreso la gravità dell’accaduto, e così era passato ancora del tempo, finché la vista di Luca si era definitivamente compromessa.

(2) Anche Romano Marchetti raccontava di un suo amico che, giocando con le cartucce da fucile, che venivano buttate sul fuoco acceso, era riuscito a farsi saltare la punta del naso. (Romano Marchetti, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel ‘900 italiano (a cura di Laura Matelda Puppini), Ifsml e Kappa Vu ed. 2013, p. 34).

(3) Secondo Lucia Protto del Circolo Culturale, a Sauris facevano i fischietti con la pianta che in saurano si chiama  “maie”, cioè il salicone (salix caprea), quello dei gattici, per intenderci. E c’è ancora a Sauris una persona che li sa costruire. Speriamo, e questo lo dico io, che qualcuno faccia un video sulla costruzione dei fischietti a Sauris. In rete si trova come fare un fischietto (https://www.youtube.com/watch?v=O-ZeSrpclNw) ed anche come fare un fischietto di salice, e i rametti devono essere raccolti quando la corteccia è verde e il loro spessore non deve essere maggiore di 2,5 cm. (https://www.wikihow.it/Costruire-un-Fischietto-di-Salice). In questa intervista Luca Petris tenta di ricordare bene e collega alla creazione di un fischietto un albero particolare, un momento particolare dell’albero, l’importanza della corteccia e dello spessore, tutti elementi fondamentali, ma non riesce a comunicare, visto che il ricordo è lontanissimo nel tempo, in modo preciso tutte le fasi di costruzione, a mio avviso.

(4) Secondo Romano Marchetti tutti i maschi non piccolissimi possedevano un temperino, chiamato in friulano: ‘britule’, che tenevano in tasca.  

 (5) Secondo Lucia Protto, del circolo etnografico di Sauris/Zahre, sembra che a Sauris le donne, per fare saliva, masticassero le fave. In alcuni paesi della Carnia, invece, le donne masticavano, per lo stesso fine, tabacco.

(6) Dàlmine o dàlmide, ma anche, forse erroneamente ‘ dalbida’ (in latino calĭga dalmăta’ sandalo della Dalmazia) è il nome friulano di una specie di zoccolo o scarpa tutta di legno usata dai contadini e dai montanari del Friuli. (Cfr. https://www.treccani.it/vocabolario/dalmine/).

(7) Peciòt è il termine friulano che indica uno straccio, una striscia di tela.

(8) Il modello costruttivo di Ludaria di Rigolato vedeva le case ammassarsi nel paese e le stalle locate a più di un chilometro in alto, in località Riciul (così la chiamano i locali) o Riciol (così sugli stradari online). Invece a Cavazzo Carnico si seguiva il modello urbanistico friulano che vedeva la stalla collocata vicino alla casa, nel cortile esterno, come del resto il letamaio. 

(9) Si chiamano ‘lops’ in friulano delle mele piccole e selvatiche.

(10) A Rigolato c’erano per esempio anziani, rimasti magari da soli, che si avvalevano dell’aiuto di ragazze del luogo per sfalciare e portare il fieno giù dalla montagna.

(11) Qui Luca Petris parla di “scambio di opere”, ed io ho inteso come scambio di manufatti o di attività.

(12) Laura ricorda a Luca due sacerdoti di casa Plozzer, uomini pure di cultura, ma a riprova della considerazione in cui venivano tenuti, narra che le avevano raccontato che sua bisnonna Maria Elisabetta Troiero (Trougar) faceva il pane anche per il prete, e lo dava prima a lui, che occupava il posto più in alto della scala gerarchica che ai bambini.

(13) ‘Babare’ è una italianizzazione del verbo friulano ‘babâ’ che significa chiacchierare.  Il dialetto saurano è un dialetto tedesco. Ma Luca Petris era stato molto a Trieste, al Rittmayer e fuori Sauris e quindi aveva probabilmente appreso anche il friulano. 

(14) Dell’incendio che distrusse Sauris di Sopra con annessa Canonica nel 1758 ed archivio parrocchiale si trova notizia in: http://sa-fvg.archivi.beniculturali.it/fileadmin/inventari/archivi_ecclesiastici/Sauris._Parrocchia_di_S._Osvaldo_re_e_martire__Stefano_Dall_Oglio__1992_.pdf.  Fino ad allora, infatti, la canonica e l’archivio parrocchiale si trovavano presso la chiesa di San Lorenzo, ed anche fino al 1808, data in cui il sacerdote si spostò, non senza grandi resistenze, a Sauris di Sotto. Sauris però non bruciò solo nel 1758 ma anche poi: infatti nel 1911 un violento incendio scoppiò dal retrobottega della Cooperativa, e distrusse il paese intero. (Fulgenzio Schneider, Raccolta di antiche tradizioni ed avvenimenti fino ai giorni nostri di Sauris, Circolo Culturale Saurano “F. Schneider” 1992). Secondo Lucia Protto l’incendio di sviluppò a Sauris di Sotto e originò da un fienile e distrusse la metà inferiore del paese.

(15) In realtà Luca Petris dice “il libro di Fulgenzio Minigher”, dando un cognome errato, (per lapsus di memoria, secondo me, ed avendo in mente Tiziano Minigher, presidente del circolo culturale) a Fulgenzio Schneider, fonte di molte informazioni ed autore del già citato: Raccolta di antiche tradizioni ed avvenimenti fino ai giorni nostri di Sauris”, poi pubblicato.

(16) Tiziano Minigher, morto nel 2019 e nato nel 1929, è stato un uomo di cultura saurano che si è dedicato sia al coro sia al circolo culturale saurano, di cui è stato pure Presidente.

(17) Si tratta della professoressa Maria Hornung dell’Università di Vienna, secono Lucia Protto, del Circolo etnografico di Sauris.

(18) Così Luca Petris. Ma secondo Lucia Protto la casa dove abitava Pieri muini non è di proprietà del prosciuttificio, ma (almeno in parte) della famiglia di Giuseppe Petris (Beppino Wolf), nipote di Pieri Muini e fondatore del prosciuttificio.

(19) Alcune morti di nascituri erano da attribuirsi in Carnia al fatto che l’ostetrica non poteva fare alcune manovre e doveva intervenire il medico, per esempio nei parti gemellari, ma il dottore, magari, non abitava nei paraggi. Donne potevano morire durante il parto di emorragie, infezioni, non uscita della placenta, morte del feto in utero o subito dopo il parto per motivi similari e per sforzi fisici (da qui i 40 giorni di riposo della puerpera).  

(20) Sempre secondo Lucia Protto, Dante era Costante Petris (chiamato in paese Dante Völvlan), un fratello maggiore di Beppino, poeta popolare al quale il Circolo Culturale ha dedicato una pubblicazione nel 2009.

(21) A Rigolato, per esempio, mettevano, secondo gna’ Emma Pellegrina, dei chiodi arrugginiti nell’acqua e bevavano quell’intruglio, o assumevano dosi grandissime di prezzemolo o acqua di prezzemolo, magari rischiando di morire loro. Dato che l’aborto era vietatissimo dalla chiesa, nessuna andava ovviamente a raccontare in giro cosa aveva fatto.

(22) Così si legge in: file:///C:/Users/User/Downloads/Calendario-2016_Johrzaitn_Ricorrenze-2.pdf, mese di aprile (Abröle) «Tra il 1975 ed il 1976 un gruppetto di appassionati si riuniva per dar vita ad un coro. Come raccontava don Guido Manfredo nel numero di Pasqua 1976 di “De Zahre reidet”, il desiderio principale era quello di creare un’occasione per stare assieme in serenità, unito all’intento di recuperare i canti in dialetto. Dal primo debutto al Kursaal il 4 settembre 1976 il Coro “Zahre” non si è quasi mai fermato. Dopo quarant’anni possiamo dire che gli intenti iniziali sono stati rispettati: nel gruppo sono passati tanti coristi, giovani e meno giovani, accomunati dal piacere di cantare e dall’amicizia.

Col recupero dei Canti della Stella e popolari, con la Messa saurana e col nuovo repertorio con testi di poeti saurani, nel corso del tempo il Coro è stato anche ambasciatore della nostra cultura in Italia e all’estero. Dobbiamo ringraziare quei primi coristi, don Guido, che ha diretto il coro per 17 anni, i maestri che gli sono succeduti (Mauro Vidoni, Mario De Colle) e per un breve periodo Ferrante Schneider. (…)».

E da altra fonte: «E’ il Natale del 1974 quando si riunisce il primo gruppo di amici, che formeranno poi il Coro Zahre; inizialmente dediti al recupero degli antichi Lids in madrelingua ed in tedesco antico, affronteranno poi le villotte friulane e, successivamente la polifonia sacra e profana. Sauris – Zahre (come viene chiamata in dialetto) è un’isola linguistica minoritaria di origine tedesca, dove ancora oggi si parla un idioma di tale provenienza; giustificato quindi l’interesse per questi canti da parte di Associazioni culturali austriache (Verein), dove il Coro trova subito modo di cimentarsi. La direzione è affidata per 17 anni consecutivi a don Guido Manfredo, allora parroco di Sauris; a lui subentra nel 1992 il maestro Mauro Vidoni fino al 2002 anno in cui la direzione è affidata al M.° Mario De Colle». (https://www.bandacastions.it/it/coro-zahre). Altre informazioni sul coro si trovano in: https://www.sauris-zahre.org/coro-zahre/).

(23) Può darsi che detta bolletta rigonfiasse un po’ la tasca, e coloro che avevano fermato i due avessero pensato che poteva essere un’arma.

(24) Cfr. pure quanto detto da Bruno Cacitti in: “Uomini che scrissero la storia della democrazia: Bruno Cacitti, Lena, osovano. Perché resti memoria”, in: nonsolocarnia.info.

L’immagine che accompagna l’articolo è quella integrale di casa Plozzer, (avevo, in altro articolo, pubblicato un particolare) con i fienili a lato, prima che Sebastiana Tonutti, friulana, e suo marito Giorgio Plozzer, che fu anche sindaco di Sauris, rimasti unici proprietari avendo vinto una causa contro mio nonno, dopo il terremoto del 1976 la facessero modificare. Ora, da che so, è un bred and breakfast di proprietà privata, avendola Sebastiana Tonutti venduta. Però Lucia Protto mi dice che sono in errore e che all’ interno della casa sono stati ricavati più appartamentini. Nella casa si trovava pure la ricca biblioteca di Mons. Giorgio Plozzer, ma avendo chiesto mia madre a suo cugino Giorgio, figlio di Heppe, che fine avesse fatto, non ha ricevuto risposta alcuna, pur essendo ambedue decisamente anziani. E Giorgio morirà poco dopo. E se vi è qualche informazione che non è corretta, in queste ultime righe relative a casa Plozzer, dove, lateralmente, mi ricordo che c’era pure un secchiaio in pietra esterno, per cortesia avvisatemi.

Vietata la riproduzione anche parziale senza citare la fonte cioè : www.nonsolocarnia.info, Laura Matelda Puppini. Vietata la riproduzione di immagini dall’archivio Emidio Plozzer e le interviste da me e mio marito fatte e da me trascritte e qui pubblicate per uso commerciale e propagandistico di privati. 

Laura Matelda Puppini

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