Federico Tenca Montini ha pubblicato un interessantissimo volume ove ricostruisce le vicissitudini di Trieste e del suo territorio dal 1945 al 1954 su di una rigorosa base documentaria. Piero Purich (noto anche come Purini) lo ha recensito, e sia l’autore della recensione che quello del volume mi hanno concesso di pubblicare questo testo, frutto del pensiero e della penna di Piero. Grazie davvero. Ma vorrei aggiungere che ho chiesto io il pemesso di porlo su nonsolocarnia nella ricorrenza del 10 febbraio 2022, perchè l’analisi della storia del confine orientale d’Italia e delle sue complesse vicende, ricordate anche nella legge istitutiva del giorno del ricordo, deve basarsi su studi seri e non querelle politiche di basso grado che spesso impediscono ad alcuni di esprimere il proprio pensiero ed anche le proprie conoscenze in materia. Si ritorni alle letture serie e si abbandonino le pire! Non siamo nel medioevo! Via dalla società civile l’uso politico della storia! Laura Matelda Puppini 

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«Il Mulino ha pubblicato di recente un interessantissimo libro: La Jugoslavia e la questione di Trieste 1945-1954, di Federico Tenca Montini. Si tratta di una tesi di dottorato in storia che analizza uno dei periodi più dibattuti della storia del cosiddetto “confine orientale”.

Nell’analisi di questo travagliato periodo gli storici italiani fanno solitamente affidamento su quella che è considerata la Bibbia (anche per le dimensioni dei due volumi) dell’argomento: La questione di Trieste, di Diego de Castro. Il lavoro di de Castro ha indubbiamente dei pregi notevoli, tracciando una cronologia quasi quotidiana della situazione triestina nel periodo compreso dalla fine della seconda guerra mondiale al memorandum di Londra. Per questo de Castro è universalmente noto come una fonte attendibile ed obiettiva. E qui va fatta un’osservazione: Diego de Castro fu rappresentante diplomatico per l’Italia presso il Governo Militare Alleato, per cui la sua narrazione è giocoforza quella di un testimone che, per quanto obiettivo e documentato, aveva accesso alle sole carte italiane, in parte a quelle alleate ma non a quelle jugoslave. Con il tempo sono stati tradotti in italiano anche altri libri di pari valore, come ad esempio B. Novak Trieste 1941-1954 e N. Troha Chi avrà Trieste? che illustrano gli stessi eventi visti dall’altra parte (molti storici italiani fingono tuttora che questi volumi non siano mai usciti). Il libro di Tenca Montini ha un merito enorme: in questo panorama storiografico così diviso in settori, così legato all’interpretazione storica dei documenti di una sola parte, è il primo storico italiano ad aver scritto un volume basandosi direttamente sui documenti conservati negli archivi di Belgrado.

Federico Tenca Montini è infatti uno dei pochissimi storici di lingua italiana (li si conta sulle dita di una mano) ad aver studiato il serbocroato ed essere dunque in grado di orientarsi tranquillamente sia nella storiografia e negli archivi italiani, sia in quelli jugoslavi. Competenza che purtroppo pare non aver importanza per chi si occupa del confine orientale: che credibilità potrebbe avere in Europa uno studioso che scrivesse la storia dell’Alsazia-Lorena conoscendo solo il tedesco o il francese? Ma forse è proprio questo il problema: le conoscenze linguistiche di Tenca Montini sono potenzialmente in grado di oscurare molti storici mainstream. Forse è per questo che il suo libro è passato quasi sotto silenzio ottenendo pochissime recensioni in ambito accademico. Negli archivi di Belgrado, Zagabria e Lubiana lo studioso ha trovato materiali inediti, documenti, dispacci, veline, discorsi autografi di Tito e dei suoi più stretti collaboratori che permettono di avere una visione d’insieme della questione di Trieste, di notare come alcuni eventi ritenuti estremamente importanti dalla storiografia italiana ebbero invece un peso molto relativo se visti dalla parte jugoslava e viceversa, nonché di sfatare alcuni luoghi comuni della narrazione italiana di quel periodo.

Innanzitutto, almeno per i primi anni dopo la guerra, emerge un’ingenuità quasi infantile della classe politica jugoslava: convinta di essere nel novero dei vincitori del nazifascismo, si illude di avere un peso negoziale al pari degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Sovietica, finendo surclassata dalla finezza diplomatica e dal peso politico delle tre potenze. Con l’Italia, invece, l’atteggiamento di Belgrado è duro, di orgogliosa superiorità nei confronti di un paese sconfitto che viene (per molti versi giustamente) considerato ancora troppo vicino al fascismo.

Il ritiro da Trieste è riportato dai documenti d’archivio jugoslavo con toni addirittura dolorosi, una vera e propria sconfitta, la perdita del maggior obiettivo strategico, politico, militare e di prestigio internazionale. La seguente campagna tesa a mostrare alla Commissione interalleata che tutta la popolazione della Venezia Giulia, a prescindere dalla nazionalità, vuole l’annessione alla Jugoslavia è illustrata con dovizia di particolari: le lettere a Tito (spesso scritte in italiano) da parte di ex partigiani, mogli e madri di caduti nella lotta di liberazione, di consigli di fabbrica, di bambini in età scolare danno la fotografia di una popolazione giuliana non così scontatamente favorevole al ritorno dell’Italia; l’impegno profuso dalle autorità jugoslave nel far accogliere la commissione con tricolori jugoslavi e con archi trionfali adorni di fiori e di ritratti di Tito mostrano come Belgrado avesse completamente equivocato sull’importanza della Commissione, dato che poi la suddivisione territoriale a Parigi fu fatta su tutte altre basi. In realtà i documenti dimostrano come quasi tutta l’attività diplomatica jugoslava in sede di Trattato di Pace fu del tutto priva di effetti positivi.

Il libro è anche interessante nello svelare episodi completamente ignorati (o meglio occultati) dalla storiografia italiana, quali le violenze antislovene del settembre del ’47 e il vero e proprio pogrom  che ebbe luogo a Gorizia dopo la firma del trattato e la definitiva assegnazione del centro cittadino all’Italia.

La creazione del Territorio Libero di Trieste, pur non gradito da Belgrado, vide gli jugoslavi impegnarsi alla ricerca di un candidato alla carica di Governatore (la figura necessaria al reale funzionamento del TLT): Londra, Washington e Mosca non raggiunsero mai un accordo sulla nomina, con episodi addirittura grotteschi di candidati proposti dagli occidentali e rifiutati dai sovietici, poi riproposti dai sovietici e rifiutati dagli angloamericani. Ci furono anche alcune negoziazioni dirette tra Belgrado e Roma, ma il continuo ostracismo della diplomazia italiana verso i candidati proposti dalla Jugoslavia infine arenò la trattativa.

La successiva dichiarazione tripartita, considerata dalla storiografia italiana uno degli spartiacque della questione di Trieste, fu invece considerata dagli jugoslavi nient’altro che uno stratagemma, di scarsa importanza, delle potenze occidentali per favorire la DC e danneggiare il PCI nelle imminenti elezioni. Nell’intento di non far perdere troppi consensi a Togliatti, Belgrado propose a Roma un patto di amicizia e non aggressione e una soluzione consensuale per Trieste. Chiaramente De Gasperi rifiutò la proposta.

L’espulsione di Tito dal Cominform generò una situazione totalmente nuova e imprevedibile: il libro di Tenca riporta un lungo telegramma con la cronaca in tempo reale della rottura a Trieste e del passaggio del partito e del sindacato sotto il controllo di Vidali (e dunque degli italiani). Dai documenti emerge come l’accusa principale fatta dai comunisti italiani agli jugoslavi fosse il nazionalismo e l’espansionismo territoriale, mentre le motivazioni dottrinali risultavano marginali. La rottura con Mosca bloccò qualsiasi trattativa diplomatica fino all’anno successivo: il fatto che Tito venisse tenuto a galla dagli occidentali comportò una revisione completa della questione di Trieste e degli obiettivi da raggiungere. Belgrado dovette allargare la sua proposta diplomatica non solo alla rivendicazione di Trieste (ormai irrealizzabile) e alla realizzazione del TLT, ma anche alla sua eventuale spartizione con l’Italia. Quest’ultima possibiltà cominciò ad essere declinata in vari modi: la Zona A all’Italia e la Zona B alla Jugoslavia con leggere variazioni di confine; la cessione delle sole Trieste e Capodistria all’Italia ed il resto del TLT alla Jugoslavia, con un corridoio di transito che collegasse Trieste a Monfalcone; la cessione della Zona A all’Italia con uno speciale sbocco a mare jugoslavo nel porto di Trieste (Aquilinia). L’Italia rispose proponendo una “linea etnica” che le avrebbe garantito le cittadine costiere della Zona B, ma la diplomazia jugoslava ribatté con la proposta di un “equilibrio etnico”: con l’annessione di Trieste l’Italia avrebbe incamerato 60.000 sloveni, un territorio con lo stesso numero di italiani doveva passare alla Jugoslavia. Ancora una volta le trattative giunsero ad un punto morto.

Alla rottura del Cominform si collega anche la vicenda dell’esodo istriano: la Jugoslavia, nel timore di perdere manodopera qualificata, ora indispensabile per la stabilità del paese, procedette ad una revisione dei termini di partenza degli “optanti”. Se in precedenza la possibilità per gli italiani dell’Istria di andarsene era stata vista con favore, ora la Jugoslavia rivedeva i criteri e cercava di convincere il personale qualificato a ritirare la domanda di opzione. Furono diverse centinaia gli italiani in procinto di partire che rimasero in Jugoslavia.

Per uscire dall’impasse Kardelj e Tito riesumarono l’idea di attivare il TLT, ma questa volta come condominio amministrato congiuntamente da Italia e Jugoslavia e sotto l’egida dell’ONU, con un governatore nominato alternativamente ogni tre anni da uno dei due stati. L’Italia snobbò la proposta (gustosa la parte relativa alla reciproca campagna di discredito dell’ambasciatore jugoslavo a Roma e di quello italiano a Belgrado), mentre Londra e Washington, con l’accordo di Londra, acconsentirono ad una più pesante ingerenza dell’Italia nell’amministrazione della Zona A del TLT.

Probabilmente Tenca Montini è il primo studioso italiano che abbia potuto studiare le carte dell’archivio personale di Tito, ricavandone un’ampia documentazione relativa ai colloqui che il ministro degli esteri Anthony Eden ebbe nella sua visita ufficiale del 1952 con Tito e Kardelj, nella quale gli jugoslavi presentarono più possibili soluzioni: il condominio italo-jugoslavo, la spartizione del TLT con una correzione confinaria favorevole a Belgrado, lo scambio tra Capodistria, Isola e Pirano per Servola e Aquilinia.

La visita di Eden fu ricambiata da Tito l’anno seguente: anche in questo caso il libro di Tenca riporta alcuni documenti inediti che testimoniano lo stallo sulla questione di Trieste. Visto il nuovo stallo, il 15 maggio ’53 venne diramata alla diplomazia jugoslava una risoluzione nella quale si segnalavano i nuovi indirizzi da adottare: disarticolare le politiche imperialistiche italiane; non menzionare più il mantenimento dello status quo; non ricercare più nuove proposte, ma limitarsi a riproporre quelle già fatte dalla Jugoslavia; sottolineare in qualsiasi proposta di spartizione la necessità di un equilibrio tra il numero di sloveni che fossero rimasti in Italia e di italiani rimasti in Jugoslavia; pretendere il rispetto dei diritti della minoranza slovena in Italia.

L’opzione favorita dalla diplomazia jugoslava rimase comunque quella del condominio, nell’estate del ’53 nella residenza di Tito a Brioni venne redatto un documento che considerava la possibilità di attivare il TLT ed escludeva la cessione della Zona A all’Italia. In un altro documento si caldeggiava addirittura un condominio solo sulla Zona A, mentre la Zona B andava annessa alla Jugoslavia. Per sostenere l’offensiva diplomatica jugoslava, Belgrado organizzò nel settembre del ’53 un’imponente esercitazione militare nella Croazia settentrionale, con il duplice obiettivo di mostrare agli occidentali (con cui era in atto una collaborazione militare) il livello di preparazione dell’esercito. L’Italia, pur invitata ad assistere alle manovre, non inviò alcun rappresentante, mossa che gli americani definirono: “La cosa più assurda vista negli ultimi tempi”.

L’8 ottobre, Usa e Regno Unito, infastiditi dalle ritrosie italiane (che continuavano a rivendicare tutto il TLT), su iniziativa dell’ambasciatrice americana a Roma Claire Booth Luce, emisero la “nota bipartita”: gli angloamericani si sarebbero ritirati dal TLT cedendo l’amministrazione di Trieste all’Italia. La nota scatenò le ire della dirigenza jugoslava e pure della popolazione, che attaccò le sedi diplomatiche inglesi, americane ed italiane con una pioggia di sassi, incendiando la biblioteca americana di Belgrado. La stampa occidentale ebbe gioco facile a dire che l’attacco era stato pianificato dal governo, ma i documenti scoperti da Tenca, invece, dimostrano che le manifestazioni furono spontanee e che addirittura Đilas, Ranković e Kardelj dovettero scagionarsi davanti a Tito dall’accusa di aver organizzato i cortei. Tenca, peraltro, riporta anche una gustosa serie di epiteti lanciati dai manifestanti contro il presidente del consiglio italiano Pella e pure alcuni slogan tanto goliardici quanto sessisti aventi oggetto Silvana Mangano, allora la diva italiana più nota all’estero (e dunque simbolo del paese).

Le reazioni jugoslave alla nota bipartita furono di ordine militare e diplomatico: Tito inviò truppe nella Zona B dimostrandosi non disposto a subire diktat da parte degli alleati e a rispondere con l’ingresso di carri armati a Trieste ad un eventuale sostituzione dei soldati angloamericani con quelli italiani, ma contemporaneamente prese atto (come riportano molti documenti citati nel libro) del fatto che la soluzione della questione triestina non poteva essere rinviata all’infinito. Il 18 ottobre diplomatici inglesi, americani e francesi proposero al viceministro degli esteri Bebler una conferenza nella quale la Jugoslavia avrebbe potuto esprimere i propri desiderata.

Nel novembre del ’53 si verificarono a Trieste scontri tra manifestanti filoitaliani e polizia alleata, che causarono sei morti e la crisi più grave della storia del TLT. Su questo episodio Tenca Montini cita alcuni documenti estremamente interessanti: innanzitutto il fatto che Tito in persona venne informato che MSI e ANVGD (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia) stavano preparando delle manifestazioni, alle quali stava fattivamente collaborando anche il governo italiano, e c’era da aspettarsi delle provocazioni al confine, o addirittura lo sconfinamento dei fomentatori. Dopo gli incidenti le autorità jugoslave constatarono che gli incidenti di Trieste avevano mostrato una violenza inedita, rispetto alla quale le sassaiole avvenute a Belgrado in occasione della nota bipartita, stigmatizzate dagli irredentisti italiani con i soliti luoghi comuni relativi all’inciviltà slava, sembravano bisticci innocenti. Infine nel libro è riportata un’interessante dichiarazione del giornalista ed agente segreto Eric Rowe Geyde, che avendo assistito ad entrambi gli avvenimenti, ad un rinfresco presso l’ambasciatore austriaco a Belgrado sostenne che la dinamica degli scontri di Trieste e l’uso di staffette motorizzate gli ricordavano molto gli incidenti organizzati dai nazisti a Vienna poco prima dell’Anschluss. Lo 007, inoltre, aveva avuto dal comandante del GMA Winterton l’informazione che pochi giorni prima degli scontri era stato contattato dal governo italiano, il quale aveva offerto l’invio a Trieste di duemila carabinieri per mantenere l’ordine pubblico (chiaramente rifiutato dal comandante).

I documenti di Belgrado confermano comunque che gli scontri di novembre non ebbero effetti pratici sulla soluzione della questione di Trieste, producendo anzi un inasprimento dei toni proprio nel momento in cui la diplomazia stava lavorando per giungere ad un accordo.

All’inizio del ’54 venne a profilarsi la definizione di una doppia tornata negoziale: la prima tra Stati Uniti, Inghilterra e Jugoslavia, la seconda tra i primi due con l’Italia. La Jugoslavia, ormai rassegnata alla perdita di Trieste, propose la costruzione di una nuova città alternativa a Trieste, come era già stato fatto per Nova Gorica. Divertente l’ironico commento dell’autore sul fatto che nella storiografia italiana questa avrebbe dovuto chiamarsi “Nova Trst”, con un marchiano errore di grammatica, dato che Trst in serbocroato è maschile. Il rifiuto della diplomazia angloamericana di concedere l’area Servola-Aquilinia per la sua edificazione fu totale. I documenti mostrano una dinamica dei negoziati completamente diversa dall’idea che se ne aveva in Italia: inglesi ed americani tesi a chiudere quanto prima la questione operando la spartizione del TLT in base alla Zona A e alla Zona B, jugoslavi ancora disposti a sondare diverse soluzioni ed a negoziare in tempi lunghi; contrariamente a quanto ritenuto finora dalla storiografia italiana, non furono gli jugoslavi a proporre la spartizione (che poi divenne il criterio finale), bensì gli ambienti americani, minacciando nel caso in cui la Jugoslavia non fosse venuta incontro alla soluzione proposta ripercussioni a livello economico e di assistenza militare.

Lo studio di Tenca, oltre a rappresentare una novità assoluta nel panorama storiografico italiano, riempie una lacuna strutturale: la mancanza totale di studi che analizzano l’altra parte della questione di Trieste. Il testo è di piacevole lettura, nonostante tratti di un argomento potenzialmente difficile come i rapporti diplomatici: non è facile rendere scorrevole un libro di questo genere, Tenca si rivela uno storico decisamente anomalo nel panorama italiano, con una capacità narrativa più vicina a quelli della storiografia anglosassone che alla stantia accademia di casa nostra.

Il testo  è spesso intervallato da gustosi aneddoti (e da estratti dei discorsi di Tito che mostrano la capacità oratoria del maresciallo e pure una notevole ironia), da considerazioni condite con sottile senso del humour e da un velato sarcasmo sulle reali capacità del mondo diplomatico di cogliere le necessità della politica. Dal libro emerge sicuramente la spregiudicatezza delle grandi potenze: la vecchia scuola inglese, fatta di eleganti approach, di formali quanto eleganti dinieghi, ma di un realismo capace di farla adattare con sorprendente malleabilità alle modificazioni del contesto, la minor elasticità della politica americana, l’ostinazione rigida di quella sovietica, capace di eterni bracci di ferro con il nemico statunitense.

Il libro dà un interessante ritratto dell’orgogliosa quanto ingenua baldanza della nuova classe politica jugoslava, per certi versi addirittura imbarazzante nella sopravvalutazione della propria forza, della sua diplomazia irruenta e fantasiosa, ma allo stesso tempo troppo debole rispetto alle pressioni angloamericane. Per quanto riguarda l’Italia descrive l’ambiguità di un paese sconfitto, pronto ad alzare la posta sapendo di non averne i mezzi, per poi chiedere aiuto all’alleato americano e farlo giocare al proprio posto, con governi molto più orientati ad agire nell’ombra attraverso servizi segreti, appoggi occulti e accordi sottobanco con gli alleati; ambasciatori e funzionari del ministero degli esteri snob ed ottusi, legati a schemi diplomatici obsoleti e del tutto inadatti al mondo bipolare del dopoguerra.

Le pochissime recensioni che questo volume ha avuto dimostrano ancora una volta la chiusura del mondo accademico italiano e la pochezza della storiografia ufficiale italiana sull’argomento.

Piero Purich».

Questa recensione, mi si dice in forma non integrale, è stata pure pubblicata su Historia Magistra di Angelo D’Orsi.  In rete si trovano pure una recensione del volume di Tenca Montini ad opera di Anna Di Gianantonio in http://storieinmovimento.org/2020/12/18/trieste-tenca-montini-recensione/, ed una di Michele Guerra in: http://www.storiastoriepn.it/una-recensione-al-libro-di-tenca-montini-sulla-jugoslavia-e-trieste-1945-54/, ma ce ne saranno forse altre. L’immagine che accompagna l’articolo è la scannerizzazione fatta da me della copertina del volume di Tenca Montini. Laura Matelda Puppini

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