Si fa un gran parlare, in questo periodo, della lingua friulana, ed è lodevole, per carità, anche se sono anni che la battaglia per portarla nei luoghi pubblici va avanti, ad incominciare dalle scuole.

Non voglio inimicarmi tutti gli amici friulanisti e friulanofoni, dicendo che, nel 2021 ma anche prima, preferivo che i ragazzi a scuola imparassero inglese, tedesco, francese o spagnolo, semplicemente perché sono lingue che permettono una comunicazione aperta al mondo, non una da cerchio ristretto. Vi ricordate quando l’attuale sindaco di Udine, Pietro Fontanini, parlava di zone per parlanti friulano divise dal resto della città di Udine? Ma vi pare una cosa seria? Ma questa è altra storia.

Ma quale friulano vogliamo salvare, mi chiedo io? Come già scrissi il friulano standard non esiste se non come convenzione, e vi sono più parlate che a detta lingua fanno capo, con termini maggiormente veneti o tedeschi a seconda della zona (vedasi patatas o cartufulas per esempio). Io so che molti giovani usavano, qualche anno fa, il “loro” friulano per scambiarsi messaggi con il cellulare, e che lo parlavano fra di loro marcando la specificità della parlata. Ma francamente non so, ora come ora, a cosa serva insegnarne i rudimenti a tutti. Preferirei che quel denaro venisse speso per salvare la terminologia legata ad esperienze lavorative e territoriali appartenenti al passato ed a memorizzare le parlate locali con le loro cadenze. Costruiamo una “banca della memoria” prima di tutto.

Ed i bambini cosa impareranno? Secondo me una lingua straniera il cui uso è diffuso o utile in zona, come ho già scritto, ricordando che, all’estero, nessuno o quasi capisce o parla italiano. Inoltre, dalla mia esperienza, molti giovani non leggono nulla e fanno fatica a comprendere anche testi minimi. Quindi io credo che un buon programma di ascolto, di lettura e comprensione della lingua italiana non farebbe male ai ragazzi e forse neppure agli adulti, e lo dico a ragion veduta non per fare polemica. E per questo avevo approntato, con successo, quando lavoravo presso l’isis ‘F. Solari’ di Tolmezzo, il “Progetto lettura” il cui motto era: “To lu libri!” – “Prendi il libro”, che ebbe successo tra gli allievi.

Questo solo per dirvi che io, che amo le varianti del friulano/carnico nella loro ricchezza e varietà espositiva anche di vissuti ed ambienti ormai forse obsoleti, ed esperienziali che potrebbero, magari, in un futuro, ritornare in auge per risolvere qualche problema per cui la tecnologia latita, io che ho letto pure i virtuosismi di Pasolini nel friulano di Casarsa, non so francamente a cosa serva insegnare friulano a scuola, o meglio nella scuola dell’obbligo. Può servire per fare qualche ricerca di storia e tradizioni locali o sull’ambiente, ma non ho visto, in questi anni, molto di più. Questo naturalmente è importante ma non è insegnamento della lingua friulana. Io, quindi, opto per una lingua straniera nella scuola dell’obbligo e per una banca della memoria, oltre che per progetti di lettura e comprensione della lingua italiana pure per adulti, per debellare l’analfabetismo di ritorno. Naturalmente ritengo importante lo studio dell’ambiente, della storia locale, di usi e costumi, magari con ampia contestualizzazione. Secondo me un vero recupero della memoria e del parlato che era poi trasmissione orale di cultura non scritta, non può passare attraverso le scuole perché ci vogliono mezzi e preparazione specifica.

Per quanto riguarda invece la soluzione di problemi pratici come un tempo, mi ricordo di aver sentito alla tv che alcune frazioni di Amatrice, almeno così mi pare, e alcuni casolari di quel comune, per giorni rimasero isolati perché non si sapeva come raggiungerli. L’elicottero non aveva uno spazio dove atterrare, le macerie avevano riempito parte delle stradine o sentieri, peraltro molto stretti, che portavano in quei luoghi cosicché una jeep non ce l’avrebbe fatta, ed io pensai che forse un mulo od un asino sarebbero passati dove il mezzo meccanico non ce la faceva, ma a nessuno passò per l’anticamera del cervello di fare così.   

E non sapete quanta difficoltà ho fatto certe volte a tradurre parlate friulane a causa dei dizionari online che servono ben poco! Perché sono troppo codificati, troppo appiattiti, non portano esempi di costruzione della frase, e chi li ha approntati pensa che basti conoscere la scrittura formalizzata di una parola, (quando è riportata in modo corretto, perché non si può leggere gucjâ per sferruzzare, invece che gugiâ! come in https://arlef.it/it/grande-dizionario-bilingue-italiano-friulano/?word=sferruzzare&trad=ttf) per conoscere il friulano. E a me pare che il miglior dizionario esistente sia ancora il Pirona.

Inoltre in Carnia si parlava il friulano con la ‘o’ in paesi della Val Degano, quello con la ‘a’, e quello con la ‘e’ in altri, con termini, cadenze, costruzioni diverse.  
Questo è un esempio, non so quanto puro, di parlata rigoladotta, dall’intervista ad Emma Pellegrina.

Emma.  

«Sicchè turnin a lu fen. I levin, quant chi vevin fat lu fasç, iu, as siet. A sis e mieço siet a si ero cu lu fasç di fen a çjaso. (…). A viaç, a erin vincecinc centesims, e lu franc a no rivavo in dut lu dì. (…). E cun (t) un franc a si compravo ben pouc. E par comprâ un fazolet di cjâf di lano, tu lu cjapavos par doi francs».

Sicchè ritorniamo al fieno. Scendevamo (dalla montagna), quando avevamo fatto il fascio del fieno, e alle 6 e mezzo sette, eravamo con il fascio a casa. (…). (Ci pagavano) 25 centesimi al viaggio e non si riusciva a guadagnare una lira neppure se si lavorava tutto il giorno. (…). E con una lira si comperava ben poco. E per comperare un fazzoletto di lana da mettere sul capo, dovevi spendere due lire.

«Io i hai fato la quarto elementar, ma la quinto, iu esams no iu hai poduz fâ. I hai dovut stâ a cjaso a iudâ me mari»
Io ho frequentato sino alla quarta elementare, ma non ho potuto fare gli esami di quinta. Ho dovuto stare a casa, ad aiutare mia madre.

Giorgio Ferigo.

Vediamo invece un esempio di parlata comeglianotta da Ferigo Comeglians.

«A riva la coriera, che da siet, ca discjama i pendolârs, l’animazion a emplîa ciafs e plaza e po’ a si studa dentri un bar. E a si spant il scampanot pal pardon dal Rosari par qualchi sant dismenteât, un berli al clama da lontàn a cena un frut ritardatari». (Sabida di sera).

«E giunge la corriera, quella delle sette di sera, che scarica i pendolari, e l’animazione riempie le teste e la piazza per poi spegnersi dentro un bar. E si spande intorno lo scampanio del perdono del rosario per qualche santo dimenticato, mentre un urlo materno da lontano chiama a cena un bambino attardatosi fuori casa».   

Per vivere il quadretto serale che ci narra Giorgio Ferigo non possiamo però essere esenti dal conoscere la vita nei paesi carnici e anche friulani negli anni ’50, che riporta ancora a retaggi non attuali, di cui rischiamo di perdere il significato.

Inoltre talvolta traduzioni che si trovano in rete non corrispondono ai concetti espressi in friulano: per esempio ‘par un plat di frecions’ significa per un piatto di briciole non di lenticchie, “il lor ridi rufian” vuol dire proprio il loro riso da ruffiane, non il loro riso ipocrita, i ‘sorestanz’ è difficile da tradurre e comunque ‘i pezzi grossi’ non rende l’idea di comando e potere di chi ‘sta sopra’, e si contrappone ai ‘sotans’ i sottomessi, che stanno sotto, delineando un tipo preciso di società e di rapporto di potere. E questo per parlare solo della traduzione della canzone ‘Ve Comeglians’, di Giorgio Ferigo. Inoltre in ‘Adelina’ sempre di Ferigo, ‘Una parusula in tal cil’ gioca sul doppio senso della parola ‘parusula’, non codificato dal vocabolario ma di uso comune.

E così Leo Zanier:  

«A chei ch’a no tornaran plui / parc’ch’a son muarz / a chei ch’a no tornaran plui / e ch’a son vîs / A chei ch’a son tornâz / par murî /  o par tornâ a partî / a chei ch’a stan partint vuê/ e a  chei che incjmò no san lei /o ch’a sgjambirîn / ta panza di lôr mari/ch’a nassaran già vuàrfins/di pari/ e lu saran dîs mês ad an/ fint ch’a varan avonda ans/ par dâj il cambio/par continuâ una orenda/ tradizion/ una strazzaria di afiez/ un cori cence radîs/ un lavorâ cence intarès/ un vegnî vecjus/ cence speranza/ a gno pâri/ ch’al à puartât/ fat e disfat valîs/ sot duc’ i cìi/ fint che la so fuarza era plui granda/ dal pês da valîs […]».

A quelli che non ritorneranno più, perchè sono morti, a quelli che non ritorneranno più E che sono vivi ed a quelli che sono rientrati solo per morire qui o per ritornare a partire, A quelli che stanno partendo oggi. A quelli che non sanno ancora leggere o che sgambettano nel grembo della madre, che nasceranno già orfani di padre e lo saranno per 10 mesi all’anno finché non avranno tanti anni da prendere il loro posto, da continuare l’orrenda tradizione (dell’emigrazione): un buttar via affetti, un muoversi senza radici, un lavorare senza interesse alcuno per il lavoro, un diventare vecchi senza speranza. A mio padre che ha portato, fatto e disfatto valige sotto ogni cielo, finché la sua forza era più grande del peso delle valige.

Anche in questo caso bisogna conoscere l’emigrazione stagionale di un tempo per capire bene il significato.

Invece Pasolini, sempre in contesto poetico come Ferigo e Zanier:

«O me donzel! Jo i nas/ta l’odòur che la ploja/a suspira tai pras/di erba viva. I nas/ tal spieli da la roja./ In chel spieli Casarsa/-coma i pras di rosadadi/ timp antic a trima. / Là sot, i vif di dòul,/ lontan frut peciadòur,/ ta un ridi scunfurtàt./ O me donzel, serena/ la sera a tens la ombrina/ tai vecius murs: tal seil/ la lus a imbarlumis/».

«O me giovinetto! / nasco nell’odore che la pioggia/ sospira dai prati/ di erba viva .. Io nasco/ Nasco nello specchio della roggia. / In quello specchio Casarsa/ -come i prati di rugiada/ trema di tempo antico./ Là sotto io vivo di pietà,/ lontano fanciullo peccatore,/ in un riso sconsolato./ O me giovinetto, serena/ la sera tinge l’ombra/  sui vecchi muri: in cielo/ la luce accesa».

Esiste una voce di wikipedia dedicata al ‘friulano carnico’ che riporta quanto scritto da Giovanni Frau, differenziando: il carnico comune o centro-orientale, parlato nell’Alto Tagliamento da Amaro ad Ampezzo, nella valle del But, in val Chiarsò;  il gortano o carnico nord-occidentale in uso nel canale di Gorto (esclusa la bassa valle) e nella parte alta della val Pesarina; il fornese o carnico sud-occidentale, limitato ai soli comuni di Forni di Sotto e Forni di Sopra. Successivamente è stata riconosciuta una ulteriore parlata, propria della bassa Val Pesarina e del comune di Ravascletto. Ma quando ero piccola ed anche Romano Marchetti dividevano le parlate in quelle con la ‘o’, quelle con la ‘a’ e quelle con la ‘e’. Inoltre a Tolmezzo si parlava con la ‘z’, e a Cavazzo Carnico, se non erro ma chiedo conferma, con la ‘a’. Perchè Giovanni Frau si è dimenticato di detto comune. Non da ultimo, nella versione di Rigolato con la ‘o’, le vocali tendono ad essere strette, e più si passa al friulano ‘venetizzato’ e con la ‘a’, più si allargano. Infine in Val Canale non si parlava un tempo solo friulano ma dialetti relativi al tipo di popolazione ivi residente, e quindi tedesco o sloveno, veneto o forse friulano venetizzato, ma bisognerebbe chiarire questo aspetto, o reseano.

E sempre secondo: “https://it.wikipedia.org/wiki/Friulano_carnico” «Le parlate carniche sono considerate i tipi friulani più “puri”. Si caratterizzano per una forte conservatività delle consonanti, mentre per le vocali sono più innovative grazie alla presenza di caratteristici dittonghi primari e secondari che sono assenti nelle varietà di pianura». 

Con queste mie considerazioni voglio solo dire la mia su questo revival della richiesta di parlare friulano (quale?) nella scuola in un mondo globalizzato, senza tener conto del fatto che ormai la popolazione qui è mista, e molti sono i meridionali e persone provenienti da altre regioni e stati. Con questo però non intendo dire di buttare il friulano alle ortiche, anzi, di salvarlo ma salvare anche la cultura di cui è espressione, e le costruzioni della frase. E con questo vorrei solo dire la mia, senza offesa per alcuno, ma anche per riflettere sull’argomento, non essendone una vera esperta cioè una linguista.

Laura Matelda Puppini  

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta una mappa delle lingue popolari parlate in Friuli Venezia Giulia, ed è siglata: https://www.dom.it/vp-content/uploads/lingue.jpg. L. M.P.

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