Chiamerò questa donna coraggiosa e brava A. per coprire il suo nome, perché ha figli viventi e suo marito, di cui A. non pronuncia mai il nome, non ne esce molto bene da questa storia, anche se ella non mi ha mai detto di non palesare chi fosse. Non nascondo che sono particolarmente affezionata a questa intervista e grata a questa donna, che ha narrato senza remore di alcun tipo di sé stessa e della sua vita. L’intervista è stata resa in una giornata del mese di maggio del 1978, nella parlata carnica con la ‘e’, che ho tradotto perché possa essere letta da tutti. Se potessi scrivere apertamente dove visse A., che non era del comune di Rigolato, sarebbe forse più facile capire alcuni aspetti, ma io preferisco oscurare qualsiasi informazione che potrebbe portare qualche lettore a capire la sua identità. 

Ed ora vediamo ciò che mi ha raccontato A, nata nel 1905, donna carnica, maritata.

Quel giorno dopo lo scambio degli anelli …

“Io avevo imparato a cucire, facevo la sarta, e le persone venivano in casa a ritirare gli abiti che avevo confezionato. E mi ero fatta un bel vestito per le nozze, color cenere. Sa, un tempo le case erano piene di fumo. E quando entrai a casa sua, sua madre, che era davvero anziana, mi disse di tirar su un po’ la sottana, perché altrimenti avrei sporcato l’orlo di fumo, di caligine.
E così ho fatto, e siamo stati in quella casa forse un paio di ore, e quella povera donna non aveva neppure un goccio di caffè da offrirci, ed aveva solo miseria. Ed io mi ero organizzata in modo da rientrare a casa per cena. Dio santo, ce robonas! Naturalmente siamo andati e ritornati a piedi.

Anche mia madre era anziana, ma era riuscita a prepararci un po’ di carne per cena, che aveva comperato per l’occasione, a cui aveva aggiunto un po’ di pane e formaggio, ed abbiamo mangiato così, alla buona. Ed erano invitati a cena anche i testimoni di nozze.

Ed avevo messo via un po’ di confetti per la cena. Ma c’era lì, quella sera, una ragazzetta forse dodicenne, parente di mio marito, una sua cugina, che ogni tanto veniva a lavarci i piatti ed a fare qualche lavoretto. Era una poveraccia ed era molto golosa. Ed io avevo messo il golfino sull’attaccapanni ed avevo posto i confetti nella tasca. Ma quando sono andata a cercarli, non ce n’era uno!!! Questa ragazzetta golosa li aveva mangiati tutti!!!
Io, per non iniziare polemiche, sono stata zitta, perché era parente di mio marito, ed ho sempre taciuto, ho taciuto tutto, ho dovuto tacere anche su problemi ben più grossi, per esempio sul fatto che lui, mio marito, era senza soldi. Ma pazienza.

E il giorno dopo la prima notte di nozze, mi sono alzata, ci siamo alzati, e siamo andati a trovare, alla frazione B., i parenti di mio marito.  Allora c’era l’usanza di far così, e mio marito aveva cinque sorelle e due fratelli, e con lui erano otto in tutto. E allora era abitudine portare, per le nozze, una camicia o un dono a fratelli e sorelle del marito, ed anche ai suoceri. E mio marito aveva sette fra fratelli e sorelle, ed io ho portato a tutti qualcosa. E mie cognate, mi creda signora Laura, non avevano mai avuto una camicia in vita loro, e la prima che hanno indossato è quella che ho portato loro io.  Le avevo cucite io quelle camicie, e le avevo realizzate proprio bene, come usavano allora, “cu la puntinute”. Ma davvero non credevo che fossero così povere!
Ed è stata mia suocera a dirmi che quella che avevo dato loro era la prima camicia che mettevano.

E doveva vedere, Laura, che case avevano lassù, a B.!  Avevano a piano terra il pavimento fatto con acciotolato in pietra, non c’erano piastrelle a quei tempi! Ed erano case “ca fasevin sgrisulâ”, che facevano paura! Ed io non facevo altro che guardarmi intorno, stupita, perché non avevo mai visto case di quel tipo.
Mio marito aveva, in quel paese, tanti parenti: zie, zii, ed andai a conoscere tutti, e mi dicevano: «Hai sposato un bel giovane, un bell’uomo, hai davvero un bell’uomo». Ma erano tutte stupidaggini, almeno per me erano tutte scemenze.

La vita matrimoniale fra figli morti, assenza del marito, malattia e povertà.

Dopo due mesi di matrimonio, quando io ero già incinta, lui è partito per andare a lavorare in Francia. Quindi sono nati due gemelli che sono morti, e, per andare a lavorare subito dopo il parto, ho avuto anche una grave infezione. Ma ho dovuto arrangiarmi da sola, perché lui non si è fatto vivo per sei anni. Eppure lo avevo avvisato che erano nati i due bimbini. Ma come risposta, ed allora mi ha risposto, ho ricevuto due righe da mio marito in cui mi diceva che non erano più i tempi di una volta, e che se non si faceva economia, non ci sarebbero stati nemmeno i soldi per acquistare una camicia. E questo è il vaglia che mi ha mandato ….

E, come Le ho raccontato prima, tre o quattro giorni dopo aver avuto i bambini sono andata a segare tutto il giorno, per pagare l’ostetrica, che era una donna coraggiosa e piena di buona volontà, ma che non mi aveva detto che non potevo lavorare subito dopo il parto. Così la sera mi sono iniziati forti dolori al ventre ed alla schiena, e avevo la febbre a 40!
E c’era una donna che abitava nel mio borgo, che era giovane e non era sposata, che veniva qualche volta a trovarmi, e le ho chiesto aiuto, e le ho dovuto dire cosa era successo. “Iesu, bisogna chiamare subito il medico, hai la febbre a quaranta! “– mi ha detto. Ed è corsa lei, a piedi, fino a casa del medico a chiamarlo, ed è ritornata con lui.

Dopo avermi visto e visitato, il medico ha detto che non poteva fare nulla, che avevo una grave infezione da parto, che si era formato del pus, e che ero tutta gonfia, e che dovevo esser ricoverata immediatamente in ospedale. Così sono arrivati con la portantina, con quella con cui una volta portavano i morti in cimitero. E non sono mica bugie, signora Laura! Infatti come si fa a dire cose così serie per scherzo?
E così, con la portantina, mi hanno portato sino a Tolmezzo in ospedale. Ma allora in quell’ospedale non c’era abbastanza scienza per affrontare il mio caso, e così mi hanno portato all’ospedale di Udine e, per non farmi fare il viaggio da sola, è venuta una donna ad accompagnarmi. Perché io avevo tanto male e non sapevo neppure dove fosse l’ospedale di Udine. E giunta lì mi hanno operato subito, “dit e fat”, e sono stata all’ospedale di Udine sei mesi. E non le mostro per vergogna, perché non sono abituata a farlo, il taglio che ho. E mi avevano lasciato una cannula di drenaggio e, quando mi venivano a medicare, tremavo tutta, perché avevo dolori fortissimi, che non è niente far bambini al confronto.

Mentre ero ricoverata, venivano a trovarmi parenti, cugini miei che prestavano servizio ad Udine, che poi hanno raggiunto una buona posizione sociale: uno è diventato colonnello, uno era dell’aviazione, ed uno zio di mio marito era allora maresciallo. Ed essi venivano a trovarmi, e c’era questo zio di mio marito che era un uomo coraggioso, ed era coraggioso a tal punto da fare anche azioni rischiose, e così è avanzato di grado.
E non solo venivano in visita per me, ma mi lasciavano anche qualche soldo perché mi prendessi quello che volevo. Ma io non ho mai preso nulla, perché speravo sempre di tornare a casa, e così mettevo via questi soldi per pagarmi il viaggio di ritorno.

E finalmente, sei mesi dopo, è giunto il professore che mi ha detto che potevo andare a casa, che avrei dovuto fare tre mesi di convalescenza e mangiare carne, uova, e vino champagne. E la convalescenza serviva perché, dopo l’operazione, ero rimasta molto debilitata, ed i bambini che avevo partorito erano morti. Ma per acquistare carne e vino ci volevano soldi che non avevo, ed inoltre dovevo pensare anche a mia madre che era rimasta vedova e senza pensione. Mamma mia, che storia, che storia lunga, signora Laura, ci vorrebbero ore a raccontare tutto!!!!

Deve sapere che, allora, avevo una cugina che si chiamava G. che era a servizio presso l’albergo Roma. Quando sono tornata a casa, G. è venuta a trovarmi, e le ho domandato se avevano bisogno di una serva all’albergo.  «Orpo, fammi pensare. – dice- È appena andata via una che lavorava con me, e credo che manchi personale e che vogliano cercare un’altra al suo posto». Ed allora le ho detto che mettesse una parola buona per me, perché, come poteva vedere, avevo miseria e dovevo trovare un modo per avere qualche soldo per me e per mia madre, che era anziana e senza pensione, e che guadagnava qualcosa filando la lana con il fuso per quelli che avevano le pecore e le tosavano, e che, sapendo la sua situazione, la aiutavano in questo modo.

E così G. ha acconsentito a chiedere lavoro per me, e mi ha detto che, se la risposta fosse stata positiva, me lo avrebbe fatto sapere. E dopo un po’ la risposta è arrivata, e ho passato la convalescenza a servizio all’Albergo Roma.
E certamente lì il lavoro non mancava, ma ero in albergo, e quello che mangiavano gli ospiti mangiavamo anche noi serve, e mangiavamo abbastanza bene.

Ho iniziato a lavorare in ottobre, e non ero a servizio neppure da un mese che, a Tolmezzo, è giunto il giorno del mercato dei Santi. Così sono andata dalla padrona e le ho chiesto un piacere: che mi desse qualche soldo dello stipendio perché volevo andare ad acquistare un porcellino da latte. Così mi ha anticipato 15 lire dello stipendio, e ho acquistato questo porcellino e l’ho posto sotto uno di quei “podin”, di quei bidoni, che si usavano per mettere il vino. Ed il giorno dopo era giornata di festa, ed ho chiesto un giorno di permesso dal lavoro per portare il porcellino a mia madre, che lo allevasse. E per fortuna me lo hanno concesso, perché allora non c’era Natale, non c’erano feste, e di grazia che mi avevano preso a lavorare.
Così sono andata al paese, a casa, a portare il porcellino di regalo a mia madre.

Ma, dopo che ero tornata a lavorare, me ne è toccata una bella, in albergo. Me ne sono toccate di tutte, mi creda! Mangiavo abbastanza, niente da dire, mangiavo come fossi in famiglia, ma lì, a lavorare, c’era un giovanotto non maritato, un “fantaciàt vedràn”, che, se avessi avuto voglia… e non serve che spieghi di più. Ma io non sono mai stata una di quelle, una di quel ‘partito’, mi deve credere, e non avrei acconsentito per nulla al mondo.

Ho lavorato e lavorato, e, dopo un anno un anno e mezzo che ero lì a lavorare, sono andata via. Mi ero rimessa abbastanza bene, avevo mangiato a sufficienza, stavo bene.

A cercare il marito, che non vedeva da sei anni, fra incertezze e perplessità.

Un giorno è venuta a trovarmi una mia paesana, che si chiamava P. ed abitava a Parigi, e le ho chiesto se avesse visto mio marito, che era scomparso, che non mi scriveva più. E lei mi ha detto che l’aveva visto di recente, ma che avrei dovuto avere forza e coraggio, e che facessi quello che ritenevo opportuno.
E io ho pensato che “l’amore vecchio non fa la ruggine” e io mi ero sposata perché volevo una famiglia e dei figli, e così ho raccontato a mia madre quello che mi aveva detto P., e che pensavo di andare a cercare il mio sposo.
E mia madre, povera donna sola, mi ha detto di fare quello che desideravo fare, perché lei era ormai vecchia e “oggi poteva esserci, domani no”, e desiderava solo che io facessi ciò che il Signore mi diceva di fare.

Ed allora, avuto il suo assenso, sono andata dal prete del paese, e gli ho chiesto consiglio, se dovevo raggiungere mio marito o no. Ed il sacerdote, che aveva tempo prima scritto una lettera a mio marito per conto mio quando erano nati i gemelli, per la verità pensava che fosse preferibile soprassedere. «Sapete pur che gli ho scritto – mi ha detto- che non vi ha mandato una lira, e che vive nel fango». E per dissuadermi mi ha raccontato una storia vera.

«Nel paese dove sono nato c’è un signore, che abita vicino a me, che mi ha raccontato che c’era una signora che è andata a cercare all’estero suo marito, che non si faceva più vivo. Questa povera donna aveva due bimbi a casa, e li aveva lasciati con i suoi genitori. Ed ha scelto lei di andare a cercarlo, come volete fare ora voi. E quanto è giunta al paese dove si trovava suo marito ha cercato la casa dove viveva e si è presentata. Ma si è presentata mentre si stava svolgendo una festa, un battesimo, e vi era una tavola imbandita piena di parenti.

E proprio sul più bello è giunta lei. Lui l’ha accettata senza batter ciglio, ha detto ai presenti che era una parente, una cugina, tanto lei non capiva perché non conosceva la lingua, l’ha fatta sedere a tavola, ed hanno mangiato tutti insieme. A fine pasto, le ha detto: “Andiamo a fare due passi”, e lei ha accettato.

E sono usciti dalla casa, uno accanto all’altra, e, strada facendo, lui ha preso la via che conduceva alla stazione. E giunti alla stazione le ha detto «Sai, tu sei venuta a cercarmi, ma io non penso di ritornare più in Italia. Sei giunta proprio mentre si stava svolgendo la festa di battesimo del bimbo che ho avuto qui, credo tu lo abbia capito.  Pertanto torna a casa, ma hai i soldi per il viaggio di ritorno?» Lei ha risposto che aveva qualche soldo, e lui le ha detto che, se non avesse avuto nulla, le avrebbe fatto fare il salto del ponte.
Allora lei si è spaventata, lo ha implorato di non toglierle la vita, e gli ha detto che forse le mancava qualche spicciolo per il biglietto, ma che avrebbe cercato di recuperarlo. Allora lui le ha dato il denaro mancante per il viaggio di ritorno, e l’ha accompagnata fino al vagone, e l’ha aiutata a salire sul treno.

Così lei è tornata al suo borgo, ed ha raccontato tutto ai paesani ed al prete. Ah, signora Laura, quante ne toccano, nella vita!

«Vedi di non tornare indietro anche tu così – ha continuato il mio sacerdote – e vedi di calcolare, per il viaggio, i soldi per l’andata e per il ritorno. Tuo marito non ha soldi da darti – ha continuato – perché vive in mezzo al fango, e non vorrei che ti facesse fare, se non hai denaro a sufficienza, una brutta fine».
E a questo punto io ho pensato: «Dio mio!», perché servivano 500 lire per andare, ed altre 500 lire per tornare. E mille lire, erano una cifra, allora. Ma avevo lavorato, e qualcosa avevo messo via del mio lavoro, ed ero andata a far fieno e lo avevo venduto, e avevo racimolato la cifra che mi serviva.

Così sono partita anch’io per la Francia a cercare mio marito, ma ero in una botte di ferro perché viaggiavo con una mia paesana, la moglie dell’ impresario, che mi diceva cosa fare se non lo sapevo, e che mi avrebbe aiutato, e che era una donna davvero in gamba. Ho patito tanto, signora Laura, me ne ha fatte tante mio marito, ed ho avuto coraggio sa, ho avuto tanto coraggio ad andare a cercarlo, ed il Signore mi ha voluto bene e mi ha aiutato. Ed infine sono giunta a Parigi, dove stava mio marito, e la moglie dell’impresario, che aveva viaggiato con me, è andata ad avvisare mio marito che ero arrivata, e che mi trovavo ospite a casa sua …”.

E per ora mi fermo qui, nel racconto e vi invito a leggere la prossima puntata…

Laura Matelda Puppini

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L’intervista ad A. è di Laura Matelda Puppini e si è svolta nel mese di maggio del 1978. La trascrizione dal carnico è di Laura Matelda Puppini. L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: http://www.donneincarnia.it/ieri/portatricicarniche.htm, e rappresenta il monumento alla donna carnica posto nella zona antistante l’isis “Fermo Solari” di Tolmezzo. Laura Matelda Puppini

 

 

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