Mi giunge uno strano invito dalla sezione Anpi di Paluzza, di cui non capisco il senso: esso riguarda la presentazione del libro scritto da Fabio Verardo sugli stupri cosacchi a donne in Carnia, intitolato “Offesa all’onore della donna”, ma parla pure di pacificazione. Infatti così recita: «“Offesa all’onore della donna” – dott. Fabio Verardo ricercatore “… è possibile una pacificazione? …”»

«Oddio, cosa è questa nuova?» – Penso tra me e me, mentre mi vengono alla mente: il tentativo di “pacificazione” voluto da Giovanni Miccoli a Trieste per le foibe, miseramente fallito non certo per colpa sua, e quello fra Giovanni Padoan ‘Vanni’, e don Redento Bello ‘Candido’, che dopo “lo storico abbraccio” dell’estate 2001, aveva rilasciato un’intervista a mio avviso piena di acredine contro i garibaldini e gli sloveni. (“I diritti umani li ho sempre considerati qualcosa di sacro”, intervista a don Redento Bello ‘Candido’ – Udine 22 dicembre 2003, in: Liceo Classico “San Bernardino” Tolmezzo, Voci della memoria, Gemona del Friuli, 2004, pp. 19-41).
Egli, a p. 38 così si esprime, rispondendo alla domanda: «Lei quando ha iniziato a spingere per la pacificazione con i garibaldini»?  «Subito dopo il 1965, quando ‘Vanni’ ammise le prime colpe dell’eccidio. Ma volevo che i garibaldini si facessero avanti e chiedessero perdono riconoscendo, condannando e risarcendo il più possibile l’episodio. Solo più tardi ‘Vanni’ si è reso disponibile a chiedere perdono alle famiglie e questo è un risarcimento morale della ferita. Lui ha chiesto perdono per sé stesso, comunista e marxista, unico comandante ancora in vita, e per tutti coloro che la pensano come lui».  Inoltre continua dicendo che «L’Anpi non riconosce la propria responsabilità perché nata successivamente, e non accetta la pace, ma tale scelta è ideologica». A parte il fatto che non si capisce di quali misfatti, secondo don Bello, avrebbe dovuto farsi carico l’Anpi, le immagini ed i testi di quell’estate 2001 rimandano alla pacificazione fra osovani e garibaldini, fra Apo ed Anpi, non ad una assunzione di responsabilità da parte di ‘Vanni’ per l’eccidio detto di Porzûs, (perché a questo credo di riferisse qui don ‘Candido’), e men che meno ad una richiesta di perdono per il suo esser marxista e comunista, allargata a tutti coloro che lo erano ed erano stati. E pure Federico Vincenti, presidente allora dell’Anpi di Udine, nel narrare gli incontri tra Padoan e don ‘Candido’, conclusisi con la ‘pacificazione’ così aveva descritto la finalità degli stessi: «Don Redento veniva a trovarci spesso. Lui e Vanni parlavano in continuazione per poter concordare la riconciliazione tra Apo e Anpi. Fu un processo lungo, si incontrarono molte volte. Io personalmente sono sempre stato favorevole alla pacificazione, quando ho partecipato alle cerimonie dell’Apo ho parlato e ho ricevuto anche degli applausi». (Maurizio Cescon, Don Bello e Vanni: per la pace di Porzus anni di confronto, in Messaggero Veneto, 14 febbraio 2013).

Non solo: nel contesto specifico dell’incontro paluzzano, giova ricordare che «lo stupro di guerra e la schiavitù sessuale sono oggi riconosciuti dalle convenzioni di Ginevra come crimini contro l’umanità e crimini di guerra.  Lo stupro oggi è anche affiancato al crimine di genocidio quando commesso con l’intento di distruggere, in parte o totalmente, un gruppo specifico di individui». (https://it.wikipedia.org/wiki/Stupri_di_guerra).

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Un concetto che mi viene poi alla mente, nel riflettere sulla ‘pacificazione’, è quello di ‘risentimento’, come definito dal grande Jean Amery, di famiglia ebraica, partigiano in Belgio, catturato e selvaggiamente torturato, poi finito in campi di concentramento. Dopo la liberazione, egli guarda la Germania occidentale che appare, agli occhi dei più, come un esempio di «fioritura economica, […] stabilità democratica e moderazione politica». (Jean Amery, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati -Boringhieri. ristampa 2002, p. 112). E dice: «Non mi sento a mio agio in questo paese pacifico, bello, popolato da persone capaci e moderne. Il motivo lo si sarà già intuito: appartengo a quella specie dì uomini, fortunatamente in via di estinzione, abitualmente definita ‘vittima del nazismo’». (Ibidem).

Egli, posto davanti ad una Germania i cui caffè sono di nuovo pieni di quegli industriali che avevano sfruttato il lavoro nei lager e di ex nazisti, e ove le case e le città ricostruite, le fabbriche nuovamente attive, i balconi fioriti di gerani paiono segni per lasciare il passato alle spalle, si interroga sul ‘risentire’, come sentimento ineliminabile, ma anche come strumento per la riflessione sui valori morali, che non possono, a suo dire, andare e venire come le mode.

«Perché non dovrei avere risentimento?» – pare chiedersi. Infatti esperienze così dolorose, secondo lui, non possono esser dimenticate, ma invece devono venir rivissute per poterne trarre un insegnamento etico. Se si affrontasse il tema del ‘risentimento’ nella prospettiva della polemica politica, poi, a suo avviso «si giungerebbe, senza troppi sforzi, alla conclusione che i risentimenti sopravvivono perché, nella vita pubblica della Germania Occidentale, restano attive personalità che furono vicine ai persecutori, perché i criminali hanno buone possibilità di invecchiare rispettabilmente, e di sopravvivere, trionfanti, a chi del nazismo fu vittima». (Ivi, p. 113). E conclude: «Devo assumermi la responsabilità del mio risentimento, accettando il giudizio negativo della società», che vuole il suo superamento.  (Ibidem).

E quindi continua dicendo che, a lui, vittima, torturato, offeso, guardare serenamente ai giorni futuri riesce tanto difficile quanto ai persecutori di ieri riesce sin troppo facile. Inoltre, secondo qualche uomo ispirato, le vittime dovrebbero interiorizzare ed accettare l’antico dolore. Ma gli mancano, per farlo, la voglia, il talento, la convinzione. «Non posso, in nessun caso – afferma- accettare un parallelismo tra il mio percorso e quello degli uomini che mi punivano a nerbate. Non voglio diventare il complice dei miei torturatori. (…). Le montagne di cadaveri che mi separano da loro non possono essere spianate». (Ivi, p. 120). Ed «Il mondo che perdona e dimentica» – sempre – secondo Amery, ha già condannato le vittime, non i carnefici. (Ivi, p. 128).

Così scrive, nel merito del pensiero di Amery, Sara Ballabio: «Améry si scontra vivamente con il comune andamento della storia, quella storia che integra a poco a poco lo sterminio. Hitler e Himmler si spostano lentamente verso un passato storico, la punta lancinante dello scandalo si spezza, una coltre di normalità si stende sull’intero paesaggio della coscienza tedesca e ogni senso reale svanisce. In questo modo, […], la vera “colpa collettiva” sembra pesare paradossalmente sugli ebrei: colpa di ricordare una insostenibile enormità del male che tutti vogliono accantonare, e di incarnare, quindi, l’irrazionalità del reale, che ci si sforza di addomesticare in consolanti rassicurazioni razionalistiche». (Sara Ballabio, La sconfitta dello spirito ad Auschwitz. Le riflessioni di un testimone diretto – dal libro: Intellettuale ad Auschwitz di Jean Améry, in: http://ospitiweb.indire.it/~copc0001/ebraismo/amery.htm)

Mi pare che Amery chiarisca il perché non vi possa esistere ‘pacificazione’, assumendo il ruolo di testimone del suo esser stato vittima, che implica l’attribuzione ad altro del ruolo di carnefice, non accettando, quindi, che vittima e carnefice siano posti sullo stesso piano.

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In Italia la ricerca di una ‘pacificazione’, fra cosiddetti ‘neri’ intendendo i militi delle Brigate Nere, Rsi, e X Mas, e i cosidetti “rossi”, intendendo i resistenti al nazifascismo, ha origini lontane e tende ad accomunare fascisti e partigiani, in una visione ideologica precisa, che confonde e non analizza, e che pare propugnata da collaborazionisti in cerca di nuova verginità, dimenticando l’asservimento ad Hitler della Repubblica di Salò ed i loro comportamenti, e cercando di portare a livello pubblico una rimozione personale di quanto fatto durante la seconda guerra mondiale. (Cfr. per esempio: Sonia Residori, Una legione in armi. La Tagliamento tra onore, fedeltà e sangue, Cierre ed. Istrevi, 2013).
Leggendo però l’articolo di Stefano Fabei, ‘Aprile ’45 la pacificazione impossibile’, in: www.storiainrete.com, sembra comunque che alla fine della seconda guerra mondiale ci fosse stata una ipotesi di accordo fra fascisti ed antifascisti per un passaggio senza spargimenti di sangue alla nuova Italia nata dalla resistenza, poi naufragato. Ma pare che l’autore si dimentichi che esistevano nella penisola anche gli alleati e che il contesto non era quello di una guerra civile ma mondiale.

Inoltre sembra che le ‘pacificazioni’ vadano periodicamente di moda, per esempio nel 2008 si parlava pure di pacificazione fra franchisti e repubblicani in Spagna (AA. VV., Pacificazione e riconciliazione in Spagna, in “Storia e problemi contemporanei”, n. 47, a. 2008, pp. 109), e Gianni Conedera pubblicava nel suo ‘Dalla Resistenza a Gladio’, nel 2009, a p. 78, una immagine che ritraeva Ciro Nigris accanto ad Alois Innerhofer, nazista delle Waffen SS, scrivendo, in didascalia, che era  «foto storica di due nemici», incontratisi sull’opposto fronte ai tempi della Resistenza ed in particolare al momento dell’attacco partigiano alle forze tedesche al ponte di Noiaris di Sutrio, poi fotografati insieme senza rancore, aspetto che forse qualcuno ha letto, penso erroneamente, come l’emblema di una specie di pacificazione, non solo personale.

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Per quanto riguarda la Spagna, Marco Puppini, vice presidente dell’Aicvas nazionale, mi scrive che in Valle de los Caidos (Valle dei caduti), ad una decina di chilometri dall’Escorial, nella comunità autonoma di Madrid, vi è un enorme mausoleo, comprendente anche un’abbazia ed una basilica, sormontato da quella che è ritenuta la più grande croce mai costruita, visibile a decine di chilometri di distanza. Esso fu progettato da Francisco Franco nel 1940 e venne terminato nel 1958, per dare sepoltura a José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange spagnola, formazione dell’estrema destra simpatizzante per il fascismo, e quindi vi fu sepolto pure il ‘Caudillo’. Ma furono posti ivi anche circa 34.000 corpi, di cui 13.000 non identificati, sia di caduti dell’esercito francista (spesso trasportati nel mausoleo senza chiedere il permesso ai familiari) che repubblicano (spesso tolti dalle fosse comuni ed ovviamente anche in questo caso senza il consenso dei familiari). Il complesso funebre fu edificato, in buona parte, da prigionieri politici e comuni, che in questo modo vedevano ridotta la loro pena; spesso però essi morivano in incidenti sul lavoro.
Ma, secondo lui, una simile esaltazione di Franco, della Falange e della chiesa cattolica, non ha niente a che vedere con la riconciliazione o il rispetto per i caduti dell’altra parte.

Inoltre questo concetto di ‘pacificazione’ appare molto biblico nella sua esplicitazione, e comporta uno “stringersi la mano davanti all’altare”, in un’ottica che considera i fatti storici e l’attribuzione di responsabilità in contesti precisi alla stregua di eventi riguardanti la sfera personale, con un passaggio dall’analisi oggettiva al vissuto individuale ed emotivo, quasi ci trovassimo davanti ad un rapporto amicale o di coppia. Infine non può sfuggire la possibilità di interpretare dette ‘pacificazioni’ con un «chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdámmoce ‘o ppassato», impensabile in situazioni come quelle creatisi nel corso della seconda guerra mondiale.

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Cerco quindi il significato di ‘pace’ in ambito storico, sul notissimo vocabolario della lingua italiana Devoto – Oli, e lo trovo facilmente: «pace: situazione contraria allo stato di guerra, […] atto che sanziona la definitiva cessazione di uno stato di guerra», per es. pace di Versailles. Cerco pure ‘pacificazione’ e trovo: «ricostruzione di una situazione o di un rapporto di pace, eliminazione di motivi dichiarati di ostilità o anche di violenze e squilibri nell’ambito spirituale e sociale», ove la connotazione del termine riporta alla sfera soggettiva, e mi chiedo ancora una volta cosa significhi ora per i carnici cercare una ‘pacificazione’ con i ‘cosacchi’, senza fra l’altro saper neppure chi siano e siano stati, non popolo unito ma insieme di più gruppi, fra cui anche giorgiani, per esempio, o ‘caucasici’.
Inoltre questo sentire emozionale, di cui la ‘pacificazione politico – istituzionale’, chiamiamola così, fa parte, non necessariamente implica una condivisione di altri, un comune sentire, ed una modificazione verso l’oggettività nel modo di leggere i fatti, e quindi permane sentire soggettivo dei pochi individui istituzionalmente coinvolti nel sostenerla, e nessuna morale o indicazione per il futuro vengono tratte dal raggiungimento della stessa.

L’unica via è la ricostruzione oggettiva da parte degli storici ed anche dei giudici, dei fatti e delle responsabilità, secondo me, dimenticando piani soggettivi. Ma purtroppo in Italia, nel dopoguerra, spesso la politica e parte della società hanno utilizzato, nei riguardi degli ex-fascisti, l’ “io non vedo, non parlo e non sento” delle famose tre scimmiette, giustificandolo con una ipotesi non dimostrata e protrattasi per decenni, di una ventilata occupazione da parte del comunismo titino di territori italiani, e tenendo così in piedi più di un “fascismo”, dando linfa a personaggi discutibili come Junio Valerio Borghese, tanto per fare un esempio, facendo in modo che si confondesse il pensiero politico cattolico con quello  fascista. (Cfr. Giacomo Pacini, Le altre Gladio, Einaudi ed. 2014, e Ferdinando Imposimato, la Repubblica delle stragi impunite, Newton Compton ed., 2012). E così è andato a finire che pure i criminali di guerra non sono stati processati o consegnati al paese ove i loro crimini erano stati compiuti, come gli accordi internazionali richiedevano. (Cfr il filmato: Fascist legacy, link in: www.nonsolocarnia.info).

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E una visione distorta della storia patria, che richiama un sentire simile a quello che porta alle ‘pacificazioni’, potrebbe esser stata la motivazione per dare 300 medaglie al valore a Rsi e fascisti, in occasione della giornata del ricordo, facendo infuriare, nel 2014, l’Anpi nazionale e non solo.

«Quelle 300 medaglie concesse dai governi in carica dal 2004 ai 300 combattenti di Salò per il «Giorno del Ricordo» dedicato alle vittime delle Foibe? Un fatto «grave e inammissibile» secondo l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia). Le onorificenze sono state date applicando la legge – (la 92 del 2004 che ricorda le Foibe) – «in netto contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Per questo occorre sospendere gli effetti del provvedimento, revocare i fregi già concessi dopo aver avviato «un’indagine accurata». (…).

La vicenda è emersa dopo che si scoperto che una delle medaglie date «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» era per un bersagliere della Repubblica Sociale di Salò, il capitano Paride Mori. (…). Nell’elenco dei medagliati — circa 300: nella quasi totalità militari della Repubblica sociale di Salò — compaiono però altri nomi. Imbarazzanti assai. Soprattutto quello di un criminale di guerra sia per la giustizia italiana che quella jugoslava: ovvero il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nella relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone. Catturato dai partigiani di Tito, venne fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Stando inoltre a carte provenienti da Belgrado, dall’«Archivio di Jugoslavia» – l’archivio di Stato della ex Jugoslavia – ci sono altri quattro criminali di guerra tra i medagliati delle foibe: si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi. Colpevoli, a seconda dei casi, di saccheggi, uccisioni a sangue freddo, torture. (…).

Le parole dell’Anpi sono tranchant: «Nessun riconoscimento – né per questa legge né per altre – può essere attribuito a chi militò per la Repubblica Sociale Italiana, in nome di una presunta pacificazione. Non c’è nulla da “pacificare”; c’è solo da rispettare la storia e la Costituzione, nata dalla Resistenza». (Alessandro Fulloni, ANPI: «togliere ai repubblichini medaglie per Legge sul Ricordo», in. Corriere della Sera, 3 aprile 2015).

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Infine come non condividere quanto diceva Guido Liguori in un’intervista a ComInform nel 1996? «C’è un’ansia di “pacificazione” che è tutta politica. Non si tiene conto dei conflitti reali che ci sono stati nel nostro passato. Si calpesta la storia, la si falsa. (…). La storia, certo, non deve rimanere rinchiusa nelle accademie. Ma neanche va tirata come un lenzuolo per esigenze politiche o, peggio, giudiziarie. Le giovani generazioni, di fronte a questo uso disinvolto, finiscono per non avere le idee chiare; giunge loro un messaggio confuso, strumentale, che non aiuta a conoscere i fatti». (http://www.sitocomunista.it/resistenza/foibe/storiografia.html).

Pertanto, alla luce di queste considerazioni, a Paluzza cosa si voleva fare, come, fra l’altro, sezione locale Anpi? Chiediamocelo. Secondo me una ‘pacificazione’ per crimini di guerra compiuti nella seconda guerra mondiale presupponeva anche in Italia che, subito dopo la fine del conflitto, si chiarisse chi fu la vittima e chi fu il carnefice, e che i carnefici venissero puniti, ma ciò non accadde qui perché invece, per vari motivi di carattere squisitamente politico, si confusero le acque spostando l’attenzione sugli sloveni ritenuti solo ed unicamente possibili invasori comunisti, e sui comunisti, fino a giungere a confondere i contesti dei fatti bellici, dimenticando che i partigiani sloveni combatterono contro il nazifascismo, e facendo passare, tra un distinguo e l’altro, in particolare con il cosiddetto revisionismo storico, i fascisti, collaborazionisti, che si macchiarono pure di orrendi delitti, come eroi della patria. (Cfr. Giacomo Pacini, Ferdinando Imposimato, Sonia Residori, Alessandro Fulloni, opere citate). E se erro correggetemi.

Senza voler offendere alcuno, ma per chiarire in modo documentato il mio pensiero, ed aprire un dibattito su questi temi.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda questo articolo è tratta da: http://slideplayer.it/slide/188665/ e ricorda la Conferenza di San Francisco. Secondo quanto concordato a Yalta, l’amministrazione Usa invitò 50 Paesi a San Francisco. La Conferenza iniziò i lavori il 25 aprile 1945. Durante la stessa si decise che i principi guida stabiliti in precedenza dalle grandi potenze non sarebbero stati rinegoziabili. Il testo adottato nella sessione finale, il 26 giugno 1945, fu sottoposto a ratifica negli stati firmatari e la Carta entrò in vigore il 24 ottobre 1945, giorno in cui nacque l’Onu, che sostituì la Società delle Nazioni. (https://www.tesionline.it/v2/appunto-sub.jsp?p=6&id=829 e https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_delle_Nazioni_Unite). Se però detta creazione sancì dei principi unificatori, essa originò anche un blocco verso l’Urss, prima alleata ad Usa ed Inghilterra nella lotta ad Hitler, di fatto ricreando una situazione di belligeranza. Laura Matelda Puppini 

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