Avevo scritto nei mesi scorsi alcuni spunti di riflessione sul “Vademecum su foibe ed esodo” pubblicato dall’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione in occasione della Giornata del Ricordo 2019. In rapporto ai tanti orrori storiografici e speculazioni politiche uscite in passato e che continuano ad uscire sui media su questo tema, il Vademecum mi era sembrato un’opera che cercava di fondare un discorso su basi scientifiche e verificabili su un tema ormai oggetto di strumentalizzazioni politiche e campagne mediatiche che di scientifico non hanno nulla. D’altro canto, però, avevo delle perplessità nel merito di molte questioni. Una quindicina di giorni fa è uscita una nuova edizione del “Vademecum” aggiornata, ed alcune perplessità sono state chiarite. Altre invece sono rimaste. Espongo qui solo alcuni punti su cui sono in disaccordo o non riesco a comprendere, con lo spirito di chi vuole portare un contributo ad una eventuale discussione o riflessione.

Parto subito dalla mia contrarietà alla presenza anche nell’edizione aggiornata di una voce dedicata ai cosiddetti “negazionisti” (delle foibe e dell’esodo), cui vanno aggiunti “riduzionisti” e “giustificazionisti”, sebbene gli autori integrino questa voce con alcune considerazioni a mio parere doverose che andavano fatte prima. Sono aggettivi coniati in passato, per quanto riguarda foibe ed esodo, da uno degli autori del Vademecum (R. Pupo e R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano, 2003, pp. 126-128). Gli autori definiscono “negazioniste” le posizioni che partono: «dall’individuazione di errori puntuali effettivamente presenti nelle testimonianze, per inficiarne la validità complessiva; ovvero, muove dalla denuncia di esagerazioni, deformazioni, manipolazioni e strumentalizzazioni compiute nella presentazione dei fatti, per giungere a smentire l’esistenza degli avvenimenti stessi». (p.19). L’uso dello stesso aggettivo che viene usato per definire chi nega la Shoah  è senz’altro offensivo, anche perché gli stessi autori annotano giustamente come non vi siano stati in regione durante la guerra fenomeni di genocidio: «unica comparsa di logiche genocidarie è costituita dagli aspetti locali della Shoah» (p.19, p.68,  p.72), e quindi è pure storicamente falso.

Da anni ormai l’aggettivo “negazionista” (o “riduzionista” ecc.) riferito a foibe ed esodo viene usato da politici e relative tifoserie su decine di siti web e sulla stampa per denigrare, insultare, minacciare un gruppo bene individuato di storiche e storici, contro i quali si invocano misure punitive di vario tipo. Storiche e storici che non vedo citati nella bibliografia in calce al Vademecum anche se hanno scritto lavori a mio avviso importanti sul tema. Quella dei “negazionisti” è inoltre l’unica categoria esplicitamente indicata; gli autori non si impegnano (per fortuna) a definire eventuali “esagerazionisti”, “deformazionisti” ecc. Certo, gli autori aggiungono nella nuova edizione alcune importanti considerazioni. «Grande attenzione peraltro – si legge a p.20 – va posta a non considerare semplicisticamente come negazionismo/ riduzionismo/ giustificazionismo tutti gli atteggiamenti di critica nei confronti di interpretazioni consolidate […] perché la messa in discussione delle precedenti letture del passato rientra nella normale pratica della ricerca, così come la presa di distanza dalle semplificazioni diffuse nell’uso pubblico della storia». In altre parole, è possibile scrivere, ovviamente documentandole e argomentandole, anche tesi ed interpretazioni differenti da quanto scritto sul Vademecum senza vedersi affibbiare etichette. In realtà era forse meglio che gli autori avessero evitato di proporre categorie dai connotati negativi (in cui altri poi hanno tentato di infilare lo stesso Istituto) riaffermando invece la libertà di ricerca fuori da pressioni e intromissioni politiche come requisito ineliminabile della democrazia, valido per tutte le parti in causa.

Riguardo il merito di alcune tesi contenute nel Vademecum, tocco solo alcuni punti. La prima obiezione riguarda la parte relativa alla “italianità adriatica”. Il Vademecum punta molto sulla distinzione tra nazionalità ed etnia. «Per nazione intendiamo una comunità immaginata (cioè i cui membri non si conoscono tutti) – si legge a p.10 – in base ad un numero assai variabile di parametri che non sempre si danno assieme ed in alcuni casi sono fra loro contraddittori (lingua, cultura, insediamento storico, ereditarietà, religione, storia comune, valori condivisi, ecc.)». Non è chiarito cosa si intenda per etnia: forse gruppo risultato di antico insediamento ma chiuso, cui si appartiene per via ereditaria, definibile in base ad una lingua ed una cultura comune, ma senza uno stato o un progetto di stato, cui fare riferimento? Nel ‘Vademecum’ si afferma che il gruppo nazionale italiano nell’area adriatica aveva adottato il modello di nazione francese, basato: «sulla decisione individuale di appartenenza, a prescindere dai fattori naturalistici (ereditarietà, madre-lingua). È un modello fortemente inclusivo, che favorisce l’integrazione (…) che risponde perfettamente alle esigenze di comunità socialmente e culturalmente sviluppate, dotate di un forte potere di attrazione» (p.10). A p.13 si scrive che il processo di nazionalizzazione dell’italianità adriatica nei secoli XIX e XX è stato caratterizzato dall’inclusività, dal popolamento urbano, dalla egemonia sociale, culturale e politica. Il gruppo sloveno aveva di contro adottato un modello nazionale “sangue e terra” di tipo tedesco “etnicista” (p.10). Non è però chiaro come si arrivi, nella prima metà del XX secolo, da questo supposto “nazionalismo inclusivo” alla politica di snazionalizzazione ed assimilazione forzata fascista.

Probabilmente la nuova edizione intende rispondere a questa domanda con l’ampia parte dedicata ai vari irredentismi, sia italiano che sloveno e croato, che mancava in precedenza lasciando al lettore della prima versione l’ambigua sensazione di un nazionalismo italiano superiore, democratico, culturalmente egemone contrapposto ad uno slavo chiuso, basato sul sangue e meno sviluppato, che ricorre a concezioni “etniciste” per difendersi dall’assimilazione nella nazionalità egemone. Però: fino a quando l’italianità adriatica ha conservato una sua egemonia da “comunità socialmente e culturalmente sviluppata”? Andrebbe bene spiegato che ai primi del Novecento sia il gruppo nazionale italiano che quello sloveno avevano alle spalle una struttura sociale e culturale complessa, una propria borghesia, una propria influenza economica, una cultura letteraria certo nel caso sloveno di origine più recente. E tendevano anche ad entrare in conflitto proprio perché condividevano le stesse caratteristiche (la “nazionalizzazione parallela competitiva – p.14). Nella nuova versione, per gli autori i due movimenti nazionali erano: «diversi per ispirazione […] ma condividevano alcuni orientamenti di fondo, come la tendenza all’intolleranza e la concezione secondo la quale il territorio appartiene alla nazione che lo abita. Naturalmente, quando nel medesimo territorio abitano più gruppi nazionali, ne segue il conflitto […]». (p.14). Ben prima del fascismo, pertanto, la capacità attrattiva della cultura e della lingua italiana si era indebolita e il modello inclusivo di nazionalizzazione che gli autori avevano evocato comincia a mostrare delle crepe evolvendo in senso autoritario. Negli anni del regime, poi, l’ “inclusivo” nazionalismo italiano impedirà ad altre nazionalità ed etnie l’espressione nella propria lingua madre e ne chiuderà con la forza le associazioni. Segno, mi pare, della perdita dell’egemonia culturale italiana in parte del Litorale e del tentativo di imporla con la forza. Ci sono però ancora a mio parere dubbi non chiariti. Esistevano anche italiani che volevano vivere in uno stato multinazionale, austriaco prima e jugoslavo poi, in una contea e/o repubblica a maggioranza italiana: come rientrano nello schema della “nazionalizzazione parallela competitiva”  proposto dal Vademecum?

Venendo al tema degli infoibamenti, o meglio delle deportazioni jugoslave, il Vademecum chiarisce giustamente che la maggior parte delle vittime del maggio 1945 morì nei campi di prigionia jugoslavi generalmente tra la metà del 1945 e la fine del 1947, e solo qualche centinaio finì nelle foibe. «In primo luogo – scrivono a p.39 – va precisato che l’infoibamento non era una modalità di uccisione, ma di occultamento delle salme, legato in genere alla difficoltà nello scavo di fosse comuni. Risultano pochissimi casi in cui nell’abisso furono gettate persone ancora vive, specie per errori nella fucilazione. In secondo luogo, non tutte le vittime delle stragi conclusero la loro vita nelle foibe. Molti, forse la maggior parte, trovarono la morte in prigionia». L’uso improprio del termine “infoibato” crea però nell’immaginario la visione di un Carso insanguinato dove in pochi giorni vengono fatte sparire migliaia di persone. Stando agli autori del Vademecum le foibe (o meglio le deportazioni) furono violenza di stato (sul modello delle “stragi di stato” degli anni Sessanta e Settanta in Italia?) fatto che renderebbe le uccisioni a guerra finita avvenute in Venezia Giulia diverse dalle “rese dei conti” del resto dì Europa perché una parte di queste violenze aveva a monte un progetto politico. “Si trattava chiaramente di violenza di stato, programmata dai vertici del potere politico jugoslavo fin dall’autunno del 1944 – si legge a p.35 del Vademecum – organizzata e gestita da organi dello stato (in particolare dall’Ozna, la polizia politica). Sta in questo la sua differenza sostanziale con l’ondata di violenza politica del dopoguerra nell’Italia settentrionale […] nella Venezia Giulia come nel resto della Jugoslavia, quella violenza era strumento fondamentale per il successo della rivoluzione ed il consolidamento del nuovo regime».

Va chiarito il contesto, di che stato stiamo parlando e di che data di fine guerra stiamo parlando. Uno stato, quello che si reggeva in quel momento sull’attività delle formazioni partigiane, che nel maggio 1945 quando avviene l’ondata di arresti e deportazioni da Trieste e Gorizia era ancora in guerra. L’ultimo reparto tedesco in armi, 2.700 uomini, presente a Trieste si arrende il 3 maggio a Opicina, Fiume è liberata il 7 maggio, Zagabria il 9 maggio, la guerra termina ufficialmente in Jugoslavia il 15 maggio con la resa del generale tedesco Lōhs. Ma in realtà continua perché in giro continuavano ad esserci i cetnici che ancora non si erano arresi e stava iniziando la guerriglia anticomunista dei cosiddetti križani (crociati). Poco più a nord, in Friuli, il 5 maggio i tedeschi uccidono parroco e sagrestano a Venzone, gli ultimi reparti escono l’8 maggio. Accadono episodi inquietanti: il 25 maggio 1945 una bomba scoppia nei locali occupati dai partigiani della Divisione Garibaldi Natisone in attesa di sfilare a Trieste, uccidendone quattro e ferendone altri. Stato inoltre dai confini incerti: il 5 maggio il generale americano Morgan aveva mostrato a Tito la linea di demarcazione, che implicava il ritiro anche con la forza delle armate jugoslave da Trieste e da Gorizia.

Questo ovviamente non vuol dire che gli arresti del maggio 9145 siano “atti di guerra” ma è difficile anche ritenerli crimini “in tempo di pace”, sono atti che avvengono in una situazione confusa, nella coda di una guerra non ancora finita e nel momento della presa del potere. Atti che vedevano  istituzioni di una repubblica federativa che non esisteva ancora in contrasto fra loro proprio sul tema del comportamento da tenere  in quella fase. Da anni ormai sono stati pubblicati documenti che dimostrano un conflitto tra la dirigenza del partito comunista sloveno, nella persona di Boris Kraigher, che cercava di limitare gli arresti indiscriminati, e l’Ozna che invece li stava attuando. Basta leggere a questo proposito G. Oliva, Foibe, Milano, Mondadori, 2002, p. 161. A questo proposito Pupo e Spazzali parlano di “una tardiva presa di coscienza” (p.83), ma la lettera di Kraigher è del 6 maggio mentre la risposta del presidente del governo sloveno, Boris Kidric, ugualmente critica verso l’Ozna, è del 10 maggio. Di quale intervento tardivo stiamo parlando? Oppure, a cura di E. Apih: Carlo Schiffrer, Antifascista a Trieste. Scritti editi e inediti 1944 – 1955, Del Bianco. Vago di Lavagno (VR), 1995, pp.52–54 che documenta l’intervento di Kraigher a favore di un gruppo di antifascisti non comunisti di Trieste tra cui lo stesso Schiffrer. Jože Pirjevec scrive dei tentativi di Franc Beuk di intercedere per il gruppo di Guardie di Finanza internate a Borovnica, in questo caso forse inutilmente (J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009, p.291). In altre parole mi pare che funzionari di primo piano del partito comunista non ritenessero arresti indiscriminati e violenze lo strumento fondamentale per imporre una loro rivoluzione, anche se alla fine quegli arresti ci furono. Mi pare che la formuletta “violenza di stato” riferita alle deportazioni jugoslave semplifichi all’eccesso una situazione complessa.

Nelle FAQ gli autori affermano che fecero più vittime nel secondo dopoguerra i comunisti slavi dei fascisti italiani nel primo, slavi che in tal modo passarono «dalla strategia squadrista fascista a quella stragista» (p.70). Così facendo però si comparano due realtà non comparabili se non altro perché le deportazioni jugoslave, come ricorda lo stesso Vademecum, avvennero nei momenti finali di una guerra totale che aveva fatto nel Litorale decine di migliaia di vittime. Le squadre fasciste invece nacquero nel 1919 ma iniziarono ad agire in regione dal 1920, quasi due anni dopo la fine della prima guerra. Colpirono il “nemico interno” (allogeni ed italiani antifascisti) nel contesto di un clima politico teso, ma non nella “coda” di una guerra non ancora completamente finita. Anche contrapporre il termine squadrista a stragista è sbagliato. Anche le squadre possono commettere stragi (dicembre 1922 strage di Torino). Eventualmente squadre andrebbero contrapposte a formazioni militari partigiane, fatto che dimostra  che si parla di realtà e contesti diversi.

Va inoltre ricordato che arresti ed uccisioni a guerra finita non furono una peculiarità della Venezia Giulia, in alcune nazioni come la Francia, dove la Resistenza ebbe una corposa componente gollista, di destra, i collaborazionisti furono colpiti molto duramente. Certo, è vero che dalla Venezia Giulia furono deportati anche antifascisti contrari all’annessione alla Jugoslavia non senza conflitti, come visto prima, in seno alla dirigenza jugoslava e creando una ferita che ha dato l’occasione per strumentalizzazioni e denigrazioni dell’intero movimento resistenziale. Uccisioni a fine guerra per consolidare regimi e/o sancire la propria posizione dominante nel mondo non sono però state certamente opera solo degli jugoslavi o degli stati comunisti e rivoluzionari. Non sappiamo cosa sarebbe successo se avessero vinto i nazionalisti e monarchici jugoslavi, che durante la guerra avevano criticato i partigiani comunisti ritenendoli troppo condiscendenti verso gli italiani in nome dell’internazionalismo. Nell’Italia liberata come possiamo definire le uccisioni di sindacalisti di sinistra in Sicilia a partire già dal 1944, per arrivare tre anni dopo a Portella della Ginestra?  Sul piano internazionale ricordo il dibattito avviato ormai parecchi anni fa sull’uso da parte statunitense di due bombe atomiche sulla popolazione giapponese nell’agosto 1945: è stato un modo per accelerare la fine della guerra contro un avversario che era ormai già isolato e sconfitto o una dimostrazione della propria potenza e superiorità rivolta al futuro e soprattutto all’Urss?

Giustamente il Vademecum nega che deportazioni ed esodo siano stati fenomeni di pulizia etnica, però i motivi sono spiegati in modo che mi pare poco comprensibile rievocando nuovamente la differenza tra nazionalità ed etnia. «Pertanto – si può infatti leggere – (il termine pulizia etnica) non può venir applicato a comunità nazionali che si definiscono su basi non etniche, come gli italiani della Venezia Giulia e Dalmazia» (p.13). Per gli autori dovremmo parlare di “semplificazione nazionale”. In altre parole gli jugoslavi non volevano estirpare l’etnia italiana ma la nazionalità? Va ricordato che gli italiani in Jugoslavia nel quadro della politica di “fratellanza” ebbero riconosciuta la possibilità di esprimersi in italiano, ebbero il loro organismo rappresentativo, l’ “Unione degli Italiani”, loro associazioni culturali come il Teatro Italiano di Fiume e loro periodici, una bella differenza rispetto alla politica di snazionalizzazione fascista. Certamente per gli autori del Vademecum la politica di “fratellanza” era «una politica di integrazione selettiva. In primo luogo, non si rivolgeva a tutti quelli che si consideravano italiani, ma solo agli italiani etnici, considerati minoranza nazionale legittima […]. In secondo luogo, si rivolgeva solo agli italiani “onesti e buoni”, cioè quelli disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del socialismo. (…). In terzo luogo, aveva per interlocutore le masse popolari”, proletarie e contadine e non i “borghesi”, per i quali non vi era posto in uno stato socialista» (pp.37–38). In altre parole gli italiani rimasti dovevano dimostrarsi fedeli alla politica sociale e nazionale delle autorità jugoslave, come le associazioni jugoslave dovevano muoversi in accordo con la politica del governo italiano sul territorio della Repubblica Italiana. Certo, la “fratellanza” non evitava persecuzioni e rappresaglie contro gli italiani a livello di singola comunità da parte di alcuni funzionari comunisti, in presenza talvolta di indicazioni più generali oscillanti e non chiare. Una parte dei comunisti italiani presenti dopo la guerra in Jugoslavia furono sfavorevolmente colpiti dal nazionalismo manifestato dalle autorità jugoslave. Ma che la politica di “fratellanza” mirasse ad eliminare la nazionalità italiana mantenendone l’etnia mi pare affermazione forzata e contorta.

Non entro in merito all’esodo; mi pare comunque che gli autori liquidino troppo sbrigativamente la secondo loro mai dimostrata attività propagandistica dello stato italiano nel promuoverlo. L’esodo del 1946 – 47 avvenne grazie all’intervento della nave “Tuscania” ed altre imbarcazioni messe a disposizione del governo italiano, grazie al materiale fornito dal prefetto Micali, responsabile per la Venezia Giulia dell’Ufficio per le zone di confine e grazie ai soldi (tanti) messi a disposizione da quest’ultimo Ufficio. Mi pare ovvio che molti esuli ritenessero che il governo italiano appoggiava e favoriva la loro scelta, che non avesse dovuto accettare per qualche motivo decisioni non sue, prese dal CLN dell’Istria o da qualcuno in seno al suddetto CLN. Neppure mi risultano posizioni governative volte a contrastarla.

In conclusione la scelta di pubblicare una seconda edizione del Vademecum è stata buona, le integrazioni sono state efficaci, ma restano a mio parere dubbi e perplessità che richiederebbero chiarimenti.

 Marco Puppini

Ringrazio Marco per queste puntuali osservazioni, ed invito, in occasione della giornata del ricordo, i lettori che non lo avessero già fatto anche a leggere su www.nonsolocarnia.info:

“Considerazioni su di una mozione per togliere, in Fvg, finanziamenti regionali ai cosiddetti negazionisti e riduzionisti delle ‘foibe’, pubblicato il 4 aprile 2019”, e relativi commenti; 

Alla fine della seconda guerra mondiale: storia fra leggende e ricostruzioni documentate, pubblicato il 18 febbraio 2018; 

10 febbraio a Torino. Su quel convegno che, per qualcuno, “non s’ha da fare”, ma non si capisce perchè, pubblicato il 3 febbraio 2018; 

Laura Matelda Puppini. Per la giornata del ricordo, pubblicato il 6 febbraio 2017; 

Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate, pubblicato il 22 dicembre 2016; 

Non avrei scritto queste righe se non avessi letto il titolo dell’articolo di Maurizio Cescon, Vergarolla 1946 …, pubblicato il 20 agosto 2016; 

Pier Paolo Pasolini, 1948: sull’uso politico di Porzûs, su cui “nulla è ancora chiarito e risolto”, pubblicato il 29 aprile 2015; 

Sull’uso politico della storia, pubblicato il 26 febbraio 2015; 

Marco Puppini. Convegno sul confine orientale (italiano) dell’Anpi a Milano: una riflessione, pubblicato il 2 febbraio 2016; 

Marco Puppini. Una riflessione su Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale, pubblicato il 13 gennaio 2015; 

Laura M. Puppini. Lu ha dit lui, lu ha dit iei. L’uso delle fonti orali nella ricerca storica. La storia di pochi la storia di tanti, pubblicato il 17 settembre 2017. 

Gli articoli senza autore specificato nel titolo sono miei. 

L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta la copertina del volume di Raoul Pupo e Roberto Spazzali: Foibe, ed. Il Giornale 2018, prima ed. 2003.  

Laura Matelda Puppini. 

 

 

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