Ho assistito sabato 16 gennaio al convegno organizzato dall’Anpi nazionale a Milano sul confine orientale, cui ha partecipato una folta rappresentanza di nostri storici regionali. Non sono purtroppo riuscito per ragioni di trasporti ad assistere a tutta la tavola rotonda che si svolgeva nel pomeriggio, mentre ho assistito alle relazioni del mattino. La mia è pertanto una riflessione parziale, che vorrebbe essere utile per sollecitare un dibattito. Sono riuscito ad ascoltare per ultimo Franco Cecotti. Devo dire che non me ne sono pentito. In effetti, a mio giudizio, la prima relazione (Marta Verginella) e l’ultima che ho ascoltato (Franco Cecotti) sono state le migliori, sulle altre mantengo delle perplessità. L’impressione generale in ogni modo è stata che un ascoltatore lombardo (o comunque non friulo – giuliano) che di queste cose giustamente sa poco, alla fine del convegno non abbia risolto i suoi dubbi. “Forse la storia del confine orientale è troppo complessa” ha commentato un ascoltatore vicino a me. Non è vero, ovviamente, tutti i temi senza esclusioni sono complessi e lo storico deve raccontarli in modo comprensibile. In questo senso mi pare che la strategia comunicativa di molti oratori sia stata pessima.

Bene devo dire ha fatto Smuraglia a non prevedere interventi dal pubblico. Molte volte c’è stata una strategia organizzata in particolare dalle destre per trasformare i convegni su questi temi in risse becere. Positivo anche il fatto che ogni studioso rappresentasse se stesso e non una determinata tendenza o associazione, di fronte alle immancabili contestazioni di una associazione di esuli perché non erano presenti “suoi” relatori.

Verginella ha volato forse un po’ troppo alto, ma il suo discorso è assolutamente condivisibile. Ha criticato lo stesso titolo del convegno perché nazionalista ed escludente: il confine è orientale italiano, ma anche occidentale sloveno, meglio era parlare di confine italo-sloveno (o jugoslavo). La sua critica ai limiti delle storiografie prettamente nazionali, o al “piano memoriale” attuale che privilegia vittime e testimoni invece di ricerca e documenti sono a mio giudizio corrette.

Cecotti è invece andato sul concreto. Sui media si parla di foibe ed esodo almeno da 15-20 anni – ha affermato – perché allora c’è qualcuno ancora oggi (e talvolta si tratta di insegnanti) che pensa si parli di argomenti sconosciuti? Da 15-20 anni i media ospitano periodicamente articoli su questi temi, ed ogni volta i giornalisti devono scrivere che si tratta di temi di cui non si è in precedenza mai parlato. In un momento in cui il mondo si globalizza e si parla di storia mondiale, in realtà si sta affermando una storia nazionale, o meglio in questo caso una storia regionale (della Venezia Giulia) che si vuole far passare come simbolo e compendio di quella mondiale. Nell’introdurre la tavola rotonda del pomeriggio, Marcello Flores ricordava giustamente che il giorno della Memoria fa riferimento ad un fatto europeo, la Shoah, quello del Ricordo ad un fatto regionale, che ha interessato Istria e Venezia Giulia. Si tratta pertanto di eventi difficilmente paragonabili.

Anna Vinci ha mostrato le radici lontane, prefasciste, del nazionalismo italiano e del pregiudizio della superiorità della cultura latina su quella slava. Ha anche trattato la complessità della repressione fascista, il disaccordo tra le varie istituzioni repressive che controllavano il territorio. Forse dal suo discorso sono rimaste fuori proprio le violenze fasciste. Ha parlato di scuole slovene chiuse, ma vi sono state anche le associazioni culturali (150 solo nel goriziano) e altrettante economiche chiuse a forza, i beni requisiti, le italianizzazioni dei cognomi di cui non ricordo abbia parlato, il divieto nell’uso pubblico della lingua, i morti ammazzati. Forse la Vinci li ha dati per scontati, ma per il pubblico presente non lo erano. Mi è invece piaciuta l’indicazione di estendere la ricerca sulle biografie dei responsabili della politica repressiva anche agli anni del secondo dopoguerra, quando tali personaggi non erano certo scomparsi. E il parallelo (che però riguarda una ricerca ancora da fare) tra Ispettorati creati in Sicilia e Sardegna per la lotta contro la mafia e quello della Venezia Giulia contro sovversivi e sloveni (a questo proposito Vinci avrebbe potuto però accennare al fatto che Gaetano Collotti, uno dei membri dell’Ispettorato più accaniti torturatori e cacciatori di partigiani a Trieste, è stato decorato dall’Italia repubblicana dopo la guerra per i meriti acquisiti nella lotta alla mafia).

Buvoli ha molto insistito sullo scontro tra Partito Comunista Italiano e Sloveno (o Jugoslavo) durante la Resistenza. Certo, lo scontro c’è stato, era importante che il pubblico lo sapesse. Ma vi è stata anche collaborazione. Perché parlare di annientamento della Resistenza italiana nelle regioni rivendicate dagli sloveni? Il Battaglione poi Brigata Trieste ad esempio ha operato dal 1943 al 1945 nella zona slovena vicino all’attuale confine come formazione italiana con proprie bandiere ed insegne, ed ha riunito nell’estate 1944 oltre duemila combattenti prima che una parte andasse a costituire la Fratelli Fontanot all’interno della Slovenia. Certo, era sottoposta a comando sloveno dopo un breve periodo di Comando paritetico. Anche la Natisone ha operato in Slovenia nell’inverno 1944 – 45, fra moltissime difficoltà pratiche e sotto comando sloveno. Ma tra questo e l’azzeramento c’è una bella distanza. Su questi temi mi pare anche importante fare un passo in avanti. Se avessero vinto non i partigiani comunisti ma i monarchici, appoggiati dalla Gran Bretagna, le cose per il confine orientale italiano sarebbero andate meglio? Credo che in quel caso sarebbe stato molto difficile per la diplomazia italiana evitare l’annessione alla Jugoslavia di Trieste e Gorizia. Perché i comunisti sloveni apparivano così poco internazionalisti ed invece “avidi” territorialmente? La Resistenza comunista ha dovuto fare i conti nei paesi sloveni passati nel primo dopoguerra all’Italia con un ambiente sociale decisamente antifascista e nel contempo decisamente nazionalista, e con le critiche delle forze monarchiche jugoslave che li accusavano di fare il gioco degli italiani in nome dell’internazionalismo. C’era anche, certo, la diffidenza verso l’Italia che si riteneva non stesse facendo veramente i conti con il fascismo. Però credo che sarebbe stato difficile in quel contesto per i comunisti jugoslavi avere una diversa linea politica.

Interessante l’intervento di Gloria Nemec, che ha mostrato il carattere non univoco dell’esodo e la varietà di motivazioni che vi stavano dietro. Ha parlato di comunisti (nazionalisti) sloveni e croati mal disposti in Istria verso gli italiani, e questo intento punitivo è stato una delle cause dell’esodo. anche al di là delle effettive intenzioni di chi lo metteva in atto. Intento non necessariamente condiviso dai vertici di Belgrado, l’esodo infatti ha svuotato l’Istria di forze produttive che sarebbero state utili all’economia jugoslava. Nemec ha parlato di slovenizzazione dei cognomi (o forse erano restituiti alla precedente grafia prima della italianizzazione fascista?) e distruzione del tessuto economico della comunità italiana, quasi una repressione comunista e nazionalista uguale e contraria a quella fascista. Dimentica però l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, il teatro italiano di Fiume, il periodico e la casa editrice italiane. Certo che la pressione sugli italiani vi fu, frutto più di una politica rozza e punitiva che di un disegno pianificato dall’altro, ma pure le differenze con la snazionalizzazione fascista.

Spazzali purtroppo non mi è piaciuto, ha saltato tra vari argomenti dando molti suggerimenti senza fornire un quadro complessivo, augurandosi l’avvio di nuove ricerche che però in parte già ci sono. Perché dire che sarebbe utile fare le biografie delle vittime ma che questo ormai è quasi impossibile, mentre è possibile fare quelle dei carnefici? Esistono molti elenchi e biografie di vittime, che lui conosce, dalle quali si capisce ad esempio che non tutti furono vittime ma che alcuni erano bene inseriti nell’apparato repressivo fascista. Dice che il tema delle foibe è stato taciuto per anni nel dopoguerra perché scottante, ma anche lui evita di toccare argomenti sotto i fari mediatici come la quantificazione delle vittime, il contenuto reale della foiba di Basovizza ecc. Incomprensibile per il pubblico presente la parte dedicata ad Udovisi, che avrebbe protetto la popolazione di Portole dalle violenze naziste (comprensibile per noi, che sappiamo che Udovisi, condannato nel dopoguerra dal Tribunale di Trieste per collaborazionismo ma allora latitante in Italia, si è presentato nei primi anni Duemila su tutti i media come sopravvissuto alla foiba nella quale sarebbe stato gettato risalendo fino al bordo. Racconto che alcuni hanno giudicato improbabile, vedi Pool Vice, La foiba dei miracoli, Kappa Vu 2008). Resta la censura, non solo di Spazzali, sui lavori meticolosi ed a mio parer validi di storiche come Claudia Cernigoi o Alessandra Kersevan, ma a questo purtroppo siamo abituati.

Nel convegno – per quanto mi ricordo – non si è parlato di Porzus, e neppure del controesodo dei tremila monfalconesi in Jugoslavia dopo la guerra. Il presidente dell’Anpi, Smuraglia, si è augurato che l’analisi storica porti a superare le contrapposizioni. Effettivamente è l’unica via, e questo è un tentativo da fare. Ma temo sia un’illusione. Dalle vicende della relazione della commissione storica italo – slovena del 2000, commissionata e poi affossata dai politici, si è capito che la riflessione storica interessa a pochi.

Marco Puppini

Laura Matelda PuppiniSTORIAHo assistito sabato 16 gennaio al convegno organizzato dall'Anpi nazionale a Milano sul confine orientale, cui ha partecipato una folta rappresentanza di nostri storici regionali. Non sono purtroppo riuscito per ragioni di trasporti ad assistere a tutta la tavola rotonda che si svolgeva nel pomeriggio, mentre ho assistito alle...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI