Ho partecipato con interesse al convegno sui Celti che si è tenuto a Paularo, il 6 ottobre 2018, a palazzo Valesio Calice, che era un incontro tra esperti ma allargato ad altri. Infatti, come ha sottolineato in apertura la dott.  Simonetta Bonora, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Friuli Venezia Giulia, è importante che ogni tanto gli specialisti e gli archeologi si trovino insieme per condividere i risultati del loro lavoro, per dialogare, per sentire più voci, per analizzare le problematiche emergenti, perché la realtà archeologica non è né semplice né univoca.

La dott. Serena Vitri, già Soprintendente per i beni archeologici del Friuli-Venezia Giulia, ha precisato il perché del luogo scelto per l’incontro. Infatti, grazie alle scoperte fatte in comune di Paularo, è iniziato, nel 2001, il “Progetto Celti”, finanziato dalla Regione Fvg, che ha permesso agli studiosi di documentare molti materiali scoperti in quel periodo. La ricerca della presenza dei Celti in regione è stata condotta anche nella pianura friulana, per vedere se fosse suffragabile l’ipotesi di una presenza di “Galli di pianura”, ma l’esito è stato negativo. Quindi per ora si può parlare, per quanto riguarda il Fvg, solo di insediamenti celtici in montagna. E per quanto riguarda, per esempio, Misincinis, la presenza di Celti, (documentata ma ancora da approfondire), è temporalmente molto lunga e va dall’ottavo secolo al quarto, con tombe che, però, alla fine, non hanno più nulla di lateniano (1) celtico. Ma negli strati sconvolti e negli strati superficiali, è stato reperito materiale lateniano.

Disegno di maschio celtico, dal volantino di invito all’ incontor di Paularo. (http://www.sabap.fvg.beniculturali.it/wp-content/uploads/2018/09/PARLIAMO-DI-CELTI-DEPLIANT-1.pdf).

Inoltre, anche nelle tombe del quinto secolo a. C. si possono trovare dei materiali che possono far pensare a un qualche rapporto con popolazioni celtiche. Ma questo non turba gli studiosi, perché, per esempio in Veneto, vi furono scambi fra le popolazioni locali ed i Celti, o, forse, tra le popolazioni locali e quelle transalpine e cisalpine. Ma una cosa è certa: a Paularo si è trovata la tomba più antica della zona con presenza di materiali di tipo celtico.

Quindi la dott. Vitri pone un primo problema: si può parlare di popolazioni celtiche anche se non vi sono tombe tipicamente celtiche a sostenerlo, ma solo qualche reperto lateniano? Non sembra tutto così semplice agli studiosi, come parrebbe a noi profani, penso fra me e me. Infatti, si sono creati nella nostra mente degli stereotipi dei Celti, anche mutuati dalla politica, che non sono però suffragati dalla realtà che sta emergendo dagli studi, che non vede i Celti come un popolo isolato e confinato, ma che invece documentano scambi di oggetti e di culture.

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Quindi ha preso la parola Mitja Guštin, archeologo sloveno, professore emerito, curatore del Posavje Museum di Brežice, direttore poi della rivista scientifica dell’Accademia Slovena di Scienze ed Arti, e quindi direttore del Dipartimento di archeologia dell’Università di Lubiana, esperto in particolare nello studio dell’età del ferro e delle tribù celtiche locate nelle Alpi orientali e nei Balcani, per illustrare tre volumi, molto diversi tra loro, sui Celti.

Il primo si intitola “Celti d’Italia. I Celti dell’età di La Tène a sud delle Alpi”, ed è un volume edito a Roma nel 2017 a carattere specialistico e di non facile lettura, che contiene le relazioni relative al Nord ed alle zone alpine tenute al convegno di Roma del dicembre 2010, mentre non sono stati pubblicati i contributi relativi al centro Italia; il secondo è il volume di Giovanna Gambacurta ed Angela Ruta Serafini, “I Celti e il Veneto. Storia di culture a confronto”, Archeologia Veneta, supplemento 40, Padova, 2017. Esso è scritto con linguaggio scorrevole e si rivolge ad un pubblico vasto, ed è il risultato di un lavoro di anni ed anni sulle presenze celtiche in Veneto. Il terzo libro, opera di Rosa Roncador, è intitolato “Celti e Reti. Interazioni fra popoli durante la seconda età del ferro, in ambito alpino centro- orientale, Roma, 2017, e si può scaricare anche da internet. Esso non è semplicissimo e rappresenta il lavoro svolto per una tesi di dottorato presso l’Università di Bologna con il prof. Daniele Vitali, che è uno dei maggiori esperti di celtismo in Italia.  Esso fa il punto sulla presenza dei Celti in un territorio a cavallo della Alpi, che comprende sia Italia che non. Il volume è importante perché porta i disegni di tutti gli oggetti di cui parla, e forse si può iniziare ad ipotizzare che, sulla scia di studi come questo, vada ridiscusso tutto il “comparto retico” ma su questo tema gli esperti devono ancora confrontarsi.

La scienza è così, penso fra me e me, è fatta di ipotesi da verificare, e nuovi dati possono aprire la via ad ipotesi nuove, ed è fatta di quadri concettuali che possono mutare ed integrarsi.

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Mitja Guštin ha incominciato la sua relazione dicendo di aver avuto il compito di illustrare alcuni dati scientifici dai volumi citati. Ma in premessa bisogna dire che sotto la voce “Celti” vengono compresi molti popoli presenti, dal settecento avanti Cristo, sulle Alpi. Ed è la Grecia che ha definito, genericamente, questi popoli a nord  ‘Keltoi’, mentre i francesi li chiamarono Galli, come anche i romani.  In ogni caso – continua Guštin – quando si parla di Celti, si deve pensare ad un gruppo di popoli che ebbero molto in comune nel vestirsi, nella foggia delle armature, nelle sepolture, nella costruzione dei villaggi.

Esistono tre grandi personaggi che hanno contribuito alla ricerca sul mondo celtico, ed uno di questi fu Napoleone terzo, imperatore dei Francesi. Egli voleva dare una identità nazionalistica alla Francia, cercandola nella lettura di Cesare e delle battaglie da questi condotte contro i Galli, e nei reperti sul territorio. Per raggiungere questo scopo, ordinò ai suoi generali ed ufficiali di scavare sistematicamente su posizioni ed alture che erano note come luoghi archeologici. In questo modo, Napoleone terzo svolse un grande ruolo per l’inizio degli studi archeologici sui materiali. Ma non si deve credere che prima degli scavi francesi non si sapesse nulla sui Celti, perché Cesare era letto almeno da quattro secoli, ed esistevano altre fonti della storia antica che parlavano di loro. Ma egli fece fare alla ricerca archeologica un salto di qualità.

Altro grande studioso fu Joseph Déchelette, che ha scritto il “Manuel d’archéologiepréhistorique, celtiqueet gallo-romaine”. Egli dedicò questo suo manuale proprio agli studi già fatti sui Galli, a quello che già si sapeva di loro e sulla seconda età del ferro, ma presentò anche molto materiale sui Celti reperito in varie località d’Europa, e non solo in Francia.

Anche Paul Reinecke, archeologo e medico tedesco, fu fondamentale per lo studio dei popoli dell’età del ferro, perché divise la seconda età del ferro in quattro periodi La Tene: a – b- c- d. La sua opera risale al 1910, ma la sua suddivisione viene usata ancora da tutti coloro che si occupano di Celti o di altri popoli che vivevano vicino ai Celti o contemporanei.

Ed è importante ricordare questi tre personaggi per il peso che hanno avuto, oltre cento anni fa, per gli studi seccessivi.

Mitja Guštin. (https://www.uibk.ac.at/urgeschichte/mitarbeiterinnen/mitja-gustin/mitja-gustin.html).

Quindi  Mitja Guštin inizia a parlare della ricerca archeologica sui Celti in Italia. Una delle opere più importanti risale al 1977, ed è firmata da Raffaele Carlo De Marinis, professore di Milano, che ha scritto in lingua Inglese “La cultura La Tène nella Gallia Cisalpina” (titolo originale: “The La Tène Culture of the Cisalpine Gauls”). E Gallia Cisalpina o Gallia Citeriore è il nome conferito dai Romani in età repubblicana ai territori dell’Italia settentrionale compresi tra il fiume Adige a Levante, le Alpi a Ponente e a Settentrione e il Rubicone a Meridione.

Il periodo di diffusione della cultura di La Tène in Gallia cisalpina fu un periodo molto ricco, e la sua analisi ha contribuito allo sviluppo della ricerca sulle radici delle tribù celtiche che si erano spostate in questo territorio. Infatti, popolazioni celtiche si mossero, non restarono sempre negli stessi luoghi. Ma non è vero che,  prima dell’uscita del volume di De Marinis, non si sapesse nulla sui Celti in Italia. Infatti, nel 1977 si era già scavato a Marzabotto, ed erano già stati pubblicati alcuni lavori di Andrew Breeze ed altri, ma per l’Italia fu davvero importante quest’opera.
Nello stesso periodo uscì il volume di Gloria Vannacci Lunazzi “Necropoli preromane di Redemello di sotto e di Ca’ di Marco di Fiesse”, che fu il primo libro di taglio moderno, comprendente la catalogazione di oggetti che si trovavano nei musei. Infine, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, Luciano Salzani della Soprintendenza di Roma scavò necropoli che si rivelarono importantissime per conoscere la presenza dei Celti in nord Italia, e cioè quelle di Casalandri a isola Rizza, di Valeggio sul Mincio e di Santa Maria di Zevio.

Un altro grosso impulso agli studi sui Celti in Europa è giunto dalle diverse mostre che sono state allestite in Mitteleuropa, in Francia, in Jugoslavia, mentre un grande scavo vicino alla città di Bologna, a Monterenzio, iniziato negli anni ’80, ha restituito molti oggetti e permesso numerosi approfondimenti.

Un altro archeologo molto importante sia per i suoi scavi che per le sue pubblicazioni è, secondo Mitja Guštin, Daniele Vitali, che ha pure organizzato convegni sui Celti. Di grande interesse è un volume da lui curato che si intitola: “Celti ed Etruschi, nell’Italia centro-settentrionale dal V secolo a.C. alla romanizzazione: atti del colloquio internazionale, Bologna, 12-14 aprile 1985”, uscito nel 1987. È pure questo un libro di non facile lettura, ma importantissimo. Infine, non si può dimenticare:Les Celtes et l ‘Italie du Nord- I Celti e l ‘Italia settentrionale, XXXVI Colloquio Internazionale dell’AFEAF, Verona 2012, volume che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi nella città scaligera.  Ed è uscito, pure, un catalogo sulla mostra sui Celti tenutasi a Venezia, di levatura europea ed ultima di questo genere in ordine di tempo.

Il professor Guštin, quindi ribadisce come i Celti non fossero popolazioni che non si spostavano mai, tanto che, dopo il periodo di La Tène, giunsero, circa nel 400 a.C., fino a Roma, come ci ricorda la letteratura del tempo, ma non distrussero la città, la lasciarono in piedi e quindi ritornarono verso nord raggiungendo la valle del Po, ora Lombardia, dove si insediarono. E bisogna ricordare che, anche se i Celti vengono sempre rappresentati con elmi e spade, in realtà, pur venendo da Nord, furono pure dediti all’agricoltura, furono, se così si può dire, anche un ‘popolo contadino’, che voleva vivere stabilmente su di un territorio che desse i suoi frutti, che fosse fertile.

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Quindi il professore sloveno passa ad illustrare i 3 volumi proposti nell’incontro, tutti recentissimi, pubblicati tra il 2017 ed il 2018, tratteggiandone gli autori e soffermandosi sugli oggetti più importanti presentati nelle opere.

Il primo volume posto all’attenzione dei presenti è “Celti d’Italia”, libro pesante nella lettura, che lo stesso Guštin confida di non esser riuscito a seguire riga per riga.  Il volume è diviso in tre sezioni e riporta anche una tavola rotonda sull’argomento. Il libro è dedicato a Renato Peroni, grande archeologo italiano, che dette una linea specifica e personale agli studi. Egli studiò in particolare l’età del ferro, ma  non desiderava soffermarsi solo ad analizzare i Celti presenti in Italia, ma anche al di fuori della penisola, per poter fare dei confronti e dei raffronti. Ed il volume “Celti d’Italia” ci permette di conoscere quali argomenti fossero oggetto della sua ricerca. Ma Peroni è importante, in particolare, per aver creato una scuola di pensiero in ambito archeologico, ed aver formato un gruppo di studiosi che proseguono il suo lavoro, tutti di alta levatura scientifica, tanto che archeologi non italiani lo hanno potuto ‘ incontrare’ anche se è morto nel 2010, attraverso i suoi allievi ed i suoi insegnamenti. Egli in particolare è noto per il suo modo innovativo di datare i reperti.

Il volume ha pure una premessa che ricorda in particolare proprio Renato Peroni, scritta da Otto-Hermann Frey, emerito professore di archeologia dell’Università di Marburg, noto studioso dell’area Veneta di insediamento dei Celti in Italia. Egli, quarant’anni fa, ha pure partecipato all’XI° convegno di studi etruschi, tenutosi, ad Este e Padova nel 1976, ed ha scritto un interessante volume sull’arte delle situle, cioè dei secchi, dei contenitori.

Il volume “Celti in Italia” contiene molti articoli, di diversi autori. Uno di loro è Giovanni Colonna, che ha scritto un saggio su “I Celti in Italia nel VI° e V° secolo a. C., dati storici, epigrafici, onomastici”, lavoro molto importante, che aiuta gli archeologi classici, che amano oggetti, spade e fibule, a capire come studiare i reperti seguendo pure una chiave di lettura data da fonti storiche relative alla cultura materiale dell’epoca, ed a comprendere come si possano interpretare, oggi, le scritture celtiche pervenuteci.

Il secondo articolo è scritto da Raffaele de Marinis, Stefania Casini e Marta Rapi, e tratta degli scavi di Forcello, in provincia di Mantova, su cui esistevano già vari studi. Il parco archeologico del Forcello è un importantissimo perché è stato scavato in modo moderno ed ha fatto emergere molti materiali interessanti per lo studio del periodo compreso tra la fine della prima età del ferro e l’inizio della seconda.

Un altro articolo che si trova nel volume è stato scritto da Filippo Gambari, ed è intitolato: “I Celti nella transpadana. L’invasione dei Galli e gruppi celtici preesistenti”. In questo suo breve contributo, Gambari prende in considerazione gli aspetti storici del problema dei Celti in Italia, anche se il saggio si impernia su una situla trovata a Sesto Calende. Gambari tratta pure di questa fibula d’argento, molto bella, molto tipica, molto lateniana, che non sappiamo però se fosse di fabbricazione celtica, ma che sicuramente segue la moda lateniana celtica. Ed anche ora in Italia molti vestono blue Jeans, ma non sono americani, e seguono, semplicemente una moda importata dall’estero.

Esempi di fibule al Museo di Novo Mesto. (Foto di Laura Matelda Puppini).

Scrivendo queste righe, mi sono ricordata di un fatto che ha segnato i miei interessi archeologici. Mi trovavo, tanti anni fa, a Lauco, se non erro, ad ascoltare Maurizio Buora parlare dei Celti. La sala era zeppa di persone, in particolare di democristiani, ma anche di esponenti di altri partiti che erano venuti a sentire una conferenza ‘politicamente corretta’ cioè che seguisse il modo di pensare corrente che voleva gli antichi Carni essere una specie di galli guidati da un Vercingetorige ideale, mai domi e fieramente antiromani. Essi fecero un balzo sentendo quanto diceva il relatore. Buora disse che il fatto che si fosse trovata in un luogo una tomba celtica non significava assolutamente che ivi abitava una popolazione Celtica. Infatti un gruppo di guerrieri Celti poteva essere passato di là ed aver sepolto un capo, un guerriero morto nel tragitto. E sottolineò come, se fra centinaia di anni, uno avesse scavato in Friuli, avrebbe potuto magari trovare una Timberland, ma ciò sarebbe potuto accadere non perché in Italia abitassero americani, ma perché un prodotto americano era giunto sul mercato italiano. Questo è un pensiero profondo, condiviso anche da Mitja Guštin. I popoli non erano segregati, si incontravano, si muovevano, apprendevano, copiavano, facevano giungere oggetti dall’estero: basta vedere quanto influì l’arte greca nel Ferrarese, con riferimento alla necropoli di Spina.

E tanti oggetti reperiti pongono lo stesso problema: sono di popolazione lateniana o solo di fattura lateniana ed espressione di un gusto diffuso allora, anche tra altri popoli?  Se troviamo una fibula lateniana, non possiamo dire, se non analizzando il contesto, se essa fu prodotta da una popolazione celtica o se fu forgiata da altri popoli seguendo un gusto, una moda, che riprendeva oggetti primieramente celtici.

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Gambari poi, nel suo saggio, parla anche dei Taurici cisalpini, che interessano particolarmente al professr Guštin, perché i Taurici, che erano Celti, avevano insediamenti anche in Slovenia centrale ed orientale, e nei pressi di Lubiana.

Vi è, quindi, sul volume “Celti d’Italia”, un altro articolo sempre di Filippo Gambari, intitolato “I Celti nella Liguria”. Egli si è soffermato in particolare sull’analisi di una fibula, ma nella parte iniziale ha citato molti oggetti celtici reperiti in quella regione, tra cui parti di armature, ed elmi. Pertanto si può ritenere che detto testo faccia il punto sulla situazione ligure.

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Poi vi è il saggio di un gruppo di autori che ha evidenziato, costruendo varie cartine, i luoghi di residenza delle varie tribù celtiche. E vi è la presentazione di una tomba femminile caratteristica per i paramenti reperiti. L’articolo tende, sostanzialmente, a far spostare la datazione della presenza dei diversi gruppi di Celti nell’ Italia settentrionale intorno al terzo o quarto secolo a. C..

Quindi vi è il contributo di Philippe della Casa, dell’università di Zurigo, che ha approfondito il tema dei passi transitati e transitabili delle Alpi.
Chi vive nei pressi delle Alpi pensa che esse fossero, prima di Cristo ed anche parzialmente poi, una barriera insormontabile, mentre si sa che vi erano passi transitabili e che persone vi passavano anche per commerciare, almeno nella seconda età del ferro.
Franco Marzatico di Trento ha, tra l’altro, collocato un insediamento alpino, cosa non facile, in base ad una serie di oggetti reperiti in un’area, analizzando quali, tra essi, unissero le società di allora, assieme al modo di vivere, agli usi ed ai costumi.
Vi potevano essere aspetti similari, dati dai comuni problemi di sopravvivenza, che univano popoli, vi potevano essere interazioni, vi potevano essere assimilazioni, vi potevano essere diversità.

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Il volume contiene, poi, anche un articolo scritto a più mani, ed uno degli autori è Serena Vitri. Questo saggio presenta due piantine che mostrano come i Celti si fossero insediati stabilmente sulle montagne, non in pianura. Questo indica agli archeologi che, in futuro, dovranno affrontare il problema di chi si insediò in pianura mentre i Celti abitavano le Alpi.
Quindi il volume riporta due studi: uno di Giuliano Righi, che tratta di una spada posta ritualmente in una tomba, l’altro di Giovanna Gambacurta ed Angela Serafini, che presentano una mappa sintetica ove si vede che anche la pianura era piena di insediamenti celtici. Ma forse si è guardato il territorio con una lente troppo grande. (2).
Questa cartina, se comparata con la precedente, ci indica, pure che vi è una differenza tra gli insediamenti nella seconda età del ferro posti in montagna e quelli posti in pianura, per quanto riguarda il territorio friulano.

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La seconda parte del libro raccoglie un contributo di Gino Bandelli, che tratta dei Celti dopo la guerra Annibalica. Infatti, secondo Guštin, dopo la battaglia di Talamone, combattuta nel 225 a. C. tra i Romani e un’alleanza di tribù celtiche, il mondo si modificò.  Ogni guerra porta dei problemi e quelle Annibaliche mutarono la vita dei popoli coinvolti. Dopo questa battaglia e quelle contro Annibale, iniziò la romanizzazione del territorio, che è avanzata da Sud verso Nord, raggiungendo nel 181 a.C. Aquileia e poi Zuglio, verso il 50 a. C.. Ma non bisogna dimenticare che la romanizzazione dei territori avvenne in modo molto lento.

Quindi vi è, sempre in: “Celti d’Italia”,  il contributo di Francesco Maria Raffaelli ed altri, che hanno distribuito il materiale reperito in modo da dimostrare il procedere della romanizzazione nei territori abitati da Celti. Patrizia Solinas, invece, si è occupata dell’epigrafia celtica nel quarto e terzo secolo ed Ermanno Arslan ha scritto, nuovamente, di monete celtiche, argomento su cui è esperto. Fiondami si è soffermata sulle ceramiche della seconda età del ferro, che ci mostrano la differenza tra diverse culture, in particolare fra quelle appenniniche e quella della pianura lombarda. Alla fine del volume è riportata una relazione sulle armi dei Celti d’ Italia. Le armi che conosciamo, se sono ben conservate, mostrano pure di esser state ben decorate. E gran parte della capacità artigianale dei Certi ruotava intorno alla decorazione delle armi ed alla piccola ornamentazione. Il volume, infine, riporta pure una cartina che mostra la diffusione delle armi celtiche.

 Monete celtiche reperite in Veneto. (https://ambatii.wordpress.com/2012/05/11/la-moneta-celtica/).

Il secondo volume oggetto di presentazione è intitolato: “I Celti ed il Veneto”. Iniziando il discorso sul libro, Guštin dice che egli per primo, non essendo italiano, ha dovuto imparare che il Veneto non è Venezia, che il Veneto ha una parte anche alpina, e che il Veneto si presenta ora, amministrativamente, in modo diverso dal Veneto dei Veneti. Pertanto, il volume “I Celti ed il Veneto” tratta della storia archeologica di un territorio ben più ampio di quello definito Veneto oggi. Il volume è diviso in nove capitoli, e risulta molto utile per gli studiosi ma è anche a carattere divulgativo.

Il primo capitolo tratta della situazione del Veneto al tempo dei primi contatti delle popolazioni autoctone di pianura con i Celti che già abitavano, da centinaia di anni, le Alpi. Ma questo aspetto inizialmente era sfuggito, perché essi furono studiati solo come popoli di cultura Hallstattiana. Invece la loro cultura hallstattiana si cambiò, intorno al 450 a. C., in cultura lateniana. Lo stile delle decorazioni, prima geometrico, mutò in uno stile ‘fantastico’ se così si può dire, e mutarono, nel contempo, molti altri aspetti della cultura materiale. E chi attuò questo mutamento furono gli stessi popoli hallstattiani, che avevano imparato molto dagli etruschi e dai greci, che, avendo visto oggetti lateniani, di gusto diverso dal loro, volevano imitarli. Così non per imposizione ma per scelta, per amore del nuovo, diremmo oggi, cambiarono il loro modo di realizzare ceramiche e oggetti in metallo.

E già durante la prima età del ferro, questi Celti, che vivevano in montagna, mandarono commercianti di oggetti prodotti da loro verso la pianura, e vi furono degli scambi di manufatti, visibili nei reperti, che attestano ora sia i contatti tra i Celti e le grandi tribù che vivevano ai piedi delle Alpi, sia che detti scambi furono vivaci.
La tomba di Posmon, in comune di Montebelluna, risale all’inizio del periodo in cui questi contatti avvennero, ed è una tomba arricchita di oggetti in ceramica e di fibule in bronzo di gusto locale, ma anche di fibule nuove di gusto lateniano, con il gancio tipico lateniano.
Ed allora gli scambi erano facilitati dal fatto che non c’erano frontiere geografiche o fra i popoli, come mostra una cartina inserita nel volume.
Non sappiamo, poi, se i commercianti di allora vendessero in forma diretta o organizzassero dei mercati, o se esistessero ambedue le modalità di vendita o scambio, ma presumibilmente gli oggetti di fattura non locale finivano in ‘scuole’ di artigianato ove un maestro li faceva copiare e realizzare in modo similare.

A questo stesso periodo, posto tra la fine dell’era hallstattiana e l’inizio della lateniana, quando i contatti fra i Celti ed i loro vicini si fecero sempre più forti, risalgono una sepoltura con un cavallo ed alcune fibule, che differiscono totalmente da quelle che si usavano prima, e sono sempre di bronzo ma hanno, invece che un motivo geometrico, il disegno di un animale rituale, seguendo la nuova moda che non veniva dal sud ma dal nord. In sintesi, furono gli abitanti delle Alpi che influenzarono, questa volta, i popoli di pianura.

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Il libro introduce ogni capitolo con un titolo vivace ed attraente. Per esempio, uno si chiama: “Il tempo dei gioielli”, e bisogna capire che, allora, una armilla, cioè un braccialetto, di vetro, era già un gioiello.
Con questa considerazione, Guštin precisa come sia difficile talvolta, per noi, ora, uscire dai nostri schemi mentali per pensare in modo diverso, ma lo studio degli antichi popoli prevede questo. Per noi ora un braccialetto di vetro sarebbe una chincaglieria, allora era un gioiello vero e proprio, con un valore ben differente da quello dato ora.
Quindi il volume parla della tomba di Oderzo, ove si sono trovate fibule autoctone di tipo Certosa, ma che hanno un anello di sella d’oro, che segue un modello svizzero, e fibule celtiche lateniane, a riprova del momento di incontro fra stili diversi.
La tomba è femminile, e al suo interno sono stati reperiti oggetti provenienti, per foggia, da nord, forse portata dai primi gruppi di Celti mossisi verso il piano dai monti.

Ad uno di questi gruppi, insediatosi a Quarto d’Altino, si possono far risalire le due tombe celtiche trovate ivi, che avevano al loro interno spade tipiche celtiche ma ceramiche locali. Pare quindi, che quando i due corpi vi furono collocati, ci si trovasse in un periodo storico in cui l’arte celtica si era già venetizzata, se così si può dire. Quindi se è vero che i Celti influenzarono i popoli di pianura, questi a loro volta influenzarono i Celti.
A Quarto d’Altino si è trovato pure uno scudo ornato da una piccola placca in bronzo, tipico del secondo periodo di invasione, da nord, dei Celti. Il primo spostamento di Celti aveva portato questi popoli fino a Roma, il secondo avvenne intorno alla metà del quarto secolo, e non andò così a sud.

Museo Retico. Località Casalini in Val di Non. Figurine in bronzo di pugile e cavaliere dell’età del ferro. (Foto di Laura Matelda Puppini). 

Gli autori offrono poi una carrellata delle problematiche del periodo che va dal 325 al 250 a. C. in territorio Veneto, e questo, secondo Mitja Guštin, è un bene perché dà il contesto per capire e collocare ed una cronologia adatta agli studenti ed a fini divulgativi. A questo punto Mitja Guštin fa un’altra delle sue considerazioni profonde, che paiono battute buttate là, ma non lo sono.
Quando ero giovane, racconta per esemplificare, mi pareva che ogni cosa dovesse mutare ogni trent’anni, e trent’ anni mi parevano un’eternità, ma poi, studiando archeologia, mi sono ricreduto, e ho capito che talvolta cento anni non sono nulla, che il tempo storico non è valutabile con lo stesso metro di misura di quello di una vita.

Per noi, penso tra me e me, abituati a mutamenti veloci, il tempo anche del Medioevo è quasi impensabile, così come la progettualità e la realizzazione anche di un pellegrinaggio ad un santuario. E la mente va a “The Canterbury Tales”, di Geoffrey Chaucer. Figurarsi il tempo dei ‘Celti’.

Inoltre, se la cronologia aiuta a datare gli oggetti, vi sono però dei problemi, per gli studiosi, rappresentati dal fatto che in un dato periodo nelle tombe potevano esser stati posti oggetti databili precedentemente, che erano appartenuti a persone di una certa età. Cioè è come se ora aprissimo l’armadio della nonna, nel momento della sua morte, e la seppellissimo con gli oggetti a lei cari, che non sono però databili all’oggi, né come gusto, né come funzione, né come fattura. Questo è uno dei grandi problemi per l’archeologo.
Se degli oggetti appartenuti ad una persona sono sepolti con lei, si può dire che il gusto e la foggia con cui sono stati costruiti sono contemporanei al decesso ed all’inumazione? Parrebbe così ma non sempre è vero. Per questo bisogna analizzare i contesti e più fonti, anche scritte, se reperibili, bisogna comparare, bisogna analizzare, per cercare di capire, non fermandosi allo studio del solo manufatto. Questo io ho capito dal prof. Mitja Guštin.

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Naturalmente esistono dei criteri di classificazione: per esempio per chiarire se tombe maschili siano celtiche o meno, quello che conta è vedere come sono forgiati spade ed elmi. Si possono trovare però anche altri oggetti tipici: per esempio, nel volume in questione viene citato un piccolo bronzetto votivo, a figura umana, dotato di mantello decorato allo stesso modo delle spade e ceramiche tipiche.
Invece le fibule femminili, presentate sempre in: “I Celti ed il Veneto”, non sono univoche nel gusto, che muta spesso nel tempo, e quindi non possono esser utilizzate, secondo Guštin, come indicatori definitivi di appartenenza celtica. Ma questo cambiare nella foggia di oggetti prettamente femminili, potrebbe dipendere dal desiderio delle donne e ragazze di non avere prodotti in serie, diremmo oggi.
Però d’altro canto, questo modificarsi delle fibule nel tempo ci permette di creare una cronologia più precisa degli influssi e scambi tra popoli alpini e di pianura.
Bronzetti come quello descritto, si trovano, poi, nei luoghi di culto, nei santuari celtici, la cui collocazione è evidenziata, per l’area veneta, in una cartina da Giovanna Gambacurta ed Angela Ruta Serafini.

Altro aspetto interessante è che, mentre nelle due tombe celtiche di Quarto d’Altino, le spade rinvenute erano integre, in altri luoghi le spade sono ritualmente spezzate, distrutte, perché ai defunti non servono più, ma questo sentire è databile in un periodo successivo.

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Il l volume “I Celti e il Veneto. Storia di culture a confronto” prende quindi in considerazione le iscrizioni in particolare su ceramiche: iscrizioni che sono venetiche, venetiche che risentono dei Celti, fino al nome di un personaggio che è tipicamente celtico. Per quanto riguarda infine i “Torques”, (collari metallici spesso realizzati con fili di metallo intrecciati) essi sono stati già studiati.

Ma nell’idea che ci siamo fatti dei Celti, tutti i maschi portavano il “Torque”, ma tra il secondo ed il primo secolo a.C., “Torques” vennero indossati anche da soggetti che non erano Celti. Popolazioni non celtiche della pianura padana, del Friuli e dell’isontino, indossavano il “Torque” e lo indossavano quando i Celti non lo portavano più. Per esempio, il “torque” trovato in Alto Isonzo, è un pezzo di fattura pesante, un “fuoriserie” forse realizzato per farne un dono diplomatico o qualcosa del genere.

Passando poi alla ricca tomba esposta al Museo di Santa Maria di Zevio, detta la “tomba del carro”, essa è databile in un periodo ove si seppellivano i capi delle piccole società locali, i capi tribù, con tutto quello che possedevano di personale, compreso appunto il carro. Ma questa abitudine non era presente nell’ultimo secolo a.C., mentre si ritrova in sepolture del nord Europa collocabili tra il seicento ed il quattrocento a.C., quando ogni capo dei Celti era sepolto sotto un tumulo e su di un carro simile a quello trovato nella tomba di Santa Maria di Zevio.

Ma alla fine del secondo secolo a. C., venne anche qui l’idea di seppellire alcuni capi con il carro a quattro ruote, e la tomba di Santa Maria di Zevio è uno di questi esempi. E guardando una cartina del volume su “I Celti ed il Veneto”, si può vedere come siano noti, in nord Italia, solo nove esempi di sepolture celtiche con il carro, e due si trovano nel veronese. Questo significa che, allora, tra secondo e primo secolo a. C., la società veronese era molto organizzata, evoluta, se due principi, due capi sono stati sepolti così, con tutti gli onori. Insomma, Guštin ci dice che una sepoltura ci parla anche della società circostante.

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Quindi egli passa ad illustrare il capitolo intitolato. “Il tempo delle tavole imbandite”, dicendo, in modo scherzoso, di non sapere cosa significhi qui, il termine “imbandite”, ma di aver imparato subito, fin dal suo primo viaggio in Italia con l’autostop, che qui si ritiene che mangiare faccia bene.

Il capitolo parla di una tomba trovata ad Isola Rizzo. È la sepoltura di un guerriero, che è stato tumulato con molti oggetti in ceramica che gli dovevano permettere, nel suo viaggio verso l’aldilà, di avere cibo sufficiente.

Quindi il libro porta anche un articolo sulle monete celtiche, provenienti dall’area danubiana e norica, dai dintorni della Sava e del Danubio, che circolavano nell’Italia del Nord e nel Veneto, ma gli studiosi sanno che anche altri oggetti reperiti qui provenivano da altre aree, a riprova degli scambi presenti tra popoli ed insediamenti in vari luoghi. Inoltre, queste monete norico-danubiane, che circolavano anche se non erano la moneta locale, stanno ad indicare la presenza di un commercio ‘monetario’, di un utilizzo, comunque, di diverse monete sullo stesso territorio.

Infine, il prof. Guštin si sofferma, per quanto riguarda le conclusioni del volume, sul territorio definito dagli autori ‘Veneto’, riprendendo una sua considerazione iniziale. Essi hanno definito ‘Veneto’, un’area geografica che va dai Colli Euganei, ad Arquà Petrarca, ad Este, ma che non comprende la pianura friulana. Inoltre, gli autori hanno ribadito, in chiusura, l’importanza delle iscrizioni, delle statuette e delle piccole figure per lo studio della storia dei popoli celtici. Nelle figure, il Celta è rappresentato con l’elmo tipico ed una lunga spada.

Elmo forse celtico. Museo di Novo Mesto. (Foto di Laura Matelda Puppini).

Il volume presenta, alla fine, anche una serie di carte tematiche, da cui si può evincere le variazioni di alcuni aspetti nel tempo, ma la cosa più importante è vedere come le popolazioni incominciarono ad organizzare la loro vita e società nei territori veneti.

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Il terzo volume posto all’attenzione dei presenti, è di Rosa Roncador, ed è intitolato “Celti e Reti. Interazioni fra popoli durante la seconda età del ferro, in ambito alpino centro- orientale”, è stato edito a Roma nel  2017, e tratta delle popolazioni che abitarono le Alpi.  Anche noi, oggi, – afferma il professore sloveno- se andiamo con l’auto da Trento verso Innsbruck, ci accorgiamo di attraversare luoghi molto alti e con valli molto strette. Questo è il territorio analizzato da Rosa Roncador, che ha prodotto un volume riassuntivo di tutto quello che si sa su di esso, per quanto riguarda gli ultimi secoli Avanti Cristo.

Anche in questa zona, che va da Trento ad Innsbruck, si sono reperiti bronzetti, anche qui si sono trovate fibule già inizialmente lateniane, ma con una lavorazione tipica del territorio, che si sono poi evolute verso quelle già prese in considerazione, di cui due esemplari sono buoni prodotti dell’arte celtica. Una fibula, poi, ha, alla fine, un volto con un elmo alpino. E si sono trovate molte armi: lance alte, non tanto tipiche celtiche ma tipiche dei territori alpini, e spade. Sul volume la Roncador riporta un esempio di spada celtica forgiata con ferro di buona qualità, che poteva invogliare anche i non Celti ad acquistarla. Pertanto, la sola presenza della spada non basta a dire che lì abitavano Celti.

Guštin dice che egli ritiene che spade di buona foggia potessero esser state usate anche da popolazioni locali, che le avevano acquistate da Celti, o potrebbero esser state forgiate in loco su modello delle spade celtiche, cosicché la diffusione di armi celtiche può esser avvenuta su di uno spazio più ampio di quello abitato dai Celti stessi.
Si sono trovate molte spade in questo territorio alpino, e si può notare, anche a nord della Rezia, l’abitudine di porre spade spezzate, distrutte nella sepoltura. Questa consuetudine fu assai diffusa tra i Celti nel periodo che va dal terzo al secondo secolo a. C., fino a Sanzeno, nel veronese.
Sanzeno, però, non fa parte della zona presa in considerazione, e lì si sono trovate spade corte, forse di foggia influenzata dai romani, e spade simili sono state trovate anche nei Balcani.

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Per quanto riguarda le Alpi, ed in particolare le Alpi verso la Slovenia, porre un elmo nella tomba del guerriero, nel periodo che va dalla tarda età del bronzo fino all’inizio dell’epoca romana, fu un’abitudine, quasi un obbligo. Invece nella Rezia si sono reperiti molti elmi, ma pochi nelle tombe, per esempio alcuni a Giubiasco, nel Canton Ticino. E nel Tirolo si sono trovati molti elmi in depositi, simili ai depositi votivi.

Quindi il prof. Guštin presenta una carta da lui prodotta qualche mese prima, che mostra l’enorme numero di elmi celtici, sia classici che nella forma alpina, reperiti nello stesso territorio. Questi elmi celtici di ferro si sono diffusi o sono rimasti proprio in territorio alpino, ed in particolare in Slovenia e verso la Pannonia, in spazi accanto a quelli definiti propriamente celtici. E questa distribuzione degli elmi appare un dato molto interessante.

Anche nel volume della Roncador, poi, sono state pubblicate delle immagini di oranti: una tra queste è famosa e risente di influssi etruschi. Ma numerose figurine votive antropomorfe dal VI secolo a.C. appaiono nei santuari retici come oggetti votivi. (3).

Una parte del Karnyx di Sanzeno. (https://www.cultura.trentino.it/Approfondimenti/Il-Karnyx-di-Sanzeno-la-tromba-da-guerra-dei-Celti).

La Roncador ha posto, nel suo volume, molte altre immagini di oggetti trovati in territorio retico, ed in particolare di alcuni “carnykes”, grandi trombe, che venivano suonate in battaglia per spaventare il nemico, (4), sulle quali l’autrice ha fatto studi specifici, in particolare su quello di Sanzeno. Ed anche uno dei bronzetti di Gundestrup ha un oggetto simile, una tromba.

Ma sia Polibio che Diodoro parlano dei «cosiddetti carnykes, nome derivante dal tardo greco per indicare un corno musicale di origine animale. Di tali oggetti, in bronzo, ottone (o entrambi come nel caso del carnyx di Deskford) ed addirittura in terracotta (la tromba celtiberica di Numancia) ne sono stati rinvenuti, frammentari, in diverse località dell’Europa». (5).

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Quindi Guštin mostra una seconda cartina, che segna gli insediamenti celtici e retici, e dove si nota che Sanzeno è al centro del mondo retico, mentre altri centri appartengono al mondo celtico e non retico. Infine egli ricorda ai convenuti, che, presso il Museo di Innsbruck, vi è un pezzo unico affascinante: un disco, trovato a Sanzeno, con figure reali e fantastiche. Esso così viene descritto dalla Roncador: trattasi di un disco in bronzo fuso del diametro di 16, 5 cm e del peso di 885 gr. (lo spessore del disco è irregolare e variabile da 0,4/0,5 cm fino a 1,4 cm), rinvenuto nel corso dell’Ottocento a Sanzeno, che presenta, sul lato anteriore, «una complessa decorazione costituita da un triscele centrale, composto da linee ondulate desinenti in spirali, attorno al quale si dispongono tre grandi figure di animali fantastici in parte cavalli, in parte uccelli o pesci e in parte galli. Gli spazi vuoti sono stati occupati da elementi decorativi probabilmente fitomorfi e da figure mostruose (di dimensioni inferiori rispetto ai cavalli/galli), per metà animali (cinghiali? cani?) e per metà umani (volti). Sul corpo degli animali di maggiori dimensioni (cavalli/galli) sono incise delle linee ondulate […]». (6).

E riportando un bel disegno di cavalieri di Miha Mlinar, del Museo di Tolmino, presentato ad una mostra, Mitja Guštin chiude la rassegna degli ultimi volumi editi in italiano sui Celti e la sua relazione.

Museo di Novo Mesto. Situla ornata. (Foto di Laura Matelda Puppini).

Questo testo è il frutto della trascrizione degli interventi citati, che avevo registrato, con qualche aggiunta personale fatta in particolare per me stessa, che non sono una archeologa o esperta in storia antica. Può darsi che abbia mal interpretato qualcosa, e prego pertanto gli esperti e soprattutto gli intervenuti di inviarmi correzioni di possibili errori, scusandomi subito con autori e lettori.

Questo testo mi è parso importante perché parla di Celti, di problemi degli archeologi e storici nello studiare i Celti, perché rompe stereotipi, per riportare alla realtà. Infatti, non si può non sapere che nel 1800 si cercarono, per sostenere idealità nazionalistiche, le nobili origini di un popolo, unito da una lingua e da usi e costumi tipici, e per esempio in Francia, queste furono individuate nell’ascendenza celtica, idealizzando in senso romantico i Celti stessi. Del resto, come non ricordare che lo stesso Cesare Augusto si era impegnato per dare a Roma nobili origini?

Questa trascrizione un po’ personalizzata, mi ha portato anche a ricercare alcuni testi presenti online, che qui di seguito elenco, senza conoscerne però il valore scientifico, ma gli autori sono alcuni di quelli citati nell’incontro. Naturalmente si trova anche altro sulla rete.

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AA.VV., I Celti nell’ Alto Adriatico, a cura di Giuseppe Cuscito, Antichità Alto Adriatiche XLVIII, Trieste, 2001. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15853/1/00-AA-XLVIII-2001.pdf;


Mirta Faleschini, Giuliano Righi, Gloria Vannacci Lunazzi, Serena Vitri, La Carnia tra Celti e Romani. Evoluzione dell’insediamento attraverso l’analisi di alcuni siti campione. https://www.openstarts.units.it/…/1/05-Faleschini_Righi_Lunazzi__Vitri_147-178.pdf


Giovanna Gambacurta, Angela Ruta Serafini, I Celti in Veneto: appunti per una revisione. https://www.openstarts.units.it/bitstream/…/1/12-Gambacurta_Serafini_187-201.pdf


Raffaele C. de Marinis, I Celti e la Lombardia. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15858/1/13-deMarinis_203-226.pdf


Paul Gleirscher, I Celti in Carinzia.  https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15860/1/15-Gleirscher_241-259.pdf


Ermanno A. Arslan, I Celti nell’ Alto Adriatico alla luce dei dati archeologici. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/15866/1/20-Arslan_325-334.pdf


“I Celti in Friuli: archeologia, storia e territorio”. II. 2002, a cura di Gino Bandelli e Serena Vitri. https://www.openstarts.units.it/bitstream/10077/16126/1/73_17.pdf


Rosa Roncador, Celti e Reti. Interazioni tra popoli durante la seconda età del ferro, in: Antichi popoli delle Alpi. Sviluppi culturali durante l’età del ferro nei territori alpini centro-orientali. Atti. www.academia.edu/…/Celti_e_Reti_tra_V_e_I_sec._a.C._contesto_culturale_e_progetto di ricerca “Karnyk di Sanzeno”.  


Giuseppe Sassatelli, Celti ed Etruschi nell’Etruria Padana e nell’Italia settentrionale. www.academia.edu/…/Celti_ed_Etruschi_nell_Etruria_Padana_e_nell_Italia_settentrionale


Anna Marinetti, Patrizia Solinas, I Celti del Veneto nella documentazione epigrafica locale. www.academia.edu/…/I Celti_del_Veneto_nella_documentazione epigrafica locale


Daniele Vitale, Manufatti in ferro di tipo La Tène in area italiana: le potenzialità non sfruttate. 
https://www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1996_num_108_2_1954


Giovanna Gambacurta, Angela Ruta Serafini, Veneti E Celti tra V E III Secolo A.C. (Tra La Tène A E La Tène B). https://core.ac.uk/download/pdf/53186453.pdf.

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Note.

(1) Per chi non lo sapesse, i reperti relativi ai Celti si dividono in quelli che contraddistinguono la civiltà di La Tène. Questa cultura ebbe il massimo sviluppo durante la tarda età del ferro (450- 50 a.C.) nella Francia orientale, in Svizzera, in Austria, nella Germania sud-occidentale, nella Repubblica Ceca, in Ungheria, in Inghilterra, in Irlanda e nord Italia. La civiltà di La Tene viene e suddivisa in tre fasi: “La Tène antico” (VI secolo a. C.),”La Tène medio” (dal 400 al 100 a.C.), “La Tène tardo” (I secolo a.C.). (https://it.wikipedia.org/wiki/Cultura_di_La_Tène). La civiltà di Tène si sviluppò dalla cultura di Hallstatt, (Austria, età del ferro), senza nessuna rottura culturale definita, ed a seguito dell’influenza della cultura greca prima e di quella etrusca poi sui Celti. Uno spostamento degli insediamenti si ebbe a partire dal quarto secolo a.C. (Ivi).

(2) Qui io ho compreso così, ascoltando la registrazione, ma potrei aver capito male.

(3) http://www.altarezia.com/storia.htm.

(4) Rosa Roncador, Celti e Reti. Interazioni tra popoli durante la seconda età del ferro, in: Antichi popoli delle Alpi. Sviluppi culturali durante l’età del ferro nei territori alpini centro-orientali. Atti, in: www.academia.edu.

(5) http://www.popolodibrig.it/public/articoli/Musicanellantichit.pdf

(6) Rosa Roncador, op. cit., p. 171.

Laura Matelda Puppini

 

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2018/12/manifestino-celti-a-pAULARO-index.jpg?fit=188%2C268&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2018/12/manifestino-celti-a-pAULARO-index.jpg?resize=150%2C150&ssl=1Laura Matelda PuppiniSTORIAHo partecipato con interesse al convegno sui Celti che si è tenuto a Paularo, il 6 ottobre 2018, a palazzo Valesio Calice, che era un incontro tra esperti ma allargato ad altri. Infatti, come ha sottolineato in apertura la dott.  Simonetta Bonora, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI