Cosa metterò per la giornata del ricordo sul mio sito? – mi chiedo.

Io infatti non sono un’esperta in confine orientale, anche se ne conosco la storia dopo la fine di Venezia e dell’Impero austroungarico, e sull’argomento oggetto della giornata del ricordo sinora ho sentito versioni più politicamente connotate che storicamente impostate.

Come poi non rammentare Matteo Salvini, che non credo proprio essere uno storico, che parlava il 28 febbraio 2015 a Roma sulle foibe, sulla personalissima visione di fatti storici sua e delle destre neofasciste, che però da taluni viene riproposta anche in occasione della giornata del ricordo, e non pensare che i fatti resistenziali e quelli del confine orientale non siano attualmente soggetti ad uso politico? (Cfr. nel merito: Laura Matelda Puppini, Sull’uso politico della storia, in: www.nonsolocarnia.info).

E l’uso politico della storia non era sfuggito neppure al nostro grande Pier Paolo Pasolini, che pur nel profondo dolore per la perdita del suo unico fratello Guido, ucciso da Giacca ed i suoi a Bosco Romagno, dopo aver ascoltato nel 1948 i discorsi commemorativi per la strage detta di Porzûs, si sentiva di scrivere che essi davano «un’interpretazione interessata, ossia necessitata dal gioco dei partiti». (Pier Paolo Pasolini, 1948: Sull’uso politico di Porzûs, su cui “nulla è ancora chiarito e risolto”,  in: www.nonsolocarnia.info, 29 aprile 2015). 

Inoltre ogni volta, nello scrivere delle violenze, uccisioni, internamenti definiti genericamente “foibe”, cioè dei fatti causati dalla guerra e da nazismo e fascismo in primo luogo, accaduti fra 25 luglio e 8 settembre 1943 in Istria, da parte di partigiani e forse civili, ed a fine guerra al confine orientale, questa volta per mano dell’Esercito di Liberazione Jugoslavo, una paura mi pervade, perché qui, in Fvg ed in Italia, a fronte di alcuni che cercano di ricostruire eventi e fatti in modo scientifico e contestualizzandoli, pare ci siano gruppi di cattolici dalmato- giuliani, con le fiaccole in mano e il pezzo di legno per la pira, pronti ad accenderla, si fa per dire, se non si sposa la loro versione dei fatti, che sembra proprio molto politicamente connotata. Tanto politicamente connotata che accanto all’immagine di Cristicchi, in un servizio di RaiUno sulla prima di Magazzino 18 a Trieste,  veniva posta l’immagine della bandiera dell’Istria, simbolo di alcuni precisi movimenti politici, probabilmente mostrata in sala, e si sa che lo spettacolo si era svolto mentre il pubblico cantava l’inno italiano, ma forse, più verosimilmente, “Va pensiero”, che non è “Fratelli d’Italia” (le fonti sono discordanti). (Immagine presente nel 2014 in sito ANVGD. Cfr. nel merito: Marco Barone, Se nazionalisti italiani ed indipendentisti triestini rivendicano l’Istria, in: http://www.agoravox.it/, 15 settembre 2014, Andrea Giovannini su www.triesteprima.it 22 ottobre 2013,in: http://www.anvgd.it/comitato-trieste/16244-qmagazzino-18q-di-cristicchi-trionfa-a-trieste.html).

La psicologia ed il giornalismo, in particolare quello da rotocalco, sanno che l’emozione è aspetto importante per coinvolgere, per far immedesimare, ma con l’emozione si crea memoria soggettiva emotiva non storia basata su una rigorosa descrizione degli eventi.

Cristicchi, con Magazzino 18, ha creato un’operazione emotivamente riuscita, ma non di spessore storico, perché narra a senso unico. E se certi fatti, sull’onda emotiva di uno spettacolo, vengono amplificati, come accade per la natura stessa di un’opera artistica, altri sono dimenticati. E ciò che si dimentica è quanto accaduto nello stesso territorio, agli sloveni e croati, anche ma non solo a causa degli italiani, (Cfr. per esempio Teodoro Sala, gli slavi del Sud, irsml, 2008, e AA.VV. Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera, 3a ed., Aned Trieste, 1978, Elio Apih, Fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, 1918-1943, Laterza 1966, tanto per citare solo alcuni titoli che mi vengono in mente) e ciò che fecero gli italiani agli slavi, dopo aver invaso il legittimo Regno di Re Pietro al fianco dei nazisti. Anche questo dovrebbe venir narrato nella giornata del ricordo. E credetemi, non ci si sentirebbe, nello specifico, molto orgogliosi della nostra nazionalità.

«Vi sono particolari che fanno inorridire» – scriveva il vescovo di Trieste, Antonio Santin, al sottosegretario agli Interni Buffalini Guidi- riferendosi alle azioni dell’Ispettorato Speciale, prima dell’8 settembre 1943. (AA.VV., Dallo squadrismo fascista, op. cit., p. 76). Ed il riferimento era anche all’uso di bestiali torture alle donne, magari pure incinte, ed agli uomini, in un crescendo di orrore, il cui racconto neppure il prelato poteva più sopportare, ed alla distruzione di paesi slavi interi, da parte di italianissimi fascisti. Poi invece, a Trieste, dominò ancora una volta l’Ispettorato con la banda Collotti.

Già la Slovenia aveva subito chiusure di scuole, italianizzazione dei cognomi, distruzione del tessuto sociale, devastazione delle istituzioni culturali, prima dell’invasione del Regno di Jugoslavia da parte nostra al fianco dei nazisti, poi non fu certo storia migliore, mentre Francesco Giunta, squadrista triestino, si appellava, per le sue azioni, al luminoso passato di Trieste. (Ivi, p. 73). Migliaia di sloveni e croati finirono nei campi di concentramento italiani, paesi vennero bruciati, civili uccisi, prima e dopo l’8 settembre 1943. E come non ricordare Podhum, con 108 civili trucidati nel 1942 ed il paese distrutto dai nazifascisti, come non ricordare i 7 villaggi distrutti nei pressi di Villa del Nevoso, sempre nello stesso anno, come non ricordare la distruzione di Lipa, in Istria, il 30 aprile 1944, con il massacro di oltre 269 civili, fra cui 3 bimbe di neanche un anno, e nella casa del vecchio Ivan Celigoi i suoi nipotini tagliati a pezzi? (Ivi, p. 74 e pp. 94-96 e http://www.memoriaeimpegno.org/storia-e-memoria/2d-guerra-mondiale/rappresaglie-nazi-fasciste/50-la-strage-di-lipa, e altri siti).

D’ altro lato chi non potrebbe sentirsi emotivamente vicino a M. M. quando racconta, ancora quasi con le lacrime agli occhi, che suo padre, guardia di finanza, (i finanzieri vennero in Ozak utilizzati anche nella repressione partigiana, come precisa Luciano Luciani, nel suo: “Gli avvenimenti alla frontiera nord-orientale: l’Alpenvorland e l’AdriatischesKüstenland (1943-45)” in: Rivista della Guardia di Finanza  2/2004, p.640) partì un giorno, a fine guerra, per servizio e non ritornò più, lasciandolo orfano, e si diceva che fosse stato ucciso dai “titini”: il dolore di un figlio è sempre comprensibile, come il suo risentimento. Ma vi furono anche padri partigiani che non tornarono più, e ritengo che molti sacerdoti dettero a madri, spose, sorelle, versioni edulcorate sulla morte dei loro parenti torturati, massacrati, umiliati dai nazifascisti e dai cosacchi. E poco importa se erano madri, sorelle o spose di nazionalità italiana o slava: bisognerebbe pensare che la pietas cristiana è defunta, e che la chiesa cattolica ha fallito il suo compito, come l’umanità, se il condividere il dolore di una persona fosse nazionalisticamente connotato.  

E chi  non potrebbe capire G. B. quando racconta la fuga della sua famiglia da Montona, nel 1943, come gliela narrava sua madre, con la paura in corpo ed un bimbo piccolo in braccio? Non so perché non si dovrebbe capire, non so perché non si dovrebbe comprendere. Ma molte madri dell’Ozak e non solo, dovettero fuggire, se ci riuscirono, anche da paesi dati alle fiamme con il terrore negli occhi, e bambini in braccio.

Ancora madri e bimbi fuggono da paesi martoriati come la Siria.  

Non so perché, invece, l’assessore alla cultura del comune di Tolmezzo, che nulla ha programmato nella specifica giornata del 27 gennaio 2017 per la popolazione non scolastica, che io sappia, abbia poi fatto tappezzare Tolmezzo di manifesti con frasi direi truculente, dal narratore Sgorlon, che non fa lo storico, e che non portano ad una visione storica degli eventi, ma ad una visione tra melodramma e noir, per illustrare il documentario “Il tempo e la storia. Le Foibe” che verrà presentato a Tolmezzo al Museo Carnico da Luciano Santin giornalista, su cui nulla so. Le parole sono le seguenti: «La foiba faceva sempre pensare al sangue, all’ossario, alla macelleria, al lancio dei vivi e dei morti nell’abisso. Negli inghiottitoi si buttava la roba che si voleva eliminare, togliere per sempre dalla vista, e magari anche dalla memoria». (La foiba grande, Carlo Sgorlon). La giornata del ricordo non è stata creata dallo Stato per sponsorizzare versioni letterarie e frasi ad effetto, ma per soffermarsi su dolorosi aspetti storici, per cercare la verità su un dopoguerra difficile, in una zona difficile, tanto difficile che furono create, con gli accordi del 9 giugno 1945, 2 zone: quella A sotto un governo militare anglo-americano, e quella B, sotto un governo militare jugoslavo, in attesa delle decisioni del Trattato di pace di Parigi. (Raoul Pupo, Il lungo esodo, Rizzoli ed., 2005, cartina in facciata 4 – cartine allegate, pagine non numerate). E non me ne voglia l’assessore per queste righe.

Pertanto, non avendo approfondito l’argomento, mi limito a quanto di storico ho letto, conoscendo le mie carenze, sul volume: Zdenko Cepic, Damijan Guštin, Nevenka Troha, La Slovenia durante la seconda guerra mondiale, ifsml, 2013, pp. 374-375:
«La fine della guerra significò […] anche una resa dei conti e fu un periodo di vendette contro il nemico sconfitto. (…). Si sa che l’Esercito jugoslavo e i suoi servizi di sicurezza eseguirono le cosiddette operazioni di pulizia, comprendenti anche le uccisioni dei collaborazionisti catturati, nelle zone già liberate prima ed in Bosnia ed in Croazia. Si conservano però anche documenti in cui si ordina di consegnare i prigionieri di guerra alle truppe di retrovia e avviarli verso l’interno del paese. Ciò valse in particolare per i tedeschi catturati […]. Si trattò di circa 175.000 fra soldati e ufficiali.

Vi furono in Jugoslavia, a guerra finita, anche molti prigionieri di guerra italiani. Si trattava di militari delle varie armi, arrestati nel maggio 1945 nel territorio della Venezia Giulia, o anche di militari, questi erano molti di più, che erano stati ancor prima prigionieri dei tedeschi. Tutti furono considerati soldati dell’esercito che fu, fino al settembre 1943, forza occupante in Jugoslavia ed erano pertanto tenuti a collaborare alla ricostruzione del paese, cui avevano causato ingenti danni. Furono peraltro liberati, con frequenza più o meno intensa e senza interruzione, per cui il loro numero continuava a cambiare. Alla fine della guerra ammontava a circa 50.000 il numero di coloro che erano stati militari dell’esercito di occupazione. Dopo alcuni mesi ne ritornarono 35.000, ma erano questi in maggioranza soldati italiani che dopo l’armistizio si erano aggregati ai partigiani jugoslavi. Dei prigionieri “veri”, i primi a ritornare furono gli ammalati ed i feriti.

In base ai dati forniti dalle autorità jugoslave alla Croce rossa internazionale, in Jugoslavia c’erano, nell’ottobre 1945, 17.000 prigionieri di guerra italiani, nel gennaio 1946 ancora 12.000, nel febbraio 1947 si erano ridotti a mille, che furono quasi tutti liberati entro il settembre dello stesso anno.
Nel gennaio 1946 la Croce rossa internazionale diffuse un elenco di italiani prigionieri di guerra o incarcerati in Jugoslavia che comprendeva complessivamente 9.892 nomi. Le condizioni dei campi per prigionieri di guerra furono nei primi mesi disperate e ciò causò la morte di molti di essi. Le ragioni stavano nel gran numero di prigionieri, nella penuria di cibo in tutto il paese e nella sua scarsa distribuzione, nelle condizioni igieniche e abitative precarie e anche nella crudeltà di alcuni militari di guardia. In particolare furono pessime le condizioni del campo di Borovnica, vicino a Lubiana in cui era rinchiusa la gran parte dei prigionieri di guerra italiani catturati nella Venezia Giulia. Il 21 giugno 1945 Boris Kraigher chiese che la situazione a Borovnica fosse sanata. Le autorità intervennero e le condizioni mutarono. Il 21 ottobre 1945 erano rinchiusi a Borovnica soltanto 352 prigionieri».
Relativamente al goriziano ed alla zona triestina, poi, così si legge a p. 381: «Rispetto al problema di quale atteggiamento avere nei confronti delle persone coinvolte nel regime fascista e di occupazione o presunte tali, il gruppo dirigente comunista centrale richiese all’amministrazione militare jugoslava nella Venezia Giulia di “Iniziare subito a ripulire, ma non su basi nazionali, bensì in base al fascismo” (Dispacci del CCdel Pcs a B. Kraigher, 30.4. 1945 e 1.5.1945).
Gli arresti furono massicci tra il 2 e l’8 maggio 1945 e furono eseguiti sulla base di elenchi preparati già durante la guerra che venivano costantemente aggiornati. Chi fu trattenuto nelle carceri, e in parte anche chi fu fucilato nei giorni successivi, era stato prima interrogato nelle sedi della Difesa popolare o dell’OZNA.
Gli arrestati facenti parte di unità militari furono inviati in campi per prigionieri di guerra, fatta eccezione per quelli che vennero fucilati nei giorni immediatamente successivi all’arresto ovvero per quelli che furono sospettati di crimini di guerra e di collaborazionismo con le truppe occupanti. Questi ultimi, assieme ai civili arrestati, furono consegnati all’OZNA e trattati come prigionieri politici, con l’esclusione di quelli che furono incolpati di delitti di competenza delle corti militari».  Mancano i numeri degli arrestati, ma si sa che gli arresti furono molto maggiori a Gorizia rispetto a Trieste, e molti arrestati furono poi liberati nel giro di pochi giorni o settimane, mentre altri furono inviati in campi di raccolta nel Litorale sloveno, e da qui in Jugoslavia o uccisi. Il maggior numero di esecuzioni si pensa sia stato eseguito fra il 2 ed il 15 maggio 1945.

«In base alle testimonianze- continuano gli autori, tutti tre ricercatori dell’Istituto di storia contemporanea di Lubiana, – e considerando le procedure per le esecuzioni di massa nel resto della Slovenia, si deduce che la gente fu prima fucilata e soltanto dopo gettata nelle grotte carsiche, foibe, o in pozzi di miniere abbandonate». (Ivi), Ma non si può escludere del tutto, anzi è probabile, che qualche fucilato sia stato gettato nelle fosse ancora vivo. Furono fucilati i sospettati di crimini di guerra e collaborazionismo, ed in genere i processi vennero condotti dalla Corte Marziale dalla 4a Armata Jugoslava. (Ivi).

Nei campi e nelle prigioni, accanto agli italiani si trovavano anche tedeschi, sloveni, croati, serbi, cosacchi, ed altri. (Ivi, p. 382). Per quanto riguarda gli italiani, «le ricerche finora eseguite consentono di stabilire con sufficiente esattezza i dati riguardanti gli arrestati scomparsi che avevano, nel 1940, la loro residenza nelle province di Trieste e Gorizia. Si tratta di 1.500 persone, o poco più. 

Gli arresti, le deportazioni e le uccisioni riguardarono persone molto diverse. Il loro denominatore comune non era la volontà di eliminare gli italiani come nazione, come spesso il problema veniva rappresentato dalla propaganda di parte italiana, ma il desiderio di punire i crimini fascisti e in parte anche di eliminare chi non considerava l’Esercito jugoslavo un esercito liberatore. Tra gli arrestati e gli uccisi la maggioranza era in qualche modo legata al fascismo e alla collaborazione con l’occupatore nazista. Tra loro c’erano molti appartenenti a formazioni militari, paramilitari o di polizia che rappresentavano simbolicamente il potere dello stato fascista. Molti fra costoro non meritavano la morte, nemmeno secondo i rigorosi criteri dell’epoca». (Ibid.).

Gli arresti, le deportazioni, e le uccisioni, nella Venezia Giulia occupata, furono opera delle autorità jugoslave. Essi avvennero «in tempi di euforia per la vittoria e di vendetta per tutto il male subito, specie per gli uccisi e per i caduti nei combattimenti conclusivi per la Liberazione di Trieste e della Venezia Giulia». (Ivi, pp. 381-382).  Fu il tempo del tramonto e della fine dell’ ideologia della razza eletta, e del sorgere del socialismo … Anche in altre parti di Europa ebbero luogo esecuzioni di collaborazionisti, a volte solo presunti, ma nella Venezia Giulia parvero, almeno agli occhi delle vittime, come una resa dei conti, di un popolo sull’altro. (Ivi, p. 383).

Non quindi questione di confine o odio razziale, ma altro.

Infine, invito a leggere alcune considerazioni nel merito sul mio: “Non avrei scritto queste righe se non avessi letto il titolo dell’articolo di Maurizio Cescon, Vergarolla 1946 …”, in: www.nonsolocarnia.info, 20 agosto 2016, ed a leggere, per i suoi interessanti contenuti, online, in: http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Le-foibe-nella-rappresentazione-pubblica-158888, la recensione di Gorazd Bajic insegnante  all’Università di Maribor e ricercatore presso l’Istituto di Umanistica della Nova revija a Lubiana, intitolata: “Una ricerca basata su fonti in diverse lingue e una buona dose di coraggio intellettuale” al volume di Federico Tenca Montini: “Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi”, considerato testo di spessore, e da predere sicuramente in considerazione.  

 

Senza voler offendere alcuno, e senza presunzione di verità, ma per esplicitare il mio pensiero e le mie conoscenze, e per continuare un  dibattito, ma soprattutto per non  dimenticare gli orrori delle guerre, e gli strascichi che comportano, ho scritto queste righe.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda questo articolo ritrae il Memorial di Lipa, ed è tratta, solo per questo uso, da: http://www.rigocamerano.it/spdecleva1.htm. L’immagine posta al centro dell’ articolo, ricorda, pure, la strage di Lipa, ed è tratta da: http://anpimirano.it/2013/30-aprile-1944-strage-di-lipa-fiume/. Laura Matelda Puppini

 

 

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