È qualche anno che medito, davanti a casi concreti, sul suicidio.

Ho conosciuto ed ho avuto notizia di persone che improvvisamente se ne sono andate per sempre per propria mano, F. studente universitario, D. ebrea e studentessa universitaria, G. studente delle superiori, B. di cognome, lavoratore, M. studentessa universitaria, L. lavoratore, M. studentessa universitaria, L. docente alle superiori, M. ingegnere, S. infermiera, ed altri di cui si mormora davanti all’annuncio mortuario, ed a tutti ho rivolto un pensiero, una riflessione, un riposa in pace e che almeno la terra ti sia lieve.

Giorgio Ferigo mi aveva accennato ad un convegno dell’ass3 sul tema del suicidio, a cui aveva parlato come relatore, e mi aveva dato la sua relazione. Così gli rispondevo il 20 gennaio 2006:

« Caro Giorgio,
in merito al tema del “suicidio” vorrei darti queste mie riflessioni personali che si possono, ovviamente, anche cestinare.
Spesso, da quanto ho potuto capire, il suicidio cioè il togliersi la vita, ha come motore il porre fine ad una lunga sofferenza, interiore o fisica (che implica sempre un aspetto anche psicologico) non più tollerabile e, nel primo caso, non sempre palesemente espressa o manifesta.
Pertanto, a mio avviso, non si può puntare o centrare un discorso sul suicidio eminentemente sulla volontà dell’atto, in quanto ogni atto (comportamento, azione) viene posto in essere in un contesto di vita e relazionale, ed è frutto di quanto il soggetto ha “memorizzato” delle sue precedenti esperienze nonché del suo “percepire” in quella data situazione. (Cfr. Salomon Asch, Gregory Bateson, Jacques Deridda, J.L. Moreno, per es.).
K. Lewin scrisse che il comportamento individuale è funzione della personalità e dell’ambiente, concetto sintetizzato nella nota formula: C = ( P,A), che pare sufficientemente verosimile.
A mio avviso, pertanto, il suicidio come categoria astratta non ha una sua logica in un approccio serio al problema ma, invece, il “togliersi la vita” da parte di un soggetto con una sua storia ed in un contesto preciso è certamente un modo più attuale di avvicinarsi al tema in questione.

In quest’ottica, allora, si può parlare di “suicidi” non più di “suicidio” come forma o idea platonica, posta al di sopra dell’esistente e del quotidiano.
Ci sono invece alcune situazioni simili che permettono di raggruppare alcuni casi di suicidio e che ci aiutano a comprendere le motivazioni che possono aver spinto una persona a togliersi la vita.

Vi è il suicidio di chi, malato terminale, già di fatto “spacciato” dalla vita, non fa che anticipare, suicidandosi, l’infausto exitus. In questo caso la coscienza dell’atto può essere presente nella sua totalità e lucidità e non è altro che, come già detto, un precorrere i tempi di una fine già scritta. Paradossalmente in questo caso il suicidio potrebbe essere visto nell’ottica di permettere il mantenimento, nei congiunti e nel “sociale”, di una propria immagine dignitosa, non disgregata dal progressivo ed inarrestabile sfacelo fisico e psicologico insieme. In questa situazione il suicidio è interruzione di un percorso obbligato.

• Nel secondo caso, molto simile al primo, l’atto di togliersi la vita è una fuga da una inutile sofferenza, da una situazione senza reali vie d’ uscita. In tal senso possono venir interpretati i suicidi, tentati o portati a termine, di soggetti in situazioni estreme di dolore e difficoltà: incarcerati in condizioni disumane, torturati, per cui il domani sarà uguale all’oggi, la cui personalità è annientata, a cui è persino vietato togliersi la vita, in spregio alla possibilità di scelta individuale e nella logica sadica del reiterare il dolore e la sofferenza.

Vi sono inoltre persone che, pur essendo uscite vive da situazioni come quelle sopra riportate, non riescono a dimenticare le grida, il dolore, i tunnel senza uscita, la morte sotto indicibili sofferenze anche di persone care, per mano di efferati aguzzini. Esse non riescono a superare quanto loro accaduto, i loro “sogni” si riempiono di incubi, l’odore della “carne macellata” sale continuamente alle loro narici. E spesso, come nel caso di Jean Amery, devono amaramente constatare che gran parte dei carnefici o dei loro mandanti se la cavano a buon mercato o come nulla fosse stato. Ogni cosa ha un limite, anche l’umana sopportazione, e pure chi è sopravvissuto ad un cerchio infernale può decidere che la vita non vale più la pena di essere vissuta.

• Si tolgono la vita pure persone il cui tormento interiore ha raggiunto un punto tale che “farla finita” viene vista come l’unica soluzione. Spesso si tratta di giovani, ma non solo, che non vedono più un futuro, nemmeno uno qualsiasi, disperati, che si sentono soli, incompresi, inascoltati, oppure sono dileggiati dai compagni, vittime di atti reiterati di bullismo, (a proposito leggi, se ne hai voglia il tremendo “Carrie” di Stephen King), o ancora sono “caduti nel dimenticatoio” dopo veloci successi.

Fra i suicidi vi sono persone che si trovano, più o meno improvvisamente, in forti difficoltà materiali. La perdita del lavoro, la mancanza di soldi per tirare avanti ed il non sapere come reperirli, il brusco passaggio dalla classe media ad una situazione di povertà, in una società in cui, tra l’altro, è l’avere che conta e non l’essere, in cui il massimo raggiungibile è essere “Up” senza pensare che ogni “Up” implica almeno un “Down”, può portare a vivere la situazione come senza via d’uscita se non il togliersi la vita.
In questi casi l’aiuto che può giungere al soggetto da una associazione umanitaria, da un sindacato, da un patronato o quant’altro è certamente più efficace di quella del personale medico o paramedico, in quanto tende a risolvere la causa del disagio, dell’ansia, della disperazione.

Vi sono infine coloro che “si lasciano” morire: anziani che rifiutano cibi o bevande, che si pongono a letto senza essere più attivi, che non assumono più i farmaci come dovrebbero o affatto, per scelta e non per demenza senile.

• Un discorso a sé va fatto per coloro che scelgono di suicidarsi come opzione calcolata in precedenza: attentatori – suicidi, persone che potrebbero subire, realmente, l’arresto e la tortura, spie “beccate”, suicidi “per onore” o per non cadere nelle mani del nemico.

Tornando al suicidio, esso non può essere inteso come l’asettico “uccidersi”. Il tentativo di sdrammatizzare il “dramma” viene proprio dalla lingua friulana: “a si è copât”. Questo togliere pathos ha a che fare: da un lato con l’esorcizzare la morte, da un altro con il rifiuto e la rimozione della realtà oggettiva del suicidio come gesto estremo e culturalmente non accettato, infine con la colpa che la comunità attribuisce a chi infrange le sue leggi.
E’ pur vero, però, che nulla attrae l’interesse della gente quanto il suicidio. “Un suicidio non lascia mai indifferenti” scrivono E. Fizzotti e A. Gismondi nel loro “Il suicidio – vuoto esistenziale e ricerca di senso”, S.E.I., TO, 1991.  “Un libro sul suicidio cattura l’attenzione” – proseguono.

Tradizionalmente la problematica suicidaria è stata associata al tema della morte. Il suicidio è la “soluzione finale”, se così si può dire, per chi lo pone in atto, alla propria esistenza. Attuare il suicidio infatti non è solo tacere, chiudere con la comunicazione, ma è un chiudere col mondo, con l’esistere nella complessità del termine, un “farla finita con la vita” e con tutto ciò che il vivere comporta.
Io credo che dietro ogni suicidio ci sia una sofferenza ed un’angoscia intollerabile spesso nascosta “sotto la cenere”. Il suicidio è un atto estremo, consumato in silenzio e nel silenzio; tutto interiore.
“Non aveva vie d’uscita” si dice analizzando certe situazioni in cui un soggetto si è venuto a trovare. Ed è quello che, secondo me, spinge una persona a togliersi la vita: la percezione soggettiva di non avere via di uscita.

Ritornando alla definizione del suicidio come “farla finita” con la vita, è importante sottolineare come il parlare del suicidio non è un parlare di morte ma deve portare ad una riflessione sui contesti e sulle condizioni di vita, materiali ed esistenziali, dei soggetti che lo hanno tentato o portato a termine.
Nel linguaggio comune, lasciando da parte il categorico “a si è copât” per descrivere il comportamento di un suicida si usa: “si è tolto la vita” dove il senso di interruzione della propria esistenza è ben chiaro, “ha posto fine ai suoi giorni”, “ha deciso di farla finita”.

“Ha deciso di farla finita” mi pare l’espressione che, invece di chiudere il discorso, lo apre: quale tipo di esperienza il soggetto voleva terminare, con che cosa voleva “farla finita?”. Ed è qui il nocciolo della questione che ribalta i termini dell’approccio al problema e fa di ogni suicidio una storia a sé.

Inoltre ogni suicidio pone un pressante interrogativo a coloro che rimangono ed in particolare ai parenti del soggetto: “Perché lo ha fatto?”.
A pagina 49 del testo citato si può leggere: “Forse nessun comportamento come quello suicida reclama, nell’animo umano, una ragione che possa mitigare il dolore, lo stupore, la rabbia che si provano quando si viene a conoscenza di un suicidio …”.  L’angoscia, la ferita profonda nell’animo di chi era parente, compagno, genitore, figlio, amico, del suicida sono enormi e con esse: il bisogno di cercare il perchè; la ricerca di come si sarebbe potuto intervenire per impedire l’evento.

Sensi di colpa, sofferenza, disperazione, accomunano chi a quella persona era vicino, assieme alla disperata ricerca di una motivazione plausibile al gesto.
Si deve tener conto però che il desiderio sociale di chiudere il discorso sui perché di un suicidio marcia pari passo al disagio ed alla curiosità che l’atto induce nei più.
Accanto alla tendenza a spiegare, a capire il suicidio, sembra coesistere una tendenza opposta a non voler sapere, a negare, a dimenticare, a rimuovere attraverso una spiegazione frettolosa e superficiale “che sembra avere il solo scopo di liquidare il più in fretta possibile l’idea di suicidio dalla propria coscienza.” (Cfr. Ibidem, p. 50).
Gli estranei possono indicare nei rapporti familiari la causa di un suicidio; i parenti interrogarsi su dove hanno sbagliato.
Ma anche la società, lo stress, la viltà, sono considerati cause possibili di suicidio. Accanto a quest’atteggiamento vi è quello che invoca l’inconoscibilità del fenomeno, il raptus che coglie a sorpresa (a cui io non credo proprio).

Ritornando alla presunta inconoscibilità del fenomeno, è utile riflettere su alcune frasi prese dal linguaggio popolare: “solo lui sa perché lo ha fatto”; “… eppure non gli mancava niente …” .
“Spesso – scrivono gli autori già citati – si conclude che “il suicidio è proprio un mistero” e questa frase suona “un po’ come un metterci una pietra sopra” quasi una pietra tombale sui reali significati, le emozioni, i pensieri che hanno indotto le persone a togliersi la vita, quasi si avesse paura di guardare al di là, di rompere l’ordine costituito che il suicida, nel pensare comune, ha trasgredito col suo atto.

Uno si potrebbe chiedere perché il “farla finita” è considerato violento, inaccettabile, mentre la morte di un sofferente, non per sua mano, può essere descritta con la frase “Dio l’ha sollevato”.
In un caso chi agisce è la persona stessa che si dà la morte, nell’altro caso vi è l’intervento di Dio, nella sua bontà, il che è diverso … ma quanto?
Siamo sicuri che colui che “è stato sollevato” non abbia mai desiderato di “farla finita” ma non abbia potuto mettere in atto, per vari motivi, questo gesto?
Forse sia il primo che il secondo erano “stanchi della vita” e con ciò ritorniamo al dire comune.

Per concludere: alla luce delle considerazioni sopra riportate è ipotizzabile, ammesso che si scelga questo approccio al problema, un’attività di prevenzione efficace al suicidio da parte delle A.S.S. e del Servizio Santario Nazionale?

Innanzi tutto bisogna tener conto che, spesso, il disagio individuale non viene dimostrato in modo palese.

“Essere borghese – scrive Fritz Zorn – vuol dire essere tranquillo a qualunque costo perché altrimenti si potrebbe disturbare la quiete di qualcun altro “ (Fritz Zorn, “Il cavaliere, la morte, il diavolo”, Mondadori ed., 1978, p. 200.)

“Nella nostra società non è abituale essere dolenti (…), a Zurigo non si vive il proprio dolore ma lo si rimuove, perché il fatto stesso di soffrire potrebbe disturbare qualcuno. Non si osa guardare in faccia la realtà della propria tristezza perché quando si soffre si turba la quiete; e questa mancanza di coraggio di disturbare qualcuno con la propria tristezza, nel gergo della mia borghesissima patria si chiama “avere coraggio”. Ma io non sono affatto di questa opinione. (…). Non è solo la gioia che si deve manifestare ma anche la sofferenza.” (Ibidem, pp. 203 – 204).
“Il dolore lo si vive ma si deve vivere anche il pianto che esso provoca. (…). In America, come è noto, non si parla mai della morte. (…). In questo senso da noi è ormai dappertutto America: dapprima scannati da una società totalmente degenerata sul piano emotivo e poi sepolti nel silenzio. Quando qualcuno muore, al giorno d’oggi, non si dice neppure più che è morto, ma soltanto che “non è più”, “non è più tra noi”. ( Ibidem, p. 205).

Sia la gente comune che gli esperti, questi ultimi messi di fronte ai modesti risultati ottenuti nel tentativo di prevenire il suicidio, si chiedono se proprio non si possa fare nulla in questo campo. (Cfr. E. Fizzotti e A. Gismondi, “Op. cit. “ p. 173).

Fizzotti e Gismondi, sottolineano come, al momento attuale, per quanto riguarda la prevenzione del suicidio non vi sono conoscenze e strategie tali da garantire l’efficacia dell’intervento, e che si possano solo formulare delle congetture sulle possibili vie da seguire. (Ibidem, p. 175).
Inoltre, a loro avviso, “è controproducente pretendere di impostare interventi preventivi secondo schemi rigidi e particolareggiati da seguire ad oltranza.” E continuano: “Le (…) conoscenze, soprattutto per quanto riguarda il suicidio, sono troppo scarse per spacciare per rigorosamente scientifici progetti che in realtà sono scopiazzati un po’qua un po’ là.” (Ibidem, p. 178).

Infine i due autori mettono in evidenza alcune capacità che dovrebbero essere possedute da chi si occupi di prevenzione del suicidio e cioè quelle di:

– accettare le incertezze insite nel compito stesso;
– tollerare possibili frustrazioni e fallimenti;
– evitare di negare l’insuccesso attraverso la “magia” dei paroloni e delle terminologie incomprensibili;
– saper progettare interventi flessibili, creativi, ricchi di immaginazione;
– essere pronto a dialogare con le forze politiche per stimolare riforme sociali atte a limitare il disagio individuale e collettivo, e per pretendere l’applicazione delle leggi già esistenti a tutela del cittadino. ( Ibidem, p. 178).

Ma soprattutto: come si fa a prevenire ciò che di fatto “ancora non si conosce” e di cui si è restii persino a parlare?
Forse l’efficentismo moderno ha messo da parte la conoscenza privilegiando l’azione…
Allora, di fronte alla complessità del problema, che ruolo può giocare la scienza medica e la psichiatria in particolare, oggi come oggi, con i venti che spirano dagli U.S.A.? E a monte, cosa si intende per “scienza medica” e per “psichiatria”, attualmente in Italia, dal che discende: come opera un medico, uno psicologo, uno psichiatra del S.S.N. sul territorio?
Quale approccio si tende a dare a questo problema? Un approccio tecnicistico e “medicalizzato” per una tematica che è tutta soggettiva? Ci si appella, anche per le “tendenze suicide”, termine tanto in voga, a qualche non ben definita causa genetica con successiva cura farmacologica?
Dove ci porterà tutto ciò?
Forse, anche per il caso di “potenziali suicidi”, si inventerà un protocollo di intervento, chiaro, puro, asettico; forse l’essere “potenziale suicida” sarà un nuovo marchio per qualche poveraccio di domani. Chissà … Sperando che non si inventi un nuovo “accanimento terapeutico”.

Tolmezzo, 20 gennaio 2006

Laura Matelda Puppini»

Ritornavo sull’argomento il 5 gennaio 2013, su carnia.la, commentando l’articolo di Francesco Brollo, “Donna minaccia di darsi fuoco a Tolmezzo: salvata dall’intervento di una poliziotta”, pubblicato il giorno precedente.
«Volevano uccidersi, sono stati salvati. Ma che motivo poteva esserci dietro quel gesto, perpetrato durante le vacanze natalizie, quando pare sia un obbligo essere lieti? Disagio sociale? Problemi familiari irrisolti? Perdita del lavoro? Malattia invalidante? Dipendenza? Gioco? Perchè uno, nel 2013, decide che vivere è così difficile da cercare di rinunciarvi in via definitiva? Chi gestisce e come il disagio sociale in questa terra di nessuna speranza e di frontiera, di petec e maldicenze, di persone attaccate al bicchiere ed alla bottiglia, di praticamente nessuna sala pubblica, almeno a Tolmezzo, per incontri e programmi culturali, e ben 4 bische, ovviamente private? E come lo gestisce se i risultati sono questi? Di una giovanissima donna italiana mi si è detto: “Era depressa, era in cura, aveva fatto tutte le cure prescritte, pareva stesse bene…si è uccisa…».

Ed ancora in un secondo commento, sempre il 5 gennaio 2013, così scrivevo:

«Nel caso della giovane di cui ho omesso il nome, […] era seguita dagli esperti ecc, in cura, stava meglio: si è uccisa. Quindi bisogna vedere cosa fanno i tecnici del csm (mi pare in ass3 tolmezzo da dati visibili computer: 10 infermieri, non si sa perchè, 3 medici, 1 psicologo, ma se ho capito male mi si corregga), perchè se usano prozac come male minore e farmaci oltre che un quattro colloqui, non so se sia l’approccio corretto. E non tutti sono adatti a trattare, anche se dipendenti da csm, problematiche di questo tipo e non credo che il suicidio abbia come causa la depressione ma cause diverse, (in quanto credo che la depressione abbia cause non organiche ma situazionali) di cui alcune potrebbero esser prevenute (per es facendo in modo che non si verifichino – gioco – dipendenze) altre risolte: mancanza lavoro soldi ecc … Pertanto non mi pare che un semplice ricorso al csm possa essere una panacea per tutti i mali. Poi mi pare che il csm carnico sposi la tesi organicistica non sociale per la depressione. Infine si è ucciso un uomo anche un paio di mesi fa, e le voci sotterranee parlavano di debiti di gioco, ma i maligni ci sono dappertutto. Ovviamente lungi da me disconoscere il lavoro dei diversi csm, e credo che il ricorrervi in situazioni di difficoltà sia più che plausibile, ma credo che prevenire il disagio sia preferibile. Per esempio perchè vi è disagio scolastico? Si fa quello che si dovrebbe fare per limitare, nelle medie e superiori, le azioni di bullismo? O si parla ma dopo, di ciò che, magari molto opportunamente, non si è visto prima? Perchè vi è disagio sociale? ecc. Questo però presuppone un approccio sociale e non medico al problema».

Ed ancora in un terzo commento stessa data:

«Esistono due teorie: quella organicistica che ritiene che la depressione, che viene valutata indipendentemente dalla causa, dipenda da fattori organici, e quella che cerca nelle cause sociali la risposta ad un disagio. Può darsi che esistano fattori multipli ma una cosa è secondo me importante: non dobbiamo nasconderci che esistono degli elementi di disagio che la comunità spesso non vuole vedere, mostrando il suo lato legalmente perfetto, e misconoscendone l’esistenza. Per esempio esisteva bullismo anche nelle scuole tolmezzine, e fatti di bullismo li ho visti io, che sono pure intervenuta, ma altri li hanno visti? La madre di …, che si è impiccato, ufficialmente per amore, continua a dire che suo figlio subiva atti definibili di bullismo da un paio di compagni, ma si sa, la signora è rimasta scioccata dalla morte del figlio; esistono concrete situazioni di disagio giovanile in Italia, ma cosa vuoi che sia, si è pur detto che questa è la generazione perduta …

Inoltre studiare troppo può far male, ci possono essere ragazzi che preferirebbero lavorare che studiare, le famiglie giustamente non mettono in piazza le loro difficoltà ed un ragazzo mi ha detto che se vivi nei paesi tutti sanno tutto e gli adulti sono capaci anche di fare confronti e rinfacciare situazioni. Inoltre lo stato dovrebbe porre più attenzione ai figli di divorziati perché non diventino strumento di ricatti fra ex- coniugi, dovrebbero far in modo che il passaggio da un contesto familiare all’altro sia guidato. Infine esistono situazioni familiari segnate pesantemente dall’alcool, come dalla violenza, come dal lavoro improvvisamente perso.

Ora non è detto che tutti coloro che vivono una situazione di disagio si tolgano la vita o cerchino di farlo, per fortuna, ma una cura farmacologica non credo possa essere risposta esaustiva, su una vittima sociale che così diventa doppiamente vittima, e succube degli effetti dei farmaci. Con ciò non dico che farmaci non debbano mai esser usati, ma per es. il laroxyl, tanto quotato come panacea ad ogni problema femminile, è farmaco che ha grosse controindicazioni d’uso. Era matto, ha avuto un attimo di sconforto … ma è proprio così? Fra l’altro la signora con l’accendino in mano che ha telefonato ad un medico forse voleva un po’ di attenzione, perchè chi vuole uccidersi lo fa. Non pare abbiano chiesto aiuto L.; S.; M.; G.; D., F., e molti altri».

Un medico che opera da anni nel settore delle dipendenze mi ha scritto che, condividendo molte delle osservazioni che avevo scritto a Giorgio Ferigo, non si può però negare che la depressione, come malattia esiste, è presente in alcuni casi, e non ne si può sottovalutare la portata.

E con queste parole chiudo, attendendo qualche commento e per aprire un dibattito e la ricerca di soluzioni concrete.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che accompagna queste mie riflessioni è tratta da: http://it.123rf.com/photo_39044165_x–red-lettera-scritta-a-mano-su-sfondo-bianco.html, solo per questo uso.   Si accettano suggerimenti grafici . È PREFERIBILE, PER LEGGERE PIÙ AGEVOLMENTE, IL NERO E BLU OD IL NERO E ROSSO? Laura Matelda Puppini.

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