Conosco la signora Vittoria da tanti anni, come madre di Tarcisio, Tiziano e Cecilia. La conoscevo con il cognome Not, quello del marito, ora so che si chiama Vittoria Tempo maritata Not. Conosco da tempo la signora Laura, come moglie del generale Adriano Gransinigh, ora so che si chiama Laura Tempo in Gransinigh. Vittoria e Laura sono sorelle e sono figlie di una persona di cui sono venuta a sapere qualcosa da poco, Vittorio Tempo, oste e commerciante a Gonars.  

Ma chi era Vittorio Tempo? Vittorio Tempo era nato a Castions di Strada, il 21 settembre 1902, era figlio di Pietro ed Alessandra Ionico, risulta appartenente alla territoriale Osoppo IIa Divisione, e morto il 24 ottobre 1944, a Palmanova, per sevizie. (AA.VV. (a cura dell’I.f.s.m.l.), Caduti, dispersi e vittime civili dei comuni della regione Friuli-Venezia Giulia nella seconda guerra mondiale, Udine, Ifsml, provincia di Udine, 2 tomi, 1987, tomo I, p.383).

Così scrive di lui Irene Bolzon, in riferimento a ciò che accadde alla Caserma Piave di Palmanova: «Ad aggiungersi alla spirale di violenze è l’episodio relativo all’uccisione dell’oste e commerciante di Gonars Vittorio Tempo. […].  Il 16 ottobre 1944, arrestato con l’inganno da Borsatti, […] venne portato a Palmanova e da quel momento in poi, nonostante le sollecitazioni e le suppliche della moglie e della figlia che chiedevano di vedere il loro congiunto, non si ebbero più notizie di lui. In aula Borsatti, inaugurando un alibi che diverrà piuttosto usurato dal costante utilizzo che ne fecero gli altri responsabili della Caserma, dichiarerà che Tempo era stato ucciso accidentalmente durante un tentativo di fuga. In realtà poco prima di essere giustiziato Borsatti confesserà di aver ucciso l’oste “con le sue stesse mani”». (Irene Bolzon, Repressione antipartigiana in Friuli. La caserma “Piave” di Palmanova e i processi del dopoguerra”, Kappa vu ed., 2012, p. 41). E «nella caserma è documentata la detenzione di 543 prigionieri, ben 113 dei quali classificati come “morti per tentata fuga”, in realtà deceduti per le torture o per fucilazioni sommarie», si legge nella prefazione di Paolo Ferrari al volume della Bolzon. (Ivi, p. 5 non numerata). 

Per chi non sapesse chi era Odorico Borsatti lo spiego. Odorico Borsatti era nato a Pola il 13 giugno 1921, aveva prestato servizio militare presso il Reggimento Lancieri “Novara” con il grado di tenente e, dopo l’8 settembre, grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca, venne inviato come interprete a Berlino. Avendo rifiutato l’arruolamento nell’R.S.I., venne arrestato. Dopo esser stato liberato, nel luglio 1944 decise di prestare servizio volontario nei reparti della SS – Polizei, ed era, all’epoca dei fatti narrati, tenente delle SS (Waffen-Obersturmführer der Ss 24a Divisione) presso la Caserma Piave di Palmanova, ove diresse dal settembre al dicembre 1944, l’attività di repressione, venendo poi trasferito a Venzone. Per i crimini commessi, dopo la fine della guerra fu processato dal Tribunale del Popolo, fu condannato a morte il 5 maggio 1945, e giustiziato il giorno successivo presso le carceri di via Spalato ad Udine. (Ivi, p. 37 e Ivi, Paolo Ferrari, prefazione, pp. 5 – 8).

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Un giorno, in un ben triste contesto, il funerale del figlio Tiziano, la signora Vittoria inizia a parlarmi del padre, dei suoi ricordi del periodo dell’occupazione tedesca e della guerra partigiana, e nasce l’idea di questa intervista, che ha finalmente luogo a Tolmezzo, il 14 gennaio 2016.

«Sono nata a Gonars, paese di calzolai, il 5 settembre 1926, il giorno della festa del paese, verso le 5 del pomeriggio. Ed a festa si è unita festa. Assomigliavo molto a mio padre, e così mi misero il suo nome: “Vittoria”.

Mia madre si chiamava Adele Stroppolo, era nata il 10 novembre 1904, ed è morta nel 1987, ed era di Castion di Strada, mio padre era Vittorio Tempo, anche lui di Castions, ed era nato il 21 settembre 1902, e risulta morto nell’ottobre 1944.

Adele e Vittorio, i miei genitori, si erano sposati giovani e gestivano un negozio ove si vendeva di tutto, dal filo al vino, anche all’ingrosso, e si poteva pure bere un bicchiere e mangiare qualcosa, insomma quello che si chiamava un “botegòn”. Io ho due fratelli: Laura, che ora ha 84 anni, e Onorio, l’ultimogenito, morto di infarto. Onorio ha continuato l’attività commerciale dei miei genitori ma ha modernizzato i locali e la vendita, organizzandola come un supermercato con accanto bar/caffè.

Io ho fatto le elementari a Gonars e quindi il corso inferiore della scuola tecnico – commerciale a Palmanova. Mi recavo a scuola in bicicletta, ogni giorno. E prima fu tutto un pedalare e studiare, poi fu tutto un pedalare e lavorare, anche troppo.

I miei genitori avevano bisogno di me al “botegòn”, e così iniziai ad aiutarli, e talvolta mi svegliavo presto per poter aprire l’esercizio, compito che, quando riprendemmo la gestione dell’attività commerciale dopo la morte di mio padre, fu affidato unicamente a me.

Di mio padre ricordo che era scuro di capelli, come lo ero io, e che era della guardia di finanza. Ho anche una sua fotografia.

In casa non si parlava molto, non si parlava quasi di nulla, sapevo solo che mio padre era antifascista convinto e, tra le mura domestiche, si respirava spesso “politica”. Infatti mio padre era un uomo libero e non vedeva le cose come il fascismo.

Mio padre era un uomo intelligente, molto laborioso, ed aveva il fiuto per gli affari, per il commercio. Conosceva il mondo e sapeva che con la gente non si poteva parlare, che c’era molta ignoranza in giro e che molti osannavano Mussolini, e si fidava ad esprimere le proprie idee solo con pochissime persone, con amici scelti e fidati.

Alla fine del 1943 sapeva, come tanti altri, che la guerra era persa. Era stato militare mio padre, era una Guardia di Finanza. Aveva svolto il servizio di leva a Maddaloni, in provincia di Caserta. Poi era stato richiamato, all’inizio della seconda guerra mondiale, ed aveva prestato servizio prima sulle navi, a Monfalcone, poi presso le grotte di Postumia. L’8 settembre avrebbe potuto imbarcarsi, con altri, su un veliero inglese, ma aveva rifiutato per ritornare a casa.   

Era rientrato a Gonars di notte, in abiti borghesi. Al mattino mia madre era venuta a svegliarmi e mi aveva detto: «Vieni Vittoria, guarda chi c’è nel letto!» – e così avevo riabbracciato mio padre.

Dopo l’8 settembre mio padre ha continuato la sua attività di commerciante ed il nostro locale era frequentato sia da tedeschi che da partigiani.

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 Quando mio padre è stato prelevato, è accaduto a causa di un tranello.

Allora chi aveva soldi aiutava gli altri. Una persona è giunta nel botegòn e gli ha chiesto una quota per sostenere i partigiani. Egli ha accettato, ed avevano concordato di incontrarsi un lunedì per la consegna del denaro.

Invece di presentarsi la persona prevista, si sono presentate le SS con Odorico Borsatti.

Quello che aveva fatto da tramite era una spia. Lo conoscevo di vista, abitava a Gonars da circa un anno allora, aveva 35 o 40 anni, e viveva nelle casette del campo di concentramento. Dopo la cattura di mio padre non si è fatto vedere per un po’ e si è ripresentato dopo la fine della guerra. Poi è sparito nella notte con la famiglia e di lui non ho saputo più nulla.

Sono venute alle 8 di sera le SS, ed il gruppo era guidato da Borsatti, che comandava la caserma dei tedeschi e di cavalleria di Palmanova.

Mi ricordo che mio padre, quando è uscito dalla porta con le SS, si è voltato a guardarci e salutarci, ed era bianco come uno straccio. Era il 16 ottobre 1944. Non lo avrei più rivisto.

Noi lo abbiamo aspettato, abbiamo atteso il suo ritorno, ma non ritornò. Noi non sapevamo, non capivamo … Ma io ho sempre pensato che quella persona di cui ho già parlato avesse fatto il doppio gioco.

Due o tre giorni dopo, le SS hanno circondato il paese e i tedeschi hanno prelevato dal nostro botegòn ogni avere, tutto, anche la mia dote. Qualche tempo dopo, sono giunti quella della Xa Mas, convinti di trovar ancora qualcosa, ma non era rimasto niente. Mi par di ricordare che quelli della Xa Mas avessero un basco azzurro.

Dopo il saccheggio tedesco chiudemmo per due anni l’ambiente. A mia madre ed a noi figli non era rimasto più nulla, ma fummo aiutati a sopravvivere da alcuni commercianti e rifornitori all’ingrosso udinesi, amici di mio padre e con cui era in contatto per affari. 

Dopo l’arresto di mio padre e la spoliazione del botegòn, nessuno di noi fu più disturbato. All’epoca mio fratello Onorio, che era nato nel 1929, frequentava il collegio Bertoni ad Udine, e non ebbe alcuna noia. Laura era ancora più piccola, essendo nata nel 1932.

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 Solo dopo il saccheggio sapemmo che mio padre era stato preso dai tedeschi, ed io, che avevo allora 18 anni, e mia madre iniziammo a cercarlo. Andammo persino alla caserma Piave a Palmanova, dove si diceva lo avessero portato, e ci andai più volte anche da sola, ed ogni volta si presentava Borsatti e non sapeva cosa dirmi.

Ad un certo punto decisi di rivolgermi al Monsignore di Palmanova. Infatti ero stata a scuola con una nipote del sacerdote, ed eravamo diventate amiche. Così lei fece da tramite per il colloquio. Ma il sacerdote, benevolmente, mi disse di lasciar perdere, di non andare più in quella caserma per nessun motivo perché: «Chi entra non sorte». – Questo mi disse il prelato di Palmanova, e ben me lo ricordo.

Comunque fino al processo contro Odorico Borsatti, nel dopoguerra, noi familiari non sapemmo più nulla di mio padre.

Ad esecuzione avvenuta di Borsatti, ci chiamò il sacerdote delle carceri di via Spalato ad Udine e ci disse che mio padre era morto, che Vittorio Tempo era stato ucciso con un colpo di pistola.

Ci chiamarono anche al processo Borsatti, come testimoni, ed andammo pure ad ascoltarlo, ad Udine, presso le carceri. Eravamo io e mia madre. Laura era piccola. Ho un ricordo abbastanza vivo del processo, e mi ricordo che c’era anche Romano il Mancino, che era un tipo robusto che avevo visto sfidar tutti seduto sul cofano di una macchina. Poi so che è scappato in Jugoslavia. Era davvero un diavolo!!!

Al processo contro Borsatti ognuno ha detto la sua e mi ricordo di partigiani che erano stati torturati e mostravano i segni della tortura.

 Era pieno di gente all’esecuzione di Borsatti. Aveva la benda sugli occhi e le mani legate. Lo hanno messo al muro fuori delle carceri di via Spalato, ed io ero a guardare in prima fila. Ma non sentivo più niente, neppure odio verso di lui, nulla … Poi una scarica tremenda di fucili ed è finito tutto.

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 Mia madre, rimasta vedova a 38 anni, dovette rimboccarsi le maniche e ci faceva “pedalare” tutti, come si usa dire, e ci abituammo a vivere, dopo la cattura di mio padre, “alla spartana”.

Noi siamo stati aiutati anche nel dopoguerra dai commercianti udinesi amici di mio padre. Ci hanno aiutato a rimettere a nuovo il locale, il botegòn, e mi ricordo che lavorarono falegnami, elettricisti, ecc. per rinnovarlo.

 Tra gli amici di mio padre ricordo Giuseppe Pellizzer, che era un grande commerciante, e che aveva un figlio, notissimo avvocato. Egli e mio padre avevano deciso di comperare terra a Lignano, perché mio padre aveva fiuto per gli affari, come ti ho detto, ma poi è venuta la guerra. Pellizzer è stato anche il compare di nozze al mio matrimonio.

 So pure che i miei genitori non erano ben visti dai cattolici di Gonars perché non frequentavano la chiesa, e non lo ritengo giusto. Mio padre era un uomo onesto e di buon senso, solo si interessava di politica ed era antifascista. Il prete del paese era un fascistone, si chiamava don Primo Repezza.

Nei giorni che seguirono la cattura di mio padre, mi ricordo che in paese si potevano incontrare sia tedeschi che partigiani e che tutti avevano paura. 

Io e mia madre non sapevamo che mio padre collaborasse con l’Intendenza Montes. Qualcuno ha anche scritto che la nostra casa era un centro di partigiani, ma questo non è assolutamente vero. Inoltre vicino al botegòn c’era il comando tedesco, e tedeschi frequentavano il locale.

Quando cercavo ancora mio padre, andai, sempre in bicicletta, a chiedere anche alle famiglie che abitavano di fronte alla caserma se avessero sue notizie, se lo avessero visto, ma mi dissero che si sentivano solo urla, grida, lamenti, e che di notte portavano via i cadaveri e non si sapeva dove li seppellissero.  

Dopo la fine della guerra entrai nella caserma Piave, che è molto vasta, con altre due donne, per cercare se vi fossero tracce di mio padre. Scavammo, cercammo, tra l’odore della morte, ma non trovammo nulla. E così, dopo un paio di giorni, desistemmo. 

 All’epoca del processo, quando Borsatti mi vedeva diventava ansioso e quindi si inventò la storia che mio padre era stato posto su un camion per esser portato in Germania, ma che, avendo il camion forato, egli era fuggito.

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Mia madre, dopo la morte di Vittorio, non si è più risposata, nè io avrei desiderato lo facesse, perché quel matrimonio l’aveva fatta soffrire troppo e non volevo avesse fastidi ulteriori.

Era una donna forte, mia madre, di una forza d’animo tremenda. Rammento pure che, a Cormons, anche dopo la cattura di mio padre, c’erano sia tedeschi che partigiani e che tutti avevano paura. Gli ufficiali tedeschi si temevano uno l’altro, e mi avevano detto di star sempre zitta, di non parlare mai. Coloro che sapevano che la guerra era perduta volevano che finisse al più presto ed erano dispiaciuti di quanto accaduto alla mia famiglia, come la povera gente del paese che Vittorio ed Adele avevano aiutato. Non si può dire invece lo stesso dei commercianti locali, che vedevano, nella cattura di mio padre, solo la fine di un’attività commerciale concorrente, e la possibilità di rilevarne i clienti. Inoltre nel saccheggio erano andati persi anche i libretti a credito, e così non potemmo nemmeno esigere ciò che ci era dovuto.

 Nel 1946, io mia madre ed i miei fratelli fummo mandati a Grado al mare. Mentre eravamo in spiaggia, vidi passare una signora e mi venne alla mente improvvisamente di averla già vista: era la donna che era venuta a saccheggiare il botegòn e la casa con i tedeschi, ed aveva portato via tutto: lenzuola, asciugamani, biancheria, corredo, e perfino l’orologio. Di scatto mi alzai e la inseguii ma la donna era più veloce di me e si dileguò. Poi telefonai alla polizia ma tutto finì lì.

Non mi sono interessata più a fascisti, tedeschi e partigiani, so solo che poi si sono scontrati “rossi” e “verdi”».

(Laura Matelda Puppini, Intervista a Vittoria Tempo coniugata Not, Tolmezzo, 14 gennaio, 2016).

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 In: “Archivio dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Fondo: “Rappresaglie eccidi e arresti in Friuli, Busta 1 “Caserma Piave”, fasc. 2”, si trovano  pure una copia di un rapporto di Borsatti, scritto in tedesco, su Vittorio Tempo, datato: «Palmanova, den (altro modo per scrivere der, n.d.r.) “il”, 4.  No (Potrebbero essere le prime due lettere del mese di novembre. Allora i mesi venivano scritti con lettera iniziale maiuscola. N.d.r.)», e la sua traduzione, i cui originali sono reperibili presso l’Archivio “Osoppo” della Resistenza nel Friuli. L’anno è omesso, ma può essere solo 1944, ipotizzabile dal fascicolo in cui si trova la missiva, ed unico anno possibile visto il contenuto. Strano però che esso non sia esplicitato, ed il mese non sia riportato per intero, che il documento sia privo di numero di protocollo e timbro, che la firma riporti solo il cognome “Borsatti”. Pertanto non so che valore dare al rapporto.

La comunicazione ai superiori pare intestata “Regt. Reiterang Jaeggeregt. I-SS=K.G.D.”, è indirizzata “Al Befehlshaber della Sicherheitspolizei und des S.D.” cioè al Comandante della Polizia di sicurezza, formata, allora, da Gestapo + Kripo, (acronimo SiPo), ed al SD (sigla che indicava il servizio informazioni tedesco, come da Irene Bolzon, op. cit., nota 3, p.16), ed è la versione che Odorico Borsatti dà ai suoi superiori sulla sparizione di Vittorio Tempo. Si deve ricordare come ad un certo punto gli stessi tedeschi furono irritati dal comportamento troppo autonomo di Borsatti, che temevano potesse screditarli agli occhi della popolazione e, nel contempo, far loro perdere partigiani importanti, come Silvio Marcuzzi, impazzito e morto a causa delle torture alla Caserma Piave, tanto che infine lo trasferirono. (Paolo Ferrari, prefazione, in Irene Bolzon, op. cit., p. 7). Pertanto i contenuti dei rapporti potrebbero essere, via via, meno veritieri. Per esempio pare davvero strano che un partigiano andasse in giro con un biglietto, in tasca o negli abiti, di promemoria di incontri per finanziamenti alla resistenza, mentre avrebbe potuto farlo benissimo una spia. La traduzione manca, sicuramente, dell’intestazione, della data, della dicitura completa dell’intestario e del destinatario, rintracciabili sulla copia in tedesco.

Comunque questo è il testo della traduzione del rapporto.

«Al SD. Udine.

Rapporto sulla fuga del bandito Tempo Vittorio.

Nel vestito del bandito arrestato Muzzan Ugo furono trovati diversi documenti fra i quali un foglio con scritto: lunedì andare a prendere dal Signor Tempo Vittorio 10.000 ₤.

Lunedì 16 ottobre mi recò (sic! Ma è “mi recai”. Infatti Borsatti scrive “ich” vestito da partigiano dal signor Tempo, oste a Gonars, e mi presentò (sic! E mi presentai n.d.r) a lui alle ore 21.  In presenza della moglie e figlia mi riceve gentilmente. Durante un colloquio durato circa un’ora, mi confessò di essere un vecchio partigiano e di aver avuto diverse volte difficoltà per ragioni politici (Sic! Ma è per ragioni politiche). Era pronto a darmi ogni aiuto in alimentari e denaro. Mi consegnò diverse bottiglie di cognac e 500 ₤ dai 10.000. Inoltre disse di conoscere bene due ufficiali della Osoppo e due della Garibaldi e di essere continuativamente in rapporti con loro. Allora ho detto di non essere partigiano ma delle SS, arrestandolo. Rifiuta di parlare al giorno seguente e portandolo a Udine, avendo dovuto cambiare una ruota della macchina è riuscito a scappare e la guardia a causa di un difetto della Pistola automatica è riuscito a sparare solo un colpo senza colpirlo. Non abbiamo saputo più nulla di lui. Borsatti (Firma autografa solo cognome)».

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Ho chiesto pure, a Vittoria Tempo, informazioni sul campo di concentramento di Gonars, e così mi ha risposto.

«A Gonars c’era, prima dell’8 settembre 1943, un campo di concentramento italiano dove, da che so, si trovavano anche due triestini. All’8 settembre vi erano rinchiuse 8.000 persone. Non usciva nessun internato dal campo di Gonars, che era circondato da un muro di recinzione e presidiato da militari di guardia nelle garitte. Comandava il campo un ufficiale che si chiamava Macchi, della famiglia degli industriali della Aermacchi.

So che fu ucciso subito dopo l’8 settembre non si sa da chi e il suo corpo fu ritrovato, in decomposizione, in un campo di grano. Il corpo fu dato alla famiglia che venne a prenderlo, vestita rigorosamente di nero. Dato che conoscevano i miei, per esser stati a Gonars a trovare il loro parente, vennero al botegòn a salutarli. In quell’occasione ad una donna cadde a terra, nel negozio, un bottone nero e mio padre lo raccolse ma visse questo fatto come premonitore di disgrazie e lutti per la nostra famiglia.

Nel campo le donne giovani e belle internate erano per gli ufficiali, ed all’interno del campo vi era anche un ufficiale ostetrico. Mi ricordo che un giorno nacque un bimbo molto brutto ed informe, che sembrava una scimmia, e detto ufficiale voleva un vaso per metterne sotto alcol il corpicino, come fosse un trofeo. Mi ricordo che questo ufficiale aveva una bicicletta da corsa e che me la imprestava, e che la bici aveva i pedali con una cinghietta.

Il campo di concentramento si trovava lungo lo stradone, la Napoleonica, al di fuori dell’abitato di Gonars, che allora si sviluppava solo intorno al centro, e non come ora, e serviva anche come campo di transito di prigionieri verso altre mete. Nessuno poteva uscire dal campo e vi era di guardia un ufficiale armato. Vi fu un solo tentativo di fuga riuscito: e fu quando, mentre i connazionali cantavano cori, bellissimi, attirando l’attenzione delle guardie, un piccolo gruppo slavo riuscì a scavare un tunnel da cui alcuni fuggirono. Ma fu caso isolato.

Un giorno vi giunsero degli universitari e si seppe in paese che sarebbero passati per lo stradone, diretti al campo. Anch’io inforcai la bicicletta ed andai, incuriosita, a vederli. Mi ricordo solo che erano molto giovani.

Non so se fossero molto severi al campo di Gonars. So che vi erano carabinieri e militari del R.E.I. di stanza, per dirigere e controllare il campo.

Più di così non so».  (Laura Matelda Puppini, Intervista a Vittoria Tempo coniugata Not, cit.).

Per non dimenticare e non travisare. Laura Matelda Puppini

Ringrazio la signora Vittoria Tempo in Not per questa importante testimonianza, Irene Bolzon per il riferimento al documento presso l’ifsml, Monica Emmanuelli ed Alberto Buvoli per i dati ed i documenti c/o ifsml. L’immagine che correda l’articolo è la fotografia del documento in tedesco relativo a Vittorio Tempo, firmato”Borsatti”, pervenutami dalla dott. Emmanuelli. 

È vietata la riproduzione anche parziale di questo articolo senza mia autorizzazione. 

Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

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