Un giorno del lontano 1978 e, successivamente, l’11 aprile 1980 e quindi oltre quarant’anni fa, io e Alido, che è mio marito, siamo andati a trovare Noè d’Agaro, nato nel 1901, considerato il saggio del paese di Ludaria di Rigolato, che ci ha raccontato molte storie personali e non, ed anche il perchè è diventato socialista. Come faccio d’abitudine, ho diviso il testo che riporta quanto ci ha narrato per argomenti. Ma ho intervistato più volte Noè, e quindi il suo racconto non finisce qui. 

LE TROPPE FATICHE DELLE DONNE.

«L’emigrazione un tempo qui era una scelta obbligata, perché qui c’erano povertà e ignoranza generali e non c’era lavoro. Ed io ho dovuto emigrare che avevo 12 anni.  Ma devo aggiungere pure che, a tanti poveri uomini che avevano incominciato ad emigrare mezzi analfabeti, nessuno ha mai chiesto da dove provenissero, perché era importante solo che sapessero il mestiere. Ed io, che sono stato un emigrante, ho dovuto imparare lingue straniere perché era necessario, e cercare di fare il mio lavoro sempre meglio per poter affrontare la vita e lottare per la stessa.

E qui c’era solo il lavoro dei campi, ma quello lo facevano le donne. E le donne dovevano accudire alle faccende di casa, ai bambini, alle vacche ed allo sfalcio del fieno anche in montagna. E queste povere donne portavano a valle il fieno nelle gerle, ed era fieno fatto pure in alta montagna, anche a 1600 metri. E questo tipo di lavoro pesava tutto sulle donne e pareva quasi una vergogna che lo svolgessero gli uomini.

E mi ricordo che, quando ero ragazzino, sono passati due triestini, che però non erano villeggianti qui, ma che giravano le nostre montagne, il Pleros, il Cogliàns, scattando fotografie di panorami locali e mucche al pascolo. Essi stavano percorrendo la via che dal monte Tullia porta a malga Çjampiut e Staipe Vas, e quindi a Rigolato. E nel tragitto si erano fermati ad immortalare una donna con la gerla sulle spalle che scendeva carica di fieno, forse quaranta chili, forse cinquanta, e l’uomo dietro. E lui, che per caso non era all’estero, camminava solo con il rastrello sulla spalla, fischiettando. E si sa che il rastrello pesa poco, quasi nulla. Non so se mi spiego… La dolce metà carica di fieno, e lui che scendeva fischiettando …
Comunque per farla breve I due triestini li hanno fotografati, e poi hanno inserito la foto in un loro fascicoletto con la dicitura: “Usi e costumi della Carnia”. 

Ora invece è cambiato tutto, e anche l’uomo aiuta la donna, quando può. Ma secondo me c’è poco da aiutare in campagna perché ormai, almeno qui a Rigolato, i 2/3 dei prati sono abbandonati e semmai si fanno nuove piantagioni mentre il bosco avanza.

Giuseppe Di Sopra. Bambina con il “geùt”. Forse primi anni ’20. 

Un tempo però in Carnia c’erano solo grossi latifondi e la proprietà non era così parcellizzata, insomma era come in Val Pusteria. E i contadini lavoravano la terra anche utilizzando i buoi, che trascinavano l’aratro e che servivano pure per il trasporto. Questo credo accadesse prima del 1600. Ma poi la proprietà si è frazionata e si è giunti alla situazione che pochi metri quadri di prato o campagna possono avere più proprietari, e le donne sono costrette a fare il lavoro dei buoi.
Insomma è vero che una volta la donna veniva calcolata né più né meno che come una bestia da soma e che doveva anche “esser buona per il letto” quando voleva il maschio. E Il maschio non lavorava la terra, non portava la gerla. E poi le donne avevano il compito di far figli. Ma dovevano avere rapporti sessuali quando voleva l’uomo, ed in genere non godevano mai, ed erano passive, mentre era il maschio che voleva e comandava. E anche se la donna era stanca doveva ubbidire. E guai a rinnegare il ruolo sessuale del maschio! Forse in qualche caso avrà desiderato anche lei … ma …

Inoltre tanti uomini, ma non tutti, andavano a giocare alle carte in osteria, e gli amici venivano perfino a chiamarli a casa per fare la partita, e si fermavano fin tardi a giocare. E le donne ad una certa ora andavano a cercarli con la lanterna (ferâl), per riaccompagnarli a casa, temendo che, avendo bevuto troppo, potessero cadere e farsi male. E comunque le strade ed i ‘trois’ un tempo erano poco illuminati e pericolosi. E spesso la donna veniva accolta da un “Va a cjase, porco …”.  Bestemmiavano spesso gli uomini, allora.

E queste donne si alzavano presto, anche alle 4 del mattino, per accudire le bestie e più lontana era la stalla più presto dovevano alzarsi. E percorrevano al buio o quasi le strade portando con sé il “feral”, e poi tornavano a casa e preparavano il caffè per l’uomo in particolare, se era a casa. E facevano anche tutti i lavori di casa, e qualche volta, se andavano a falciare, tornavano a mezzogiorno alla loro abitazione, ma qualche volta se i prati erano lontani, portavano con sé la “merenda” cioè qualcosa da mangiare, un po’ di polenta e formaggio …  E poteva accadere che donne andassero a servizio, prima di sposarsi, in alta Italia o in Friuli, e spesso il matrimonio era il risultato di un accordo tra famiglie. Ed ai tempi antichi moglie e figli davano del voi all’uomo di casa, mentre egli dava del tu a tutti.

Laura Matelda Puppini. Particolare di un deposito a Stalis di Rigolato, vicino alla casa che era stata di Beppo di Marc, fotografo.

Comunque, sia come sia, l’agricoltura era la ricchezza di allora, e chi aveva terreni era considerato ricco. E la gente povera doveva andare a lavorare anche i terreni altrui,  anche in affitto. Qui c’erano dei proprietari di tanta terra, e avere tanta terra era possedere una ricchezza, e quindi chi l’aveva era considerato un benestante.  E la povera gente, per vivere, andava a lavorare i campi a mano, con falce, vanga e rastrello, e lavorava a metà o ad un terzo, cioè metà fieno al padrone e metà per sé, o due terzi al padrone ed un terzo per sé. E dovevano pure portare quanto spettava al padrone del fondo nella sua stalla. Ed a me questa pare una schiavitù.

E c’erano pure delle donne che andavano ad accudire le bestie nelle stalle dei ricchi, e che davano il fieno derivato dalla mezzadria o dal terzo alle vacche che potevano essere otto o dieci. E vi garantisco che ora mi pare quasi impossibile di aver passato quei tempi là, quei tempi di schiavitù. Perché ora puoi fronteggiare anche culturalmente il padrone e dirgli: “Cinque per cinque fa venticinque, sor paron, e a riverirla”. Ma se lo facevi allora, ti dicevano: “Ma queste sono porcherie! Sei senza Dio, senza Regno!”. Insomma la verità doveva essere sempre quella che diceva il padrone, e se non la accettavi venivi ritenuto un senza Dio».

LE DURE CONDIZIONI DELL’EMIGRAZIONE.

«Gli uomini emigravano per lo più in Austria ed io ho incominciato ad emigrare all’età di 12 anni. Anche mio padre emigrava e faceva il capomastro, ed io ho iniziato ad andare all’estero con lui. Egli ed altri miei parenti prendevano in appalto la costruzione di case a cottimo. Là c’erano grandi imprese che prendevano a lavorare questa povera nostra gente locale, e mi ricordo che molti venivano a pregare mio padre che li mettesse in nota fra quelli a cui dare lavoro la primavera seguente. E chiedevano solo di essere messi in lista, che a loro pareva già tanto …
E andavamo emigranti dalle parti di Salisburgo, a Bischofshofen, la corte del vescovo. Sapete, io ho imparato a scuola il tedesco, ma ora non me lo ricordo più.

I bambini facevano i manovali, e dovevano pure lustrare le scarpe agli adulti. E, poveracci, facevano pietà! Oltre alla nostalgia che avevano per la mamma, per la casa … dovevano ubbidire e guai a sgarrare! E lavoravano dieci- dodici ore al giorno, e mangiavano solo polenta tre volte al giorno. Questo in un primo tempo, poi, più tardi, hanno iniziato a fare anche la minestra, ma raramente, e veniva dato un chilo di formaggio alla settimana che doveva bastare per tutti. E lassù i vecchi bevevano più birra che vino.

Ma vi voglio raccontare un episodio che è capitato a me. Una volta io e Marco Candido, zio di suo marito, che aveva qualche anno più di me ma era mingherlino e faceva il cuoco, siamo stati chiamati dal contabile dell’impresa, che teneva i conti della spesa per gli operai, e questi ci ha detto: “Domani portatemi un sacco di croste di polenta”. E noi abbiamo detto: “Sì, sì, sior Bortul” – perché si doveva ubbidire. L’ indomani, però, era un giorno di festa, e io mi vergognavo a farmi vedere in giro con questo sacco, un sacco lungo, da portare uno davanti e l’altro dietro.

Bisognava passare un ponte della Salzach, che è un affluente del Danubio, ed al di là c’era il centro città. Noi invece ci trovavamo un po’discosti dal centro, in un’area dove facevano case per gli impiegati del governo, pagate dallo stesso. E io mi vergognavo a farmi vedere così, in centro, con questo sacco, dai miei coetanei, il giorno della festa, quasi fossimo due poveracci.
Ora io tenevo il sacco dietro e Marco davanti. E io ho detto a Marco: “Cosa facciamo? Io non passo, così”. “Neppure io” – ha risposto Marco. E abbiamo vuotato il sacco nel fiume. E mi ricordo queste croste che andavano galleggiando lungo il fiume.

Dovete pensare che c’erano allora questi capi, tra cui mio padre, che ci obbligavano prima a lustrare le scarpe, poi ad andare alla messa, altrimenti erano guai, poi a fare dei lavori di poca importanza come lisciare l’intonacatura, gratis. E a me pare fosse un po’ esagerato quello che ci richiedevano, per la verità, ma qui era così, e questo mi faceva pensare.

Zef di Nano (Giuseppe Candido), padre di Marco Candido, anche protagonista del mio: Marco Candido soldato, con la figlia Ines. (Archivio Alido Candido).

Ma per ritornare al sacco di croste, è finito nel fiume. Quando è terminata la quindicina, il contabile ha chiamato mi padre e gli ha contestato le croste di polenta pagate e mai giunte. E mio padre ha detto che avrebbe immediatamente chiarito la questione. Così, quella sera, in baracca, si è formato una specie di tribunale composto da mio padre, dal padre di Marco, Zef di Nano, da un mio zio e dal contabile. E ci hanno detto che non avevamo portato le croste e ci hanno chiesto dove fossero finite. Noi, intimoriti, esitavamo, ed allora il padre di Marco, che era un uomo terribile, ha preso un coltello, ci è venuto vicino e ci ha intimato di dire la verità. E Marco ha incominciato a piagnucolare, ed ha detto: “Non sono stato io, è stato Noè!”.

A questo punto mio padre è venuto vicino a me per interrogarmi, ed io ho detto che le avevamo gettate nel fiume. Allora, cara mia … Ci hanno castigati. Abbiamo dovuto pagare le croste con il lavoro, con trattenute sulla paga e ci hanno riempito di rimproveri solenni. Era così a quei tempi, c’erano di quelle abitudini impensabili adesso, e si doveva subire anche umiliazioni … E i padroni erano minacciosi, e bisognava pregar Dio di non aver fatto niente.

Mi avete chiesto, poi, se c’era anche qualche donna che emigrava. Per la verità c’erano alcune che andavano insieme agli uomini, e io mi ricordo pure di una squadra formata da donne, ma erano rarissime.
E queste imprese tedesche pagavano meno che potevano, e si mangiava male e si era trattati male. Ed anche gli operai austriaci non ci trattavamo bene e non ci consideravano. E così io ho incominciato a riflettere: “Perché queste differenze di classe?”
E, credendo in Dio, pensavo che Egli avesse dato la vita a me come l’aveva data agli altri, e mi chiedevo perché avesse fatto alcuni molto ricchi e tanti molto poveri, perché nel mondo ci dovessero essere ricchi e poveri.

ISTRUZIONE E SOCIALISMO.

Tanti emigranti sono diventati socialisti, ma non ribelli.  Nella valle, inizialmente, il socialismo era veramente sentito a Prato Carnico più che a Rigolato. Poi verso il 1909, o 1910 o 1911, non ricordo bene, sono venuti nel comune ad insegnare dei maestri e delle maestre romagnoli. C’era un maestro che si chiamava Fiori, un altro che si chiamava Moriggi, e due sorelle maestre che si chiamavano Iole e Cinta. E quelli erano veramente socialisti. Ma la maestra Iole era davvero severa, e ti piegava le dita con il righello se arrivavi in ritardo o se avevi perso un giorno di scuola.

E questi maestri un giorno sono andati a protestare dal sindaco perché, dopo le lezioni, veniva a scuola il prete ad insegnare il catechismo, e così i bambini si dimenticavano quello che avevano appena appreso. E così poi è andato a finire che, avendo costruito l’asilo, si andava al catechismo lì.
Erano romagnoli, di Faenza e di Forlì, di quelle parti, insomma. Ma forse Fiori era di Rimini. E hanno fissato nella nostra mente questo concetto: “Nessuna sottomissione né ai preti né ai signori! Uomo tu, uomo io”. E “perché mi devi guardare di traverso, perché sono povero?”

Vedete, adesso c’è poca differenza fra un ricco ed un povero, ma allora si lavorava quasi in schiavitù e vi era miseria. Pensate che a mio padre hanno comperato il primo paio di scarpe a dodici anni, ed erano scarpe di seconda mano che costavano ben due lire! Ed in primavera andavamo scalzi e d’inverno con ciabatte fatte alla buona.

Io sono stato in Africa ed anche in India e guardavo i giovani lì e mi ricordavo di noi ragazzi: e non c’era molta differenza. E non vorrei parlare di cose scandalose, ma noi, da bambini e ragazzetti, si andava in giro mezzi nudi, scalzi, si faceva pipì sui bordi delle strade e altre cose, senza vergona, perché era abitudine far così.
E c’era miseria, e c’era ignoranza, e penso talvolta a tutte le umiliazioni che abbiamo dovuto subire, a che gioventù abbiamo passato: non un vestito decente, nulla di nulla! E lottare per migliorare le nostre condizioni di vita era quasi un obbligo. Perché alcuni dovevano subire tanto, per esempio quelle povere donne che andavano su in montagna, e altri no? Ma allora non c’era cultura.
Io però ho fatto le scuole ed ho constatato che il sapere è la lampada che illumina la strada della vita.

Giuseppe di Sopra. Ludaria di Rigolato prima del 1927.

E dovete sapere che a Rigolato, già ai primi ‘900, c’era una scuola professionale serale di disegno, ed io l’ho frequentata.  L’aveva organizzata il maestro Fiori insieme ad altri socialisti di Rigolato fra cui i Lepre, parenti del senatore socialista Bruno, che erano pure loro emigranti. Ed io sono andato a scuola proprio dallo zio del senatore. E così, dopo aver frequentato la scuola, si andava all’estero con una certa istruzione, non ignoranti del tutto. E nel corso delle lezioni mostravano anche dei disegni fatti per edifici che avevano costruito in Austria o in Germania. E mostravano la pianta ed il prospetto del fabbricato. E ci insegnavano a fare prima il disegno geometrico e poi l’ornato.
La scuola di disegno era già attiva nel 1912- 1913, ed era pagata dal comune come gli insegnanti, ma non si imparava la lingua, perché quella la si imparava poi, con l’emigrazione.

E i miei antenati non hanno fatto scuole, ed ai tempi dei miei nonni l’80 – 90% della popolazione era analfabeta. E c’erano in paese 4 o 5 scritturali che andavano per le case a redigere contratti di compra – vendita così alla buona, e poteva anche capitare che scrivessero quello che volevano.  E c’erano anche delle ragazze che non erano analfabete e che andavano a casa di altre giovani per scrivere per loro lettere ai fidanzati emigranti in Germania, in Austria…. Ma questo accadeva prima che io nascessi.
E gli uomini emigravano, prima della prima guerra mondiale, soprattutto in Austria, Germania e Romania. E andavano in Romania a fare i boscaioli, in Austria e Germania a fare i muratori. Ed in genere ritornavano l’inverno e poi ripartivano, tranne pochi che restavano fuori per tempi più lunghi. Poi, dopo la prima guerra mondiale, si emigrava in Francia, ed anch’ io sono andato lì.

Mio padre non aveva una idea politica precisa, mentre io sono socialista, ed ho sicuramente preso un po’ del mio credo dai maestri romagnoli. E poi io ed altri abbiamo sempre lottato per il socialismo».

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Questa è solo la prima parte della trascrizione delle interviste a Noè D’ Agaro, fatte da me e da mio marito il dott. Alido Candido, di cui Zef di Nano era il nonno paterno e Marco lo zio, che continuerà con altre parti che trattano di boschi, aste del legname, contrabbando, usi costumi e tradizioni. L’immagine che accompagna l’articolo è il panorama di Ludaria scattato da Giuseppe Di Sopra e già qui inserito. Buona lettura.

Laura Matelda Puppini

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