Il Dizionario della Resistenza alla frontiera Alto – Adriatica 1941/1945, curato da Patrick Karlsen, edito dall’istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli – Venezia Giulia, IRSREC FVG e Gaspari Editore, Udine, 2022,  è un lavoro che ha soprattutto l’obiettivo di divulgare conoscenze per superare: “l’ignoranza o peggio l’indifferenza che sembra circondare a più livelli la Resistenza, malgrado le celebrazioni rituali e il progredire delle ricerche” (p.9).

Il curatore, Patrick Karlsen, è autore di alcuni libri importanti su protagonisti del movimento comunista nella Venezia Giulia. Ricordo che assieme a Luca Manenti ha scritto il bel lavoro sui due comunisti giuliani Luigi Frausin e Natale Kolarič uscito alcuni anni fa, di cui consiglio a tutti la lettura per la chiarezza e l’abbondanza di notizie esposte non solo sui due biografati ma anche, ad esempio, sulle differenze strutturali e non solo di opzione confinaria tra la Resistenza italiana e quella jugoslava («Si soffre ma si tace». Luigi Frausin, Natale Kolaric, Comunisti e resistenti, IRSREC, Trieste, 2020).

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Il Dizionario comprende diciotto schede relative ad altrettanti eventi che hanno avuto importanza nelle vicende resistenziali della zona, altre diciotto dedicate ai luoghi, infine settanta voci relative ai/alle protagonisti e protagoniste. L’intento è dare il quadro di una Resistenza originale: “La precocità, la multinazionalità, la radicalità delle opzioni politiche e ideologiche risaltano (…) come le sue peculiarità principali” (p.11). Ed anche illustrare l’impegno femminile nella Resistenza, non a caso quindici voci biografiche sono dedicate a donne, nomi in gran parte conosciuti e che hanno avuto un ruolo di grande importanza nelle vicende resistenziali come Maria Bernetič, Alma Vivoda, Ondina Peteani, Lidija Sentiurc, Virginia Tonelli ed altre. La biografia è strumento utile a mostrare il percorso politico e di vita di ciascuna/o, a ricostruire il passato e le esperienze precedenti di persone che non compaiono certo dal nulla nei mesi della lotta armata. La rassegna dei luoghi e degli eventi può dal canto suo mettere insieme geografia e storia mostrando una mappa dei luoghi rilevanti della Resistenza italo – slovena in questa zona di confine. Mi pare che il lavoro raggiunga i fini divulgativi che si propone, e consiglio senz’altro di leggerlo.

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Mi sento però di fare qualche appunto qua e là, di proporre qualche aggiustamento non con spirito di critica ma nell’intento di essere utile. Soprattutto perché mi pare, nonostante i propositi sopra ricordati, che l’impostazione generale del lavoro sia pur sempre improntata ad una visione nazionalista, sebbene lo spazio dedicato alle vicende della Resistenza jugoslava sia ampio. Mi occuperò in prevalenza delle voci relative alla Resistenza friulana, senza però trascurare alcune questioni più generali. A partire dal problema dei rapporti tra Resistenze italiana e slovena, dove si scrive che “i comandi sloveni si erano dimostrati avversi a tollerare l’attività della guerriglia partigiana italiana nelle zone ritenute di loro esclusiva pertinenza e rivendicate dall’OF, pretendendo che essa si sviluppasse al di là del fiume Tagliamento” (p.47).

È un’affermazione che si trova anche in altri lavori su questi argomenti ma che necessita di essere corretta o almeno precisata. Il Tagliamento è un fiume lungo (170 chilometri) e tortuoso, nasce ai confini tra Carnia e Veneto, corre verso est sfiorando la zona di Gemona e Venzone, poi devia a ovest e scende al confine tra le attuali province di Udine e Pordenone sfociando nel mare dopo Latisana, a ovest di Lignano al confine col Veneto. Davvero la Resistenza slovena pretendeva l’intera zona posta alla sinistra del Tagliamento, come si potrebbe capire da quanto scritto? E’ un informazione che può creare equivoci ed errori. La scheda sul fascismo (pp.22-25) insiste sulla politica di snazionalizzazione ed assimilazione forzata delle minoranze slovene e croate, molto meno sul carattere di classe che nelle fabbriche e nelle campagne giuliane e friulane ha colpito indifferentemente italiani, sloveni, croati. Nella stessa scheda c’è anche un cenno (p.23) al “modello di democrazia liberale” cui l’Italia avrebbe aderito per un breve periodo prima dell’avvento del regime. Penso che ragionare in termini di modelli astratti, e soprattutto inapplicabili all’Italia pre – fascista e al mondo di quegli anni, non aiuti a capire.

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L’autore della voce sulla strage nazista del 2 maggio 1945 nel paese di Avasinis scrive che la versione più accreditata sulle sue cause è che sia stata una  rappresaglia per un’avventata azione partigiana avvenuta il giorno prima sulla statale 13 nelle vicinanze di Gemona, con i partigiani poi ritiratisi in direzione di Avasinis (p.99). È la versione diffusa da persone che hanno passato anni ad accusare i partigiani di tutti i mali possibili, ma non è certo la più accreditata. Facendo riferimento ai numerosi scritti di Pieri Stefanutti sull’argomento, non vi è documentazione dell’attacco partigiano di cui sopra, e certamente la lentezza dell’avanzata tedesca (la sera del 1 si ferma a dormire a Trasaghis) dimostra che non stava inseguendo reparti partigiani in fuga. Un’azione contro una zona che rappresentava “un pericolo per le forze in ritirata”? Forse, ma se la colonna tedesca avesse voluto ritirarsi velocemente e in sicurezza non avrebbe perso tempo per lei prezioso a massacrare civili inermi, ma anche a mangiare, dormire e nascondere sia pure malamente i cadaveri ripartendo solo il giorno 3 maggio.

Le ipotesi accreditate sono altre. Mi limito a ricordare: vendetta preordinata contro la popolazione nel momento della sconfitta per l’appoggio dato nei mesi precedenti alle formazioni partigiane, o strascico forse non pianificato dell’insieme di operazioni militari volte a bloccare momentaneamente gli Alleati sulla linea Gemona – Val del Lago e consentire la ritirata in Austria. Per completezza forse bisognava accennare alle uccisioni di diverse decine di cosacchi e di alcuni soldati tedeschi nei giorni successivi ad opera di giovani partigiani locali sconvolti dalle notizie ricevute, e della popolazione esasperata. Giustamente l’autore scrive che le memorie del fatto “restano articolate e divise” (p. 99), a questo proposito il discorso andrebbe centrato, per tutte le stragi di quegli anni,  sulle modalità soprattutto politiche con cui è avvenuta la trasmissione di quelle memorie, finite nel tritacarne della “tempesta di merda” lanciata nel dopoguerra contro i partigiani.

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Restando al tema delle stragi e dei luoghi: non c’è una voce sulle fosse del Natisone, sulle 113  salme esumate nei pressi di Cividale; si tratta sicuramente di un luogo importante di sepoltura per tanti civili e partigiani italiani e sloveni, in buona parte non ancora identificati, molti dei quali uccisi dai nazisti alloggiati nella caserma Principe di Piemonte. Non c’è una scheda relativa alla strage compiuta dai tedeschi tra Cervignano, Aquileia e Torviscosa fra 28 e 29 aprile 1945. La stessa è però citata nella scheda sull’attività dei GAP (p.72), fatto che contribuisce a mettere in relazione quella strage con le azioni di questi ultimi, anche se la realtà è più complessa. Scrivendo della strage di Torlano del 25 agosto (e non luglio come è erroneamente scritto) 1944 si poteva aggiungere che l’ufficiale tedesco individuato come responsabile non fu mai ricercato e morì nel suo letto perché il fascicolo relativo è rimasto per decenni nascosto nello ”armadio della vergogna” (l’autore della scheda ricorda però giustamente il fascista che faceva parte del gruppo stragista, che fu condannato ad una pena lieve e poi amnistiato, facendola pressoché franca).

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Un Dizionario che presenta una serie di biografie inevitabilmente presta il fianco ad obiezioni relative all’assenza di altre biografie, da alcuni ritenute altrettanto importanti. Questo è presente molto bene allo stesso curatore, che scrive: “La selezione delle voci è frutto di un’operazione inevitabilmente arbitraria, piuttosto che un’impossibile obiettivo di esaustività , si sono privilegiate le nozioni coerenti con l’impianto interpretativo dell’insieme” (p.12). Ha ragione. L’impressione è però che la galleria dei personaggi biografati contribuisca a dare una immagine della Resistenza friulana giocata soprattutto sulle reciproche diffidenze tra Garibaldi ed Osoppo su questioni di confine.

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Sarebbe stato bello leggere le voci relative ad esempio al commissario ed al comandante della brigata unificata Garibaldi – Osoppo Ippolito Nievo A, rispettivamente il comunista Ardito Fornasir, e l’osovano Pietro Maset “Maso”, ufficiale degli Alpini, sostenitore della collaborazione con i garibaldini, caduto in combattimento, medaglia d’oro alla memoria. In ambito comunista friulano, approfitto qui per ricordare il povero Mario Foschiani “Guerra”, perseguitato politico, esule in Francia ed in URSS, combattente in Spagna e poi finito nei campi di concentramento francesi ed a Ventotene, commissario della divisione Garibaldi – Carnia, atrocemente torturato dai tedeschi e fucilato nelle carceri di Udine alla vigilia della Liberazione, medaglia d’argento alla memoria (non biografato nel libro).

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L’estensore della voce su Vinicio Lago annovera tra i suoi meriti il fatto di essere riuscito ad evitare il bombardamento su Palmanova (p.168). Quale? Forse quello chiesto agli Alleati in ottobre 1944, mentre il comandante dell’Intendenza Montes, Silvio Marcuzzi, era sottoposto a torture atroci nel carcere della cittadina? Se avesse parlato, l’intera Intendenza cui aveva dato vita sarebbe crollata, il bombardamento del carcere poteva essere un modo per evitare questa tragedia ed organizzare una possibile fuga di Montes o far cessare in un modo o nell’altro le torture. Forse la popolazione di Palmanova ha visto con favore il fatto che non abbia avuto luogo, tanti partigiani e collaboratori dell’Intendenza si sono salvati però solo grazie all’eroico silenzio mantenuto da Montes fino alla morte sotto le sevizie.

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Gli iniziatori, i pionieri di un movimento politico e militare come la Resistenza, del cui lavoro altri hanno potuto avvalersi in seguito, caduti però troppo presto, hanno lasciato tracce deboli nella memoria collettiva. Non può però essere così per la storiografia. Giustamente il Dizionario ospita la scheda di Giacinto Calligaris, esule anche in Unione Sovietica e non solo in Francia come riportato dalla voce relativa, nominato primo comandante del battaglione Friuli grazie anche alla fiducia che ispirava per aver frequentato le scuole militari sovietiche, caduto nel gennaio 1944. Meno ricordato nel Dizionario è il piccolo gruppo di funzionari comunisti inviati da Lubiana nel Litorale fra 1941 e 1942 molti dei quali caduti dopo pochi mesi di attività. Ricordo solo Oscar Kovačič, che pone assieme al fratello Leo le basi del movimento partigiano sloveno a Trieste, arrestato e torturato nel dicembre 1941, che muore nel gennaio 1944 per le conseguenza delle torture. E Jože Lemut, nominato il 10 agosto 1942 comandante del primo battaglione partigiano del Litorale, il “Gregorčič”, e morto la sera dello stesso giorno.

Ci troviamo pertanto di fronte ad un’opera utile a continuare quel lavoro divulgativo che sta giustamente a cuore al curatore ed all’editore. Che forse però andava ampliata, e mi riferisco qui sempre alla parte friulana, ed in parte ricalibrata con gli aggiustamenti e integrazioni che ho proposto. Chi vorrà discutere ha le porte aperte.

Marco Puppini.

L’immagine che accompagna l’articolo ritrae partigiani carnici ai tempi della zona libera. All’estrema destra guardando, si nota l’ufficiale e comandante della Garibaldi Carnia Mario Candotti. Immagine, verosimilmente da Archivio fotografico Anpi Udine, è stata pubblicata anche da ‘Il Piccolo’, nella prima edizione, a puntate, delle memorie di Mario Candotti, dell’ ottobre/novembre 1985, puntata del 23/11/1985. L.M.P. 

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