Tradizioni

Laura domanda a Noè quali fossero le tradizioni di Ludaria e Rigolato, se per esempio, come a Cavazzo Carnico, si usasse fare il pane per il morto, da distribuire a tutte le famiglie del paese.

Noè: «Anche a Rigolato, quando moriva il capo famiglia, il vecchio, in particolare se era un possidente, il fornaio faceva pane per tutti, ed i ragazzi più bisognosi andavano a prendere una pagnotta, e così le famiglie povere.  Ma questa usanza era presente anche in caso di matrimonio. Io mi ricordo di una coppia che si è sposata nel 1907 o nel 1908, ed ha distribuito un pezzo di pane a tutti i convenuti alle nozze, oltre i confetti. Ed era diverso da ora, perché veniva solo dato un pugno di confetti ai presenti.

Invece quando una donna sposava uno che non era del paese, il futuro sposo doveva pagare un pedaggio ai coscritti della sposa, e quei soldi servivano per far ballare, poi, tutti. E si badi che l’offerta era obbligatoria! Se lo sposo non pagava, i coscritti lo disturbavano tutta la notte con rumore di campanacci (sampogns). In alcuni casi facevano anche degli archi con fiori e rami di abete e gli sposi dovevano passavi sotto e pagare il pedaggio. Ed in alcuni posti hanno ripreso queste abitudini».

Laura chiede informazioni sul fatto che la donna, dopo partorito, dovesse girare coprendosi con un ombrello se non si era sottoposta al rito della purificazione.

Noè: «Certo ed è una delle cose che mi dispiace perfino dire. Ma questa dell’ombrello accadeva tanto tempo fa, prima che io nascessi. Se una donna doveva uscire di casa prima del rito di purificazione, doveva coprirsi con l’ombrello. Ma io appena appena mi ricordo questa faccenda qui. Dunque: tu prete hai benedetto un matrimonio, e quindi il “crescete e moltiplicatevi”. Invece quando una donna aveva partorito, doveva subire una specie di umiliazione: il rito della purificazione. Esso si svolgeva così. Quando era finita la messa grande e tutti erano usciti, la donna attendeva fuori della chiesa il prete, che usciva con la stola e benediva la donna, la puerpera, e la accompagnava all’interno della chiesa. E per questo rito ogni donna doveva pagare qualcosa al prete. Ma come si fa, dico io, a pretendere questo atto di sottomissione per il “crescete e moltiplicatevi” dalla donna e non dall’uomo, come se a peccare non fossero stati in due?

E ogni donna, dopo sette od otto giorni che aveva partorito, doveva fare questo atto di sottomissione prima di essere ammessa di nuovo in chiesa, anche se non era andata a cercare uomini, ed il figlio era stato concepito nel matrimonio. E ogni volta che aveva un figlio doveva ripresentarsi per il rito di purificazione prima di essere riammessa a partecipare alle funzioni religiose, come se ogni atto sessuale fosse un peccato, e solo per la donna.

E un’altra cosa che trovo strana è questa della dispensa di matrimonio. Se lei, mettiamo, voleva fare l’amore con un parente, con un cugino o con il figlio di un cugino, per sposarlo doveva chiedere la dispensa per il matrimonio e pagare. E questo accadeva anche se due figli di cugini volevano sposarsi. E una volta si sposavano fra parenti di più che adesso». 

 Laura Matelda Puppini. Ludaria. La prima casa all’estrema sinistra, guardando, è la casa di Noè D’ Agaro. Foto elaborata. 

«Vede quella montagnetta lassù? Lì è la località Casadorno. Una volta all’anno, circa all’ epoca della Festa del Bambin, i ragazzi, i coscritti salivano a Casadorno e lì accendevano un grande fuoco, e facevano, scherzosamente, la lista dei possibili fidanzati. E abbinavano fidanzati immaginari o veri, per esempio tizio con la signorina tale, sempronio con la signorina talaltra, e gridavano forte: “Avverrà il matrimonio tra Maria e Mario!” per esempio. E nel contempo buttavano giù dal colle, verso la valle, i tizzoni infuocati, cioè tiravano “las cidulas”. E così si creavano anche delle liti, perché, per esempio, chiamavano “Maria” con uno di cui lei non voleva proprio saperne, e via dicendo, e l’indomani c’erano sempre baruffe in paese.

E i coscritti vanno anche la notte di Capodanno per le case, incominciando alla mezzanotte e facendo tutto il giro del paese cantando la strofa di rito: «Bondì, bon principi dall’an, uio tros agns, (in grazio di Diu) la buino man a mi!” E quindi venivano a riscuotere “la buona mano”, e chi dava fagioli, chi soldi. E i coscritti giravano con una gerla, che era portata da una ragazza, e lì mettevano la roba ricevuta ed in una busta mettevano il denaro. E così fanno ancora.

E poi c’era la Festa del Bambin. E quel giorno facevano la Messa grande e suonavano le campane a festa, e sparavano anche mortaretti dalla rupe. Ma sparavano mortaretti anche quando si sposavano, qui, e lo fanno ancora. E per un matrimonio, incominciavano a sparare subito dopo la mezzanotte del giorno dello sposalizio. E dopo, quando il matrimonio era avvenuto, sparavano mortaretti ma anche con il fucile, in onore della coppia. E su un vecchio libro era scritto che questo ‘costume’ primitivo era antichissimo, e che si sparava per tener lontano il Maligno dagli sposi, dalla loro felicità. E questo uso di scacciare in qualche modo gli spiriti maligni, era già presente ai tempi dell’idolatria.

E quando qui giungeva il Vescovo per la Cresima, il padrino offriva al Cresimando una vera e propria collana di colàz, che erano delle ciambelle rotonde, che venivano acquistate nelle bancarelle del mercato davanti alla chiesa, e che venivano unite come fossero una serie di anelli.

L’Ispettore Scolastico Geremia Puppini davanti al Duomo di Tolmezzo indossa un “colaz”, scherzando, in occasione della Cresima del nipote Marco Candido.

Invece per il battesimo di un bambino facevano poco e nulla, e, come ti ho detto, in occasione di un matrimonio sparavano mortaretti e con i fucili, urlavano evviva, ma nulla di più. Neppure i signori facevano di più perché non c’era la possibilità, e se lo sposo era di fuori e pagava, organizzavano un ballo, in una stanza della latteria o di una casa, dove trovavano un luogo libero da affittare, così, alla buona. E qui, in paese, chi sapeva suonare la fisarmonica, chi il violino, chi la chitarra. E dopo che hanno costruito la latteria frazionale, a Ludaria ballavano principalmente lì. E ogni ballo di sposalizio iniziava con la coppia impegnata, che apriva le danze da sola, e ciò veniva concesso come segno di gratitudine per la somma versata.

Quando poi era San Marco, qui, con in testa il prete, facevano il giro delle frazioni, dei prati e dei campi, con una grande croce. Ed a questa processione delle rogazioni partecipava tutto il paese e partecipavano anche i bambini, che si costruivano delle piccole croci da soli e le portavano con sé. E questa processione era fatta perché il raccolto fosse abbondante, e tutti pregavano. Ed andavano da qui, da Ludaria, sino a Casadorno, e facevano tutto il giro delle chiese passando per la campagna, e dicevano che dove passava il prete con la croce tutto cresceva meglio e il Signore preparava ad un raccolto abbondante. E questa processione terminava alla chiesa di Sant’Anna. Ed in alcuni luoghi, dove c’erano tanti campi, il prete si fermava e li benediceva. E partivano qui verso le sette del mattino, e rientravano a mezzogiorno. E la processione più grande partiva dalla parrocchiale di Rigolato e raggiungeva il pianoro di Casadorno, dove la campagna era vasta, e poi procedeva verso Sant’ Anna di Ludaria. Ma anche Vuezzis ed altri paesi facevano le loro rogazioni. “E in font a erin duç stràcs, ançjo lu prieidi”.

Ma anche emigrare era una tradizione. Ma a me certe tradizioni, come questa dell’emigrazione, non vanno proprio giù.

Qui si viveva anche di contrabbando.

E c’erano anche persone che contrabbandavano tabacco sia da presa che da fumo, in particolare da pipa, da quello che mi ricordo. E andavano a prenderlo in Austria, a Luggau. E c’erano persone, non molte però, di qui che andavano a vendere ad altri, a terzi, in Austria ed oltre, fino in Cecoslovacchia, gioielli, anelli, catenine comperate in Italia, facendo guadagni enormi. E si muovevano spesso a piedi. Alcuni fra questi rivenditori ambulanti hanno portato addirittura una statua santa qui, da Praga: il Santo Bambino, che festeggiano alla sagra dell’emigrante, la terza domenica di gennaio, e che qui viene chiamata la “Festa del Bambin”.
E se Lei va in chiesa, vede un altare, che è stato fatto costruire da un certo Vuezz di Ludaria, dove si trova la statua, ma non so se sia stata rubata o comperata o che.

Ma comunque le persone che vivevano di contrabbando erano rarissime, ma quelle che lo hanno fatto si sono arricchite. Comunque io non so di alcuno che qui, a Rigolato, vivesse di contrabbando, E molti che lo praticavano erano di Mieli, che è una frazione del comune di Comeglians. E quando ero bambino, contrabbandavano in particolare tabacco da presa.

Quel ritrovamento ad Infier di Collina di Forni Avoltri.

E ora vi racconto un’altra storia. Nel 1915, quando ero ragazzo ero a lavorare a Collina di Forni Avoltri nella costruzione di una strada che da Collina andava verso il Cogliàns. Ed in ‘Infièr’ (1) di Collina, uscendo dal paese, un vecchio zappava, e poi io, per aiutarlo, portavo fuori le erbacce e terra con la carriola. E zappando, ha trovato delle ossa e dei cimeli, degli anelli e delle catene d’oro. Lì sopra c’era una specie di ospedaletto dove lavorava un tenente che, sentito delle ossa e degli ori, ci ha intimato di portare tutto subito da lui.  E noi avevamo timore di lui, perché era un ufficiale, e gli abbiamo portato tutto, ossa, anelli, catene e tutto quanto. E non abbiamo visto più niente, e chissà che fine hanno fatto.  E chissà di chi era quella roba lì! Ma deve sapere che dicevano, per antico, che lì ci fosse stato un cimitero particolare.

Laura Matelda Puppini. Boschi in comune di Rigolato.

Storie e storielle, di qui.

Mi chiede delle “Agane”. Il luogo delle “Agane” era “sotto il Cret”, e lì c’era una grotta dove stavano le “Agane”, che erano una specie di streghe. C’era poi un luogo che chiamavano “Il cret dal Maciaròt”. “Maciaròt” significa un po’ ebete. Egli dormiva in una tana, su a Ludaria, posta in un luogo poco accessibile e dove in genere ben pochi passano. E il “Maciaròt”, che era una specie di Selvaggio, scendeva la notte ad elemosinare, e poi ritornava nella sua tana.

Poi c’era la leggenda dei “danâts”, dei condannati all’Inferno, che erano costretti a stare in una grande roccia. Ma io non credo a queste stupidaggini! E la notte dei morti suonavano le campane, e dicevano che i morti uscivano dal cimitero, e bisognava star attenti e pregare.

Mi chiede della storia della cagna di Cec? Ora te la racconto, e questa è una storia vera. C’era a Forni Avoltri una cagna. E questa cagna faceva servizio da Forni a Luggau. E questa cagna apparteneva ad una famiglia che era soprannominata “Chei di Cec”. E avevano costruito, per questa cagna, una specie di sporta, e gliela attaccavano al collo, e faceva la postina andata e ritorno, da Forni Avoltri a Luggau. E questo accadeva ai primi del 1800 credo. E questa cagna andava, e tornava, andava e tornava, ma un giorno non tornò più. E in primavera sono andati a cercarla, e l’hanno trovata morta perché era caduta in un burrone o in un pozzo.

Così, quando qualcuno si arrabbia con qualcun altro, si dice: “Che ti succeda come la cagna dei Cecs!” E non è certo un buon augurio, questo».

In questo modo termina un’altra parte dell’intervista a Noè D’ Agaro, che non è però l’ultima, perché mi ha narrato anche altro: sul legname, sul suo incontro con Umberto Candoni in Francia… Ma per ora basta così.

Laura Matelda Puppini

(1). Per ‘Infier’ di Collina di Forni Avoltri, cfr. Enrico Agostinis, II luoghi e la memoria. Toponomastica ragionata (e non) della Villa di Collina, Territorio della Carnia, in: https://www.alteraltogorto.org/alto-gorto/collina/i-luoghi-e-la-memoria.html, voce 137. Infier. Quivi si legge: «Infièr [tal -] Q1525, ✧SO. Prato in ripido pendio [prato inselvatichito, boschina mista e ontani]. Infièr è l’inferno (Sc113) dal lat. infernus (REW4397). A stretto rigore il toponimo dovrebbe declinarsi al plurale, Infièrs, in quanto si tratta di una serie di prati di varie dimensioni separati da scoscendimenti, agârs e ogni sorta di ostacolo. Uno per tutti, dagli Infièrs soprastanti l’Infièr Adàlt (quindi gli “Inferni sopra l’Inferno alto”!) il fieno era gettato di sotto per un canalino verticale e raccolto più in basso.
Il toponimo, davvero splendido e terribile nella sua immediatezza, si deve tanto all’esposizione del luogo, in pieno sole per tutto il meriggio, quanto alla protezione dalle correnti d’aria. Nel periodo della fienagione, il risultato è una sensazione di caldo opprimente, esaltata da una presenza di insetti veramente straordinaria: il sole martella senza requie e il terreno irraggia anch’esso il calore che non riesce ad assorbire. In una sola parola, un autentico inferno. Il luogo era raggiunto da un sentiero che prendeva avvio in Cjalgjadùor e, aggirando a O il costone e muovendo verso N, portava in Navos e agli Stuàrts per giungere infine all’Infièr abàs (costituito da due grandi prati) e infine, oltrepassato il piccolo Agâr dal Infièr, all’Infièr adàlt.

L’immagine che accompagna l’articolo è mia, risale agli anni 80 o 90, ed è stata da me elaboata nel colore. L.M.P.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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