Parte prima.

«Sono nata il 5 febbraio 1928 ad Ampezzo in casa, come tutti a quel tempo.  Allora si abitava in fondo al paese, più in giù di Chiacjc, per andare al campo sportivo. Lì c’era una contrada e c’era la casa dove sono nata. Ma eravamo in affitto e così, successivamente, siamo andati ad abitare in centro, in piazza, sempre in affitto. La casa e la contrada non si sono modificate di molto, qualche sistemazione, ma non di più.
Mia madre lavorava prati e campi in affitto, e dava in pagamento una parte del prodotto al padrone. (Si diceva lâ a miezas, ma poteva essere anche ad un terzo od ad un quinto, n.d.r.).

Ho fatto qui, ad Ampezzo le elementari. La scuola era dove è tutt’ora, ed ho avuto come maestra Maria Venier, che era bravissima, ed il maestro Urbàn, che faceva sempre la quinta. Poi ho finito la frequenza scolastica. Infatti non c’erano le medie, anche se c’era in paese un corso scolastico post- scuola dell’obbligo, ma a pagamento. Insomma, chi voleva continuare a studiare doveva pagare.
Però io dico una cosa, non per vantarmi: so più io che quelli che frequentano la terza media oggi. Forse i maestri erano più bravi, sapevano insegnare meglio. Non posso ovviamente degradare i maestri attuali, ma mi pare insegnassero meglio allora che oggi. Abbiamo fatto noi in quinta “tutte le medie”! E sono stata promossa ogni anno. Guai se non ero promossa: “me mari a mi vares copade”!

Non si poteva spendere soldi per niente, allora, e bisognava comperare tutto. Mia madre mi diceva che la maestra Venier le aveva detto che ero brava, che potevo farcela, e quindi mi diceva: “Si no tu pasas, no sta vignì dongje!” (Se non sei promossa non tornare a casa!).

E si andava a scuola solo al mattino, dalle 8 alle 13, per poter aiutare poi la famiglia nei campi. Correre a casa: mangiare ed andare! Si viveva allora di agricoltura, con i prati, i campi, la mucca; credo che ben pochi non avessero, qui, ad Ampezzo, la vacca! E chi ne aveva una, chi due. Poi con il latte si faceva il formaggio, ma anche lo si beveva, perché non c’erano soldi per andare a comperare altro. Mica come adesso, che si acquista di tutto! Non si può dire, però, che ci fosse miseria, perché noi abbiamo sempre mangiato bene, e c’era la polenta; forse non c’era tanto pane, e lo si mangiava solo la domenica. Ma io preferivo la polenta al pane. A me la polenta piace veramente tanto, “a mi plas di mats”. Era così allora …»

Mauro: «Dato che vorrei trattare il periodo dagli anni ’30 in poi, ti ricordi se allora facevate anche attività legate al fascismo?» Lidia: «Sì, ci facevano cantare, ma non mi ricordo bene».

Mauro: «Allora c’era il fascismo. Ti ricordi che atteggiamento avevano ad Ampezzo verso questo regime? Erano contenti o no? Sopportavano?»
Lidia: «Vuoi che ti dica cosa pensavano? A che fare un regime così per noi? Noi siamo paesani, contadini, cosa dobbiamo star a sentire  cosa ci dicono? Erano un po’ così … Non capivano neppur bene cosa fosse il fascismo, come non lo capivo io. Capivano a modo loro e allora a loro non andava bene. Era una cosa di più, un sovrappiù.
C’era forse un quarto delle persone che seguiva il fascismo, che era contento, un quarto della popolazione … non di più.

Alcune cose si facevano perché altrimenti ti segnalavano. Non credere, anche a scuola succedeva così. Se non facevi quello che ti era stato detto di fare annotavano il tuo nome, segnavano, segnalavano. E dovevi fare quello che ti dicevano. E questo è valso anche per la mia famiglia. I miei parenti, comunque, non hanno dovuto andare a dare il loro nome per il sostegno al fascismo, io sì perché andavo a scuola.
Io dicevo a mia madre che poteva farsi mettere in nota come sostenitrice, così magari le davano qualcosa, ma lei diceva: “Ma fammi il piacere! Cosa vuoi segnalare il mio nome, a che fare?” Mia madre aveva frequentato solo fino alla terza elementare, ma sapeva più lei con la terza che io con la quinta, ti giuro! “I stimi chi sei modernos,  – mi diceva –  Cun dut il vuestri moderno,  i sai plui io che tu!” Mia madre si chiamava Betta, e le dicevano “Betta da lenga scletta”.
E diceva che non sapeva che farsene delle tessere di partito. Per la gente, in genere, il fascismo era un qualcosa di più. Inoltre ogni tanto veniva richiesta qualche dichiarazione, ed allora uno della famiglia doveva andare a cercare qualcuno che la compilasse, e poi si doveva pure pagare quelli che scrivevano per te.

Però nell’ambiente, se non eri fascista, venivi guardato davvero male, anche dai parenti.
Un giorno ho detto che non mi interessavano i partiti. Non lo avessi mai detto!
E poi vi erano persone che andavano a riferire, anche ai maestri, che poi ti interrogavano. “Cosa hai detto?” E io: “Cosa vuol che dica?”.
E allora mi dicevano: “Non si deve dire così!”,  e mi spiegavano … ma non so neppure cosa mi spiegassero.
C’erano però dei contrari al regime anche ad Ampezzo, che sono stati confinati. Mi pare ce ne fossero tre, anche se non sono sicurissima.

Poi la guerra. Sentivo dire: “Vedrai che tirano dentro anche l’Italia”, e c’era paura. Ma io, che ero una bambina, dicevo: “Ma cosa vuoi che sia?” e non capivo. “Non sai cosa vuol dire la guerra!” – mi apostrofava, allora, anche mia madre.
Cosa vuoi che sia … Ma dopo l’ho vista e l’ho provata, la guerra. Ci sarà stato anche qualcuno contento di entrare in guerra, perché si facevano pure soldi con la guerra, ma la maggioranza aveva paura.
Io allora avevo solo 13 anni, anche se a 13 anni non eravamo bambini come adesso, e dovevamo già fare molto, dovevano già lavorare. Si doveva lavorare anche da ragazzini.

Con l’entrata in guerra dell’Italia, molti sono partiti militari, e così non ci sono stati più giovani in paese, e le donne hanno dovuto fare anche il lavoro degli uomini. Per quanto mi riguarda, io non ho dato peso, da ragazzina, a quanto stava accadendo, so solo che dopo l’inizio della guerra anch’io ho dovuto lavorare di più. Io non avevo padre, e con noi viveva zio Svualdin, che non è andato soldato solo perché era il capofamiglia, ed in famiglia eravamo io, mia madre, nonno e nonna.
Durante la guerra si viveva sempre “sulla lama del coltello”. Si mangiava ogni giorno, sì, ma si doveva stare molto attenti nelle spese, come del resto prima. Non era aumentata però la miseria, all’inizio della guerra, ma si doveva stare sempre molto attenti.

Allora anche ci si divertiva, non spesso come adesso, però. Il sabato sera, uno con la fisarmonica, e noi a ballare, anche in mezzo alla piazza, anche sul sagrato, ci si divertiva così.

Non so però quello che mi chiedi, e cioè se la gente ha incominciato a pensar male del fascismo dopo l’entrata in guerra. Sai ero giovane. Credo che qualcuno pensasse che sarebbe stato meglio non entrare in guerra, altri invece pensavano che così si sarebbe potuto migliorare, insomma ognuno aveva la sua idea.
Molti comunque hanno detto che l’entrata in guerra era stato il male di Mussolini, che ha fatto, però, anche qualcosa di bene. Ma ha fatto più male che bene. Mussolini era furbo. È facile prima fare il buono, con poco, e poi fregarti! Prima così … E poi ci ha fregato. Questo è stato Mussolini.
Non mi ricordo del 25 luglio, ero ragazzina allora.

Dopo l’8 settembre sono giunti i tedeschi. Non erano tanto simpatici, anzi, neanche un poco. Bisognava star attenti, perché ascoltavano tutto. Sapevano l’italiano ed ascoltavano, e se dicevi qualcosa… anche se lo dicevi in friulano… Credo che fra i tedeschi ci fosse pure chi capiva il friulano. Mi ricordo di una volta … Ero giovanissima, ma questo fatto mi è rimasto impresso. Un giorno ho sentito uno del paese che diceva ad un altro: “Sta attento a quello. Quello capisce tutto, quello capisce anche il friulano, e ha già ascoltato cosa dicevi tu”.

Dopo l’8 settembre alcuni sono andati subito in montagna altri no. Non era tanto simpatico restare in paese, per quelli che erano stati militari. E quando ne  vedevi uno in paese, gli chiedevi: “Sei ritornato?” E lui: “Ma torno ad andare, perché non so se sono sicuro qui”.
Venivano magari a prendere qualcosa e poi se ne tornavano via. E ritornando indietro con la mente, penso: “Ma quante ne abbiamo passate!” E non credere, era paura, era tanta paura. E guai se ti trovavano con qualcosa che si doveva dare ad un partigiano, od ad un fratello, che era “dall’altra parte”. Ma dovevamo farlo».

Mauro: «Quando hai incominciato a sentire parlare di partigiani?»

Lidia: «Non lo so. Io “ero nel giro”. E sapevo molte cose perché ero con Dina di Arturo, Arturo dall’ucèl (Arturo Sburlino, cl. 1908, partigiano garibaldino operativo sul terreno, nome di battaglia Neri n.d.r.). Io ero con loro. E Arturo ce l’aveva nera con i tedeschi ed inveiva contro di loro. E Dina gli diceva di star zitto. Parlava italiano Dina, perché non era friulana. “Stai zitto! – gli ripeteva. E lui: “Ma porco … – tirava giù moccoli Arturo – devo star zitto e non posso parlare a casa mia?” – Era tremendo Arturo, e non sopportava i tedeschi. Ma doveva star attento anche lui. Ed allora Dina urlava contro di lui. Se poteva naturalmente Arturo non si faceva sentire, ma potevano comunque sentirlo, no. E allora lei preferiva che tacesse e basta.
Io ho imparato tante cose da Arturo. Lui era un  “capo”, scriveva tutto, e dava segnali ai partigiani, ed era un informatore dei partigiani, ed era un uomo “punto e virgola”, molto preciso.

Io penso, però,  che solo un quarto della popolazione vedesse di buon occhio i partigiani, tre quarti no. Insomma: ad un quarto di Ampezzani  andava bene che si fosse creata la resistenza, a tre quanti no.
Dicevano che per colpa dei partigiani poteva accadere qualcosa a tutti, e continuavano a dire: “Vedrete cosa succederà!” e poi ancora “Vedrete cosa succederà!” e ancora “Vedrete cosa succederà!” – ma poi, in definitiva, non è successo niente. C’era paura, in paese, delle conseguenze della lotta partigiana, anche perchè nessuno sapeva cosa sarebbe potuto accadere. Ed era questione di vita o di morte. Ben va, è passata anche quella.

Mauro dice che ora si sostiene che i partigiani abbiano solo rubato ed ucciso. Non è vero, dice Lidia, non è così. «Che i partigiani abbiano ucciso qualcuno è vero – dice Lidia – ma non so se avessero ragione o torto. E tutti abbiamo pensato che se i partigiani avevano ucciso uno, avevano un motivo. Ma non si poteva dire, perché non lo si sapeva».
Mauro dice che da che sa, sono stati uccisi dai partigiani gli zii di nonno Cecchino, Carlo ed Umberto, che erano insieme con il farmacista di Ampezzo. (Carlo e Umberto Bonfini. Carlo Bonfini, con altri, aveva costituito nel 1923, il fascio di Ampezzo. http://www.archivisias.it/, n.d.r.). Lidia annuisce.

Poi dice che lei era quella che portava i biglietti da qua a là, per i partigiani. «Per una donna è più facile portare ordini ed informazioni, perché hai un sacco di posti dove metterli dentro, nelle tette, per esempio. Non mi verranno a toccare lì, pensavo».

Lidia poi, su domanda precisa, afferma di aver avuto sempre fiducia in Mario Candotti, che era davvero una brava persona.

Mauro domanda a Lidia quando è entrata a far parte del movimento partigiano, ed ella risponde: «Ero laggiù di Arturo e Dina, io. E loro erano i padroni di casa. Ed erano loro che mi mandavano qui e là. Era Arturo che mi diceva: “Devi fare così e così”. Arturo aveva una fiducia illimitata in me. E io, di rimando: “E se non voglio farlo?” E lui: “So che lo farai”. In effetti se non lo avessi voluto fare, non lo avrei fatto. Io se dico sì è sì, se dico non è no. Non mi piace dire una cosa per l’altra. Ho un bel ricordo di Arturo, e devo dire che era un uomo onesto, dritto, ma dritto. Possono dire quello che vogliono di lui, ma io non ascolterò e sosterrò quello che ho sempre pensato su di lui. Conoscendo Arturo si può dire che era una persona veramente, veramente, in gamba».

Mauro insiste nel chiedere se i partigiani rubassero. Lidia dice che ce ne poteva essere qualcuno, qualche ladro c’è dappertutto. «E potrei dire anche chi, ma non lo dirò mai. Che sappia io erano due che rubavano. E dopo prendono di mezzo tutti.

Poi sono andata con Zagolin. Mi ha chiesto lui di aiutarlo. Sapeva che mi sarebbe piaciuto fare l’infermiera. Ogni tanto mi chiamava e mi diceva: “Vieni che devi aiutarmi”. Ma non ho voluto andare fissa, come lui avrebbe voluto, ed andavo ad aiutarlo solo qualche volta. Quando aveva qualcosa di serio chiamava qualcuno, e mi chiamava. Ma non so perché quel lavoro non mi attirava. L’ospedale era in Neboluzza. Sono stata anch’io un paio di settimane lassù, perchè non potevo andare su e giù».

Mauro: «Ma non c’è stato un ospedale partigiano anche nel magazzino dei Sali e Tabacchi, vicino al distributore di benzina, davanti alla scuola elementare?»

Lidia: «Sì, sì, prima l’ospedale è stato qui, (presumibilmente ai tempi della zona libera n.d.r.) poi lassù. Qui era in pieno paese, dai Nigris. Non mi ricordo che lì avessero curato tedeschi, ma davano il primo soccorso a tutti coloro che ne avevano bisogno. Vuoi che si muoia con sulla coscienza uno che è morto perché non lo hai curato? No. No. Una persona è sempre una persona».

Parte seconda.

Lidia dice che l’ospedale dove lavorava era quello partigiano, che certamente se uno veniva ferito nei paraggi gli venivano date le prime cure, indipendentemente da chi fosse, ma poi i cosacchi ed i tedeschi portavano i loro feriti ed ammalati nel loro ospedale. E nell’ospedale di Ampezzo si curavano anche gli abitanti del paese, se necessitava. Nel caso di ferite, bisognava «Tamponâ lis feridis e medeâ ogni dì, e quant’ ca era una ferida abbastanza gruessa, bisugnava medeala ancje dos voltis in dì. Bisugnava giavâ ce ca vevin intorsi, tornâ a meti, tornâ a meti lis pomadis… A si faseve medicazions, plui che atri». (tamponare le ferite e medicarle ogni giorno, e quando la ferita era abbastanza profonda, bisognava medicarla anche due volte al giorno. Bisognava togliere la vecchia medicazione, tornarla a mettere nuova, e tornare a mettere le pomate prescritte). Ma non si ricorda di feriti che l’avessero particolarmente colpita: «È troppo tardi per ricordarsi i particolari – dice – La mia mente non ricorda molto ormai».

Nell’ospedale, continua Lidia, vi era, oltre il medico Zagolin, una aiutante fissa, che non era infermiera, ma «A saveve il fat sò», (ci sapeva fare), ed era quella di Forni di Sotto, Elsa Fazzutti, Vera, che faceva anche qualche intervento più complesso delle semplici medicazioni, seguendo rigidamente quello che il medico le prescriveva. E domandava sempre al medico cosa doveva fare, ed anche predisponeva le operazioni di Zagolin. Invece lei, Lidia interveniva solo quando serviva, su chiamata. Ma pure, quando rientrava a casa, passava di lì e chiedeva se ci fosse bisogno di aiuto.

Quindi Mauro le chiede il suo nome di battaglia, che Lidia non ricorda, ma poi, sollecitata e con il suggerimento che fosse Nera, dice di sì, che quello era il suo nome di battaglia. «Ed anch’io ero “nera” – aggiunge scherzando – E gli ampezzani non erano propensi alla resistenza e ce l’avevano nera anche con me». (Anche Arturo Sburlino aveva nome di battaglia Neri, n.d.r.).

Mauro Le chiede che tipo fosse Armando Zagolin. E Lidia risponde: «Era un tipo in gambissima. Era preparato come medico ma era in gamba anche per il resto. Era veramente una persona esemplare. Era uno da “duri al pezzo” e se non facevi quello che voleva, urlava come un’aquila, si irritava moltissimo, ed io gli dicevo: “Basta dottore, basta urlare, basta” ed alla fine veniva anche a lui da ridere. Ma era una persona in gambissima. Aveva un carattere un po’ strano (Al’ere un tic stramb) e era capace di prendersela per un nonnulla, ed era rigido. Io avevo imparato come relazionarmi con lui (i savevi cemut cjapalu) ma non credere che avesse taciuto con me per questo. Urlava comunque. E quando si era un po’ calmato, gli dicevo: “Ha finito dottore? Basta adesso!” E lui si metteva a ridere, perché poi era passata anche a lui, ed era passata anche a me. E poteva dire quello che voleva, io non gli rispondevo, così non poteva neppure provare il gusto di sentirmi rispondere».

Mauro le dice che secondo Mario Candotti, Zagolin era un tipo che si esponeva troppo, un po’ incosciente, che non cercava di fare le cose di nascosto, e Lidia risponde: «Può darsi che avesse ragione Mario».

Poi Mauro le chiede cosa sa dell’Ors di Pani, che aiutava la Resistenza, dando cibo e rifugio ai partigiani. Lidia dice di aver sentito parlare allora dell’Ors, ma di non sapere che egli avesse aiutato la resistenza. «Ma non hai capit né parcè nè par co’, e i no savevi ce cal faseva, i ai sintut tabaiâ di lui e basta». E non sa neppure cosa stesse dietro l’incendio di Forni di Sotto, solo che il paese era stato bruciato. «I no mi recuardi di che roba alì, nepur par insum». E non le sovviene neanche se i rifornimenti, nel periodo della Zona Libera, venissero portati attraverso Passo di Rest dal Pordenonese, avendo i tedeschi vietato l’approvvigionamento alimentare alla Carnia per mettere in difficoltà i partigiani, ed avendo istituito gli ammassi per recuperare viveri per se stessi.  Si ricorda invece, come fattole presente da Mauro, che a sua volta lo aveva sentito raccontare da Nora, che anche lo zio Milio era andato per passo di Rest con il cavallo, ma precisa che lo zio Milio non diceva certo a lei il motivo per cui andava qui o là, pur essendo un ragazzino, avendo un anno in meno di lei.  «Non ci si diceva nulla fra noi».
Allora, per evitare i rifornimenti, dice Mauro, i tedeschi avevano bombardato passo di Rest, e Milio, giovanissimo, tardava a tornare, ed in famiglia si erano molto preoccupati.

Lidia poi, anche se sollecitata da domanda precisa, non vuole ricordare i tempi della Zona Libera, ma non specifica perché, ma sa anche poco della parte politica, e non si ricorda delle riunioni che facevano ad Ampezzo. Si ricorda invece dei cosacchi.

Alla domanda di Mauro, «Che tipi erano?» risponde: «Cosa vuoi. Li abbiamo guardati, e abbiamo preso atto che quelli erano i cosacchi. Ridere, non ridevano; piangere, non piangevano, e non so dire nulla di più. Quando abbiamo saputo che sarebbero arrivati, eravamo tutti, in paese, sul chi va là, ma mi pare non abbiano fatto nulla di male» (e guarda Mauro con occhi interrogativi, quasi a chiedere conferma).

Mauro dice che erano povera gente anche loro … Li hanno mandati qui ma, … Lidia: «Avranno capito anche loro che li avevano mandati qui perché erano anche loro dei poveracci come noi». Poi ripete, sollecitata da Mauro: «E non mi ricordo che abbiano fatto nulla di male». E aggiunge: «Erano anche gentili, e parlavano volentieri, quelli che sapevano parlare. Parlavano in modo un po’ strano, ma si facevano capire». Non ricorda poi che i cosacchi prelevassero alimentari o fieno dalle case, anzi dice che non le risultano fatti del genere.

Mauro le chiede dove abitassero i cosacchi quando erano ad Ampezzo, se stessero nelle case.

«Stavano nelle case. Stavano in case dove non c’era nessuno, od abitava una persona sola. In un primo tempo ci eravamo preoccupati: “Ioi, i Cosacchi!” Ma poi, alla fin fine, erano gente come noi. Erano stati mandati qui, ed erano stanchi di esser qui, come noi. Avevano qui un comandante, ma non un “capocjon grant”, non un comandante di livello superiore, ed avevano il comando, mi pare, dietro le scuole elementari. E non avevano cammelli, ma cavalli». Lidia non si ricorda, però, se avessero con sé le famiglie, anzi dice di non aver visto, ad Ampezzo, famiglie cosacche. E non rammenta neppure una partita di pallone organizzata dai cosacchi prima della loro partenza, di cui le chiede notizie Mauro, che è venuto a sapere dell’incontro dalle memorie di Dante Candotti. La partita era stata organizzata, precisa sempre Mauro, per calmare (distemperâ) un po’ gli animi, per chiudere in pace, alla fine della guerra.  Ed allora Lidia dice che forse ricorda quella partita.
I cosacchi poi, se ne erano andati – dice Lidia – senza creare problemi. Anzi ritiene che abbiano pensato: «Tant ben chi lin».

Lidia dice che le guerre sono solo per ammazzarsi.
Quindi Mauro le chiede se sapesse che vi erano dei prigionieri australiani, neo zelandesi, a Plan dal Sàc, dove allora stavano costruendo la centrale della Sade. (Prima dell’8 settembre 1943 n.d.r.). Lidia dice che ricorda dei prigionieri là, ma di non essere mai stata nei pressi del campo.

Mauro poi chiede a Lidia del dopoguerra. Lidia ha avuto una piccola pensione, grazie al fatto che è stata partigiana e che si è ammalata nella guerra di Liberazione di Tbc, malattia che le ha fatto perdere un polmone.
Lidia poi dice che il fatto di essere stata partigiana non le ha dato problemi ma neppure vantaggi. «Mi hanno dato la pensione, il che mi è andato davvero bene, perché almeno quella ce l’ho. Non ho domandato però io la pensione, me l’hanno data loro».

Mauro insiste, ricordando a Lidia che gli ha narrato che a Ampezzo, nel dopoguerra, parlavano male dei partigiani.
Lidia: «Dopo la guerra e anche durante. Di noi donne che avevamo partecipato alla resistenza, dicevano che si era delle puttanelle dei partigiani», ma lo dicevano in paese anche durante la guerra. «È un bel po’ che sento quelle cose lì,  – continua. –  Non solo ai tempi dei partigiani, dicevano che eravamo delle puttanelle, anche prima». Insomma secondo Lidia le male lingue ci sono sempre, basta non ascoltarle. «Ma cosa vuoi che mi interessi – specifica –  rispondo io della mia coscienza». Poi Lidia aggiunge che chi parla male lo fa comunque, indipendentemente dai partigiani o meno, e che le linguacce devono parlare male di qualcuno, altrimenti non stanno bene, tutto qui. «Io non mi interesso degli altri – dice poi- mentre loro devono interessarsi dei fatti altrui …»

Quindi, su domanda precisa, afferma che la nonna Rita aveva aiutato un po’ la resistenza, ma non aveva potuto fare molto, perché Cecchin (il marito) non voleva, e ad un certo punto aveva dovuto smettere. Rita, anche da quanto dice Mauro, andava a portare da mangiare ai partigiani in Miòl, ma poteva fare solo questo. Perché portare da mangiare era una cosa, andare dove c’erano gli uomini, un’altra.
Lidia sostiene che anche Cecchin era partigiano, ma Mauro dice che, da quello che sa, ciò è accaduto solo per pochi giorni. Il nonno era a Roma, all’Accademia, e, dopo l’8 settembre, era rientrato a casa. Qui aveva aderito al movimento partigiano, ma per poco: infatti era stato catturato ed era stato portato a Tolmezzo, in carcere, dove era rimasto solo pochi giorni. Poi era stato rilasciato ed era tornato in paese, stando tranquillo senza far nulla. Lidia però queste cose non le ricorda, come non si ricorda di Giovanin Terribile, (Giovanni Spangaro, industriale, democristiano, per anni presidente dell’Ifsml n.d.r.) che però, allora, era un ragazzino.

E Lidia chiude dicendo che, pur vedendo l’Italia del momento, è comunque valsa la pena di lottare, allora. Forse si poteva avere “alc di mior”, qualcosa di meglio, ma è sempre valsa la pena.

E quando Mauro ribadisce che alcuni affermano che ci potevano essere meno morti, se non ci fosse stata la guerra di liberazione, sostiene che probabilmente tutti quei morti ci sarebbero stati comunque, perché la guerra è così, e chi va in guerra può morire. «Io sono convinta che è valsa la pena lottare. – termina Lidia- Io sento dentro di me le cose, e dicendo ora a te sì o no e le cose che volevo dirti, mi è venuto in mente che tu parli come me, hai le mie idee, e di questo sono contenta». Anche Mauro ringrazia per l’intervista, che ha permesso a lui di conoscere pure quale fosse la vita ad Ampezzo in quei tempi. «Quella volta vivere era tremendo, non voglio neppure pensare. Quando si è soli, tante volte si pensa a tutto e si ritorna indietro con la mente, e mi dico: “Guarda, quanto coraggio che avevo, e ora non ne ho più, e pensare che allora …” Mi pare impossibile di esser stata così. Ma oggi come oggi non so se farei quello che ho fatto allora. Ma ora ho anche un ‘altra età. Quella volta avevo 20 anni… Speriamo di non aver più bisogno di fare queste scelte».

Mauro Fiorenza. – 6 settembre 2014.

(Trascrizione dell’intervista, traduzione dal friulano, grafica e note di redazione di Laura Matelda Puppini).

Limiti: l’intervista è forse un po’ pilotata, come si evince da quanto dice l’intervistatore, che qui ho spesso omesso per non allungare veramente troppo il testo. Inoltre l’intervistatore ha già parlato con l’intervistata degli argomenti a cui sarebbe stata chiamata a rispondere.

Ringrazio sentitamente Mauro Fiorenza per l’intervista. Se Mauro Fiorenza, Cristina Martinis ed altri, con passione, non si fossero dati da fare per raccogliere importanti testimonianze e per mantenere storia e memoria, tutto sarebbe andato perduto, ed a loro va un plauso caloroso e la mia riconoscenza.

L’immagine che accompagna questa intervista ritrae Lidia De Monte, non più giovanissima, presumibilmente in vacanza, e mi è stata mandata da Mauro Fiorenza.  Laura Matelda Puppini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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