Sono passati più di trent’anni dalla caduta del muro di Berlino: urla esultanti celebrarono quell’avvenimento. Una città si riunificava, la cortina di ferro cadeva definitivamente, tutti sognavano un mondo di pace e fraternità senza muri, ma poi, oltre quello di Gerusalemme, venne il muro costruito, su terre palestinesi, dallo Stato di Israele, che divide la Cisgiordania dallo stesso. E non a caso, nel 2017, il giornalista brasiliano Folha de S. Paulo ha scritto un testo che si intitola: “Un mundo de muros. Las barreras que no separan”. (1).  (rte.folha.uol.com.br/mundo/2017/un-mundo-de-muros/). Così, in sintesi, siamo passati dal muro simbolo della divisione distrutto ad altri muri eretti e solidamente in piedi di cui neppure ci ricordiamo.  

Ma invece quali ricadute ha portato pure la fine della cortina di ferro, iniziata qualche tempo prima dell’abbattimento del muro di Belino, ultimo simbolo concreto di divisione, oltre quelli politici internazionali, sulla Carnia, sul Friuli, sul Pordenonese, sull’Italia? L’apertura dei mercati verso est, per esempio e la disposizione di mano d’opera a basso costo.  Immediatamente gli industriali grandi e meno grandi guardarono oltre quei ‘confini’ abbattuti, e videro la possibilità di ampi guadagni con la produzione di beni e manufatti, pagando pure, spesso, di meno le maestranze. 

Scannerizzazione di un articolo da Udineeconomica, dicembre 2004, n.11.

Ilaria Mariotti nel suo: “Le strategie di delocalizzazione delle imprese del Nord Est nei paesi dell’Europa sud orientale: reti lunghe o fabbriche con le ruote?”, datato 2003, (2) (ha scritto che «La delocalizzazione delle imprese italiane nel Sud Est Europeo è un fenomeno che ha assunto dimensioni consistenti in conseguenza soprattutto dei mutamenti del quadro politico e istituzionale in Europa, della riduzione delle barriere tariffarie e dello sviluppo di tecnologie di comunicazione e trasporto che hanno favorito l’estensione su scala transnazionale dei sistemi produttivi». Ed ha aggiunto che così è andato a finire che, dagli anni ’80, si è andata intensificando la presenza delle imprese italiane operanti nei settori del Made in Italy, appartenenti in prevalenza ai distretti del Nord Est ma anche del Centro e del Sud-Est, nei Paesi dell’Europa Sud Orientale. E questa presenza è stata tale da far ritenere che «non si tratti affatto di un evento congiunturale quanto piuttosto di un sintomo del cambiamento strutturale dell’economia regionale […]». (3). E certamente questo aspetto ha avuto un impatto sul mercato del lavoro locale.

La delocalizzazione da parte di imprese è avvenuta o attraverso la dismissione parziale o totale di impianti nella base domestica e l’apertura di un nuovo stabilimento in paesi terzi, o attraverso lo spostamento di attività produttive, precedentemente svolte su base domestica, ad altre imprese localizzate in paesi stranieri (che possono essere di proprietà italiana o straniera). In quest’ultimo caso, la produzione sia di beni finali che intermedi, non viene venduta direttamente sul mercato ma viene acquistata dall’impresa italiana presumibilmente per essere poi rivenduta sotto suo marchio. (4).

All’epoca di questo studio, le industrie privilegiavano ancora, per delocalizzare, l’Est europeo: Balcani, Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia, ma già nel 2003 si guardava alla Cina, che stava diventando un paese da tenere sotto osservazione per le percentuali di aziende italiane che avevano messo piede nel paese del Sol Levante. (5).

Da uno studio di quegli anni, risultava che le imprese che avevano delocalizzato nei Paesi dell’Europa Sud Orientale, erano di piccole e medie dimensioni, appartenevano a distretti industriali ed operavano nei settori dell’abbigliamento, del tessile (49%) e metallurgico (49%), ed avevano trasferito parte o tutte le attività in Romania per il 60%, in Croazia per il 16%, in Slovenia e Albania per poco più del 10%. Buona parte di questi imprenditori operava, nel 2003, all’estero da almeno cinque anni, mentre un numero considerevole era presente con le proprie attività da sei/dieci/quattordici anni in paesi stranieri. Le attività produttive trasferite per prime e nella maggioranza erano a basso valore aggiunto e ad alta intensità di manodopera, poiché i Paesi dell’Est rappresentavano, allora, mercati di approvvigionamento della stessa a condizioni migliori per gli industriali che l’Italia. Elo studio evidenziava come, dopo sei o dieci anni di permanenza all’estero, la maggioranza delle imprese iniziasse a trasferire all’estero anche lavorazioni più complesse, ricorrendo magari al subappalto. In tal modo veniva a manifestarsi un progressivo radicamento imprenditoriale e aziendale al di fuori della Penisola. (6).

Le tipologie di “delocalizzazione internazionale” o “frammentazione internazionale della produzione”, comportavano sia il replicare «in diversi contesti geografici la struttura produttiva della casa madre, attraverso l’investimento diretto estero» (7) puntando all’accesso ai mercati locali, sia il frammentare e dislocare, in luoghi diversi, parti di produzione utilizzando il subcontratto o la subfornitura, ottenendo migliori condizioni di costo per la loro realizzazione. (7).

Manifestazione di lavoratori dell’ Elettrolux di Porcia. (Da: https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2014/01/31/news/electrolux-conti-peggio-del-previsto-1.8576220).

Ma questa nuova ottica aziendale che si andava espandendo nel mondo della produzione e del lavoro, aveva pure pesanti ripercussioni anche in Italia sul mondo sociale, dove il termine ‘precarietà’ entrava a pieno titolo, la lotta tra poveri riprendeva, i lavoratori venivano ricacciati tra gli schiavizzati mal tutelati, e la democrazia e la partecipazione, nonché i diritti finivano praticamente quasi al macero o restavano relegati nei libri.

Ed anche un modello spaziale organizzativo: quello della fabbrica con gli operai che abitavano ove era ubicata o nei pressi con la creazione ed espansione di poli industriali collegati a poli abitativi (si pensi a Pordenone ed al pordenonese) terminava, sconvolgendo un mondo appena nato, e ricacciando i cittadini al ruolo di sotàns, di sottomessi.  Questa nuove variabili creavano situazioni che mandavano in crisi, secondo me, certezze ormai radicate rompendo pure il rapporto instauratosi tra padronato e lavoratori, marginalizzando, nel mondo del lavoro, di fatto i sindacati che diventavano la controparte solo per ottenere la cassa integrazione, e trovava politici che toglievano tout court persino lo statuto dei lavoratori, frutto di intense lotte, sostituendolo con il job act. E questo perchè la politica sa e sapeva solo inseguire i nuovi padroni senza affontare il tema di un modo diverso di investire, per esempio a livello ambientale, e di un modello diverso di sviluppo.

Ed i politici hanno continuato a finanziare le industrie, variando solo cifre e modalità, con soldi pubblici, senza contropartita, sperando solo in ripensamenti su possibili delocalizzazioni. Quando nacque il pensiero liberale, il privato investiva soldi propri o presi a prestito, ora invece con le tasse dei soli pensionati e lavoratori dipendenti, che non possono evadere il fisco, si sovvenzionano privati ‘al buio’ cioè non sapendo come andrà a finire, e senza chiedere nulla in cambio, mentre i cittadini perdono servizi, sanità, welfare.

Sono giunta a queste considerazioni, dopo aver aperto un mio vecchio quaderno, dove avevo raccolto alcuni ritagli di giornale. Il primo articolo è di Gino Grillo, è stato pubblicato il 23 novembre 2004 su Messaggero Veneto, e si intitola: “Diamo autonomia alla montagna”. In esso si racconta di un nuovo “progetto montagna’, questo a ‘firma’ DS, l’ennesimo, che, come gli altri, tranne quello che fondò la Comunità Carnica, viene descritto in modo molto vago: «La Regione cerca di definire un programma speciale di area che si esprima attraverso la programmazione integrata e negoziati per definire piani di sviluppo adeguati […]». Ditemi un po’ voi cosa si capisce.  

D’altro canto la realtà mostrava però il suo vero volto perché di fatto nel 2004- 2005 veniva presentato il progetto dell’elettrodotto aereo Somplago- Würmlach, con la scusa se ben ricordo, di salvare posti di lavoro alle industrie Pittini e Fantoni, che, a loro dire, abbisognavano assolutamente e subito di energia elettrica per continuare a stare qui, pena la chiusura o la delocalizzazione in Cina, senza che nessuno chiedesse loro se avessero macchinari obsoleti o meno o se avessero studiato altre soluzioni. Detto elettrodotto aveva ovviamente il compito di importare energia per le sopracitate industrie. Così la delocalizzazione diventava un’arma di ricatto del padronato industriale per avere quello che voleva, continuando sulla via della ‘conquista coloniale’ della Carnia, iniziata dal finanziere industriale e fascista Giuseppe Volpi, conte di Misurata, mentre noi, suoi abitanti, proseguivamo sulla via che ci portava da cittadini a sotàns, a sottomessi.

E il 5 maggio 2012, commentavo su carnia.la un articolo sull’elettrodotto riportando quanto aveva fatto allora notare Aldevis Tibaldi, Presidente del comitato per la vita del Friuli rurale: senza piano energetico regionale, vi è la possibilità che chiunque possa fare, in campo energetico, tutte le domande che vuole. Ma forse un piano energetico regionale era stato stilato ma poi era finito in un cassetto, ma forse non c’era, ma forse …

Ma perché si temevano allora delocalizzazioni? Perché da qualche anno, in Friuli Venezia Giulia dominava il: “Tutti in Cina!”, il nuovo paese di Bengodi, almeno così pareva, per gli industriali e varie aziende commerciali: “la mano d’opera lì lavora di più e costa poco, non si pagano tante tasse, non ci sono leggi rigorose per limitare l’inquinamento”: questo si sentiva dire e si leggeva allora.

Così dall’articolo “Il made in Friuli sbarca in Cina – Valduga: dobbiamo attrezzare subito una sede di rappresentanza”, (9) venivamo a sapere che Alberto Valduga, allora Presidente della Camera di Commercio, si era recato con alcuni industriali del Fvg in Cina ove avevano preso consapevolezza «della vastità e complessità del mercato cinese», ed erano rientrati con la ferma convinzione di «presentarsi in modo unitario con un progetto Friuli-Venezia Giulia da proporre ai cinesi». (10). Ma quello che stupiva era che la “missione in Cina” era stata pare voluta dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, senza ipotizzare le possibili future conseguenze a lungo termine sul suo territorio della stessa e dalle CCIAA di Pordenone, Udine, Trieste e Gorizia. E quello che sconcertava era la dichiarazione di Cinzia Palazzetti, Presidente dell’Unione degli Industriali di Pordenone, al ritorno del viaggio: «la Regione deve, in qualche modo supportare le imprese che decidono di investire in questo Paese» (11), cioè in Cina! In sintesi per la Signora, la Regione Fvg, ente pubblico, con fondi dei cittadini avrebbe dovuto sponsorizzare coloro che avrebbero voluto non investire in regione, ma in Cina!!!! E vi era già, in tal senso, un progetto da presentare in Regione Fvg, per l’anno seguente. Ho salvato l’articolo perché il tutto mi pareva demenziale!

Ma invece la Regione Fvg, con DPReg 371/2005 deliberava «a) incentivi a favore delle micro, piccole e medie imprese per l’attuazione di programmi pluriennali di promozione all’estero, di cui al capo VIII della legge regionale20 gennaio 1992, n. 2 (…);  b) incentivi per la promozione all’estero di specifici comparti produttivi di cui all’articolo 6 della legge regionale 5 dicembre 2003, n. 18 (Interventi urgenti nei settori dell’industria, dell’artigianato, della cooperazione, del commercio e del turismo, in materia di sicurezza sul lavoro, asili nido nei luoghi di lavoro, nonché a favore delle imprese danneggiate da eventi calamitosi), caratterizzati da elevati livelli qualitativi, perseguendo tramite la valorizzazione del prodotto e l’informazione sullo stesso, anche la tutela del consumatore». (12). E si chiamava o forse si chiama ancora: “Promozione all’ estero!”. (13) Avessero magari pensato di investire nella sanità pubblica, nei trasporti … e di promuovere in Regione. Macché. La Regione Autonoma Friuli- Venezia Giulia aveva deciso di finanziare chi se ne andava!  

Ma chi aveva sostenuto, l’anno precedente, questa politica? Valduga e gli industriali Fvg, dall’articolo del Messaggero Veneto sopra citato, cioè dei privati presenti in Regione, che avevano pure ipotizzato lo spostamento di piccole e medie imprese friulane in Cina, che però da sole non avrebbero potuto sostenersi nel paese del Sol Levante. L”ipotesi  era quindi che si aggregassero, e che, in questa loro migrazione venissero sostenute dalla Regione Fvg, anche attraverso la creazione, seguendo l’esempio della Lombardia, di una sede di rappresentanza della CCIAA a Shangai o a Pechino. Insomma quella progettualità che sarebbe stata una vera tragedia per la Regione ed una perdita di denaro pubblico dato per fini privati, veniva benedetta anche dalla Regione, senza guardare al futuro del territorio di riferimento. (14).

Non solo: fatto un viaggio e visti possibili mercati all’orizzonte, i nostri industriali e ‘camerali’ decidevano che si sarebbe dovuto programmarne un altro, onde dare continuità al progetto di andarsene. (15). Insomma, ormai poco interessati al Fvg ed ai luoghi dove avevano iniziato le loro fortune e magari le avevano pure ampliate grazie a pubbliche sovvenzioni, industriali e operatori delle CCIAA friulani e goriziani guardavano ormai al Sol Levante, con la benedizione del potere pubblico regionale!!!!  Eppure quanto accaduto alla De Longhi avrebbe dovuto far riflettere.

Manifestazione dei lavoratori della De Longhi contro il trasferimento della De Longhi in Cina. (Fonte purtroppo non salvata, Ma è o il Messaggero Veneto o il Gazzettino).

. “Alto Friuli. Oltre 500 posti di lavoro a rischio” intitolava il Messaggero Veneto il 20 maggio 2004. “C’è attesa per l’incontro di lunedì 24 tra la Regione e la proprietà” riportava l’occhiello. Ed i sindacati, nel frattempo, minacciavano azioni clamorose.

Ma cos’era accaduto? La De Longhi, grazie alla Regione Fvg, aveva aperto ad Ampezzo, nei locali dove prima c’era stata, se non erro, la fabbrica di mobili ‘Snaidero’ poi migrata in Friuli, una sua fabbrica che produceva in particolare macchine da caffè, che aveva dato lavoro a centinaia di carnici, in particolare giovani donne, che avevano così anche animato il paese, i bar e la pizzeria locale. Ma dopo tre o quattro anni, la fabbrica aveva chiuso, in quanto la De Longhi aveva deciso di portare la produzione in Cina. Invano i lavoratori avevano issato un cartello: “De Longhi Ampezzo, no alla Cina!” (16).  Invano si erano susseguiti, come sempre, incontri con sindacati e politici, che avevano sortito poco o nulla.

«”La Cina è vicina”, scandivano gli operai nel negli anni ’70, ai tempi del libretto rosso del Presidente Mao. Ora però che la Cina si è proposta sul mercato mondiale, fa molta più paura»- scriveva l’autore dell’ultimo articolo citato.  (17).   E sappiamo che attualmente più imprenditori friulani hanno investito in Cina invece che a casa loro, tanto che in quel Paese sono presenti stabilimenti Danieli, Pmp e Barazzutti, oltre che uffici per c & Partners e gruppo Luci, e ci sono diversi showroom di Snaidero e Calligaris. (18). Ma non a caso anche la Ue guarda alla Cina ora come partner commerciale privilegiato, in un’ottica meramente finanziaria. (19).

 E chi non se ne andava in Cina prendeva la via dei paesi dell’Est, dove la forza lavoro era meno tutelata e costava meno, ed i mercati erano più appetibili. Così il 23/11/2004 sul Messaggero Veneto si poteva leggere un articolo intitolato: “Electrolux sceglie la strada dell’Est. Previsti impianti in Russia, Polonia e Ungheria. Porcia punto di riferimento”, firmato da Antonio Bacci.
Ma perché l’azienda aveva fatto questa scelta? Perché Russia, Polonia e Ungheria erano porte di accesso ai mercati dell’Est.
Questo non avevamo previsto quando cadde il muro di Berlino, e molto altro, come per esempio la creazione del Gruppo di Visègrad, la ripresa del nazionalismo più accesso accompagnato da revivals neonazisti, il nuov muro anti- migranti ungherese e via dicendo.

E i lavoratori qui? Johann Bygge, numero 2 della multinazionale dichiarava che sul futuro assetto della produzione in Italia avrebbe gravato l’andamento dei mercati.

E come finiremo ora noi, in Carnia, in Friuli, nel Pordenonese, in Fvg? Dovremo migrare in Cina o nei paesi di Visegrad che però non ci vogliono? Chiediamocelo. Inoltre se mancano i posti di lavoro, i giovani si spostano dove possono trovarli, e in Fvg resta solo la popolazione anziana, depauperando la regione di vita e futuro. Almeno smettiamola di svendere acqua, territorio, ambiente, e curiamo quello che Dio ci ha dato e che ci è rimasto. Si può investire molto sull’ambiente che può anche rendere: basta vedere il Trentino – Alto Adige nostro dirimpettaio. Ma se continuiamo così … Inoltre sarebbe ora che per la Regione i partiti proponessero qualcuno che capisca qualcosa di economia non neoliberista e iniziasse a pensare nei termini di un nuovo modo di sviluppo, se i buoi non sono già scappati dalla stalla!

Queste sono solo due mie riflessioni per iniziare un discorso sull’economia del ‘poi’, per far riflettere sull’uso territorio e sul ruolo di comuni e regioni, guardando al futuro, che non può essere per noi cinese, con tutto il rispetto per la Cina. Senza voler offendere alcuno, e se ho sbagliato correggetemi e commentate. Ma così non si può andare avanti, perchè la Carnia si sta trasformando in una riserva indiana, colonizzata e senza servizi, ed in una terra del disagio sociale.  Ma anche il Fvg mi pare in ginocchio e non per il covid – 19, in questo caso. Senza offesa per alcuno.

Laura Matelda Puppini.

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Note.

  1. Folha de S. Paulo, Un mundo de muros. Las barreras que no separan, rte.folha.uol.com.br/mundo/2017/un-mundo-de-muros/.
  2. Ilaria Mariotti nel suo: “Le strategie di delocalizzazione delle imprese del Nord Est nei paesi dell’Europa sud orientale: reti lunghe o fabbriche con le ruote?”, https://www.ice.it/it/sites/default/files/inline-files/Rapporto%20Ice%202003%20-%20Mariotti.pdf, p. 316.
  3. Ibidem.
  4. Ivi, p. 317.
  5. Ivi, p. 318.
  6. Ivi, p. 319. La ricerca di riferimento è quella condotta da Micelli et al. nel 2003, utilizzando un questionario a risposta telefonica.
  7. Ivi, p. 318.
  8. Mario Sensini, nuovi rischi per i conti pubblici. La Consulta apre il caso Regioni, in Corriere della Sera, 23 agosto 2015.
  9. “Il made in Friuli sbarca in Cina – Valduga: dobbiamo attrezzare subito una sede di rappresentanza”, in Messaggero Veneto 23/11/2004. Titolo a lato: “Abbiamo già uno studio per il 2005”.
  10. Ivi.
  11. Ivi.
  12. https://www.regione.fvg.it/rafvg/export/sites/default/RAFVG/economia-imprese/allegati/DPReg_371_2005_15gen09.pdf.
  13. Ivi.
  14. “Il made in Friuli sbarca in Cina”, cit. Sul n. 11 di Udine Economica, del dicembre 2004, si potevano leggere i seguenti articoli sull’argomento: “Tesini e Iacop: il progetto 2005 per passare ai fatti”; “Parlano Fantoni, Tadina, Colacicchi, Miotti, Colutta, Cacciaguerra, Tassile, Perin, Butazzoni – Positivi i commenti degl imprenditori”; “Nord Est alle soglie del 2005”.
  15. Cfr. Ibidem.
  16. No alla De Longhi in Cina, in Messaggero Veneto, 12 maggio 2004.
  17. Ivi.
  18. https://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2020/01/29/news/imprenditori-friulani-in-cina-stop-agli-impianti-e-rimpatri-dei-dipendenti-1.38398832.
  19. Cfr. nel merito, per esempio: “Accordo sugli investimenti tra Ue e Cina, ma l’intervento di Macron fa arrabbiare l’Italia”, in https://www.agi.it/estero/news/2020-12-31/ue-cina-accordo-investimenti-10864131/.

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L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da http://www.donneincarnia.it/notizie/lavoro.htm, e riguarda le lotte dei lavoratori contro la delocalizzazione in Cina della De Longhi di Ampezzo. Laura Matelda Puppini

 

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