Dato che il 4 febbraio mi trovavo ad Udine per impegni sanitari, ho deciso di andare ad ascoltare, presso la libreria ‘Tarantola’ di Udine, un incontro organizzato da Multiverso, rivista culturale monotematica e multidisciplinare, e dall’Ifsml, ove si presentava il volume di Davide Conti: “Sull’uso pubblico della storia”, Forum ed., gennaio 2022, memore pure di aver scritto, nel lontano 26 febbraio 2015, su www.nonsolocarnia.info ai suoi albori, un articolo intitolato: “Sull’uso politico della storia”, in cui partivo dalla considerazione di Fulvio Conti, docente di Storia Contemporanea all’Università di Firenze, che così si esprimeva nel suo: “Massoneria e religioni civili, Il Mulino, 2008, a p.8: «[…] la tendenza delle forze politiche a costruire la propria legittimazione e la delegittimazione degli avversari attraverso la rilettura, spesso distorta e strumentale, del passato (il Risorgimento, il fascismo, la Resistenza, ecc.) ha dato luogo ad un forte uso pubblico della storia. (…)» (1). Ed in quell’ articolo parlavo pure del desiderio di Matteo Salvini, espresso a Roma, di riscrivere i testi di storia su base politica.

Ed intitolai così allora il mio articolo, perché credo che si sia fatto e si stia facendo un uso politico della storia, non un uso solo pubblico. Dividerò comunque in due parti questo testo, uno generale ed uno relativo alle ricorrenze di carattere storico e alla politica della memoria pubblica.

Ma per ritornare al volume di Davide (da non confondere con Fulvio) Conti, esso è stato un successo editoriale ed ha avuto molte recensioni. L’autore è uno storico dell’età contemporanea, consulente pure per la procura di Bologna nell’inchiesta per la strage del 2 agosto 1980 e per la procura di Brescia nell’inchiesta per la strage del 28 maggio 1984, oltre che per l’Archivio di Stato del Senato, ed è autore di diversi interessanti volumi. (2). Ed a Udine, ieri, è stato intervistato da Andrea Zannini, docente all’Università friulana. 

Davide Conti. Da: https://www.vicinolontano.it/ospiti/davide-conti/.

Questa storia, tutta italiana, incomincia con il non voler fare i conti dell’Italia postbellica, con il fascismo …E così è andato a finire che un lungo filo neo ha unito passato e presente … 

Questa storia, come tante altre, incomincia con quei fascisti che, all’indomani della liberazione, restarono sempre ad occupare posti della pubblica amministrazione. «Tutto va bene. Bisogna impedire un nuovo squadrismo. (…). Ma lo strano è questo: che coloro che hanno avuto il posto perché squadristi sono ancora là, duri come macigni nei loro uffici; che coloro che hanno combattuto idealmente e materialmente i patrioti ed il loro grande movimento insurrezionale ridono dalle finestre dei loro uffici a quei poveri diavoli di partigiani che passano straccioni e affamati per la strada. (…)» – Questo si può leggere su ‘Lavoro’ numero del 1° settembre 1945. (3).

Ed ancora: «Non ci piace affatto il modo con cui si trattano ora i patrioti e quando diciamo che non ci piace affatto usiamo l’espressione più moderata del linguaggio che è necessario usare al cospetto di un cumulo di porcherie ogni giorno più sfacciate e numerose. (…).
Hanno combattuto, hanno sofferto, ed hanno vinto. Ora hanno fame e chiedono di poter lavorare. Null’altro che lavoro. E lavoro per loro non c’è. (…).

I fascisti, i collaboratori, le spie, i delatori, fuggitivi ed irreperibili nei giorni caldi ora ritornano, dapprima timidi e spauriti, vieppiù spavaldi e rinfrancati poi. E per loro c’è ancora lavoro, per loro gli uffici, le imprese, le fabbriche non hanno i battenti rigidamente sprangati.  Saremmo tentati di chiedere di che gioco giochiamo se non lo sapessimo fin troppo bene». (4) – si legge su di un articolo del 26 luglio 1945.

Ed anche Davide Conti ha sostenuto la teoria del “gomitolo nero che si srotola dall’era fascista a noi”, ed ha ricordato pure che, nell’ambito dell’inchiesta svolta a Brescia nel quadro delle indagini sulla strage del 28 maggio 1978, i consulenti, fra cui c’era anche lui, si erano imbattuti in un documento davvero stupefacente: una lunga informativa del 1972 che racconta la costruzione e la fondazione di un servizio segreto parallelo, militare, operativo in Italia ai tempi delle stragi degli anni ’60 e ’70. Il documento iniziava, testualmente, così: «Questa è la storia di un servizio segreto clandestino fondato nel 1944 dal generale Mario Roatta». (5).

Copertina del volume di Giorgio Bocca “Il filo nero” Mondadori ed. 1995. Il volume viene così presentato: “Uno sguardo retrospettivo sugli ultimi cinquant’anni di storia italiana e sul carattere degli italiani dal punto di vista dell'”eterno fascismo” presente in Italia, secondo Bocca, prima e dopo la parabola del fascismo storico.  

Ma chi era Mario Roatta? Conti ci ha detto che era il primo nome presente nella lista compilata dalle Nazioni Unite dei criminali di guerra italiani da processare. Era stato comandante di Corpo d’Armata in Slovenia e lì, da quella posizione, aveva ordinato deportazioni, fucilazioni, distruzione di villaggi, torture, crimini di guerra. Ma vi è pure un libro, e questo lo scrivo io, che narra, attraverso documenti, cosa fece Roatta in Jugoslavia, ed è: “Teodoro Sala, Il fascismo italiano e gli Slavi del sud, Irsml, 2008. E non fu l’unico italiano nell’ elenco dei criminali di guerra, solo che l’Italia non ebbe mai una sua Norimberga, ha detto Conti ad Udine; mentre io aggiungo che neppure consegnò i suoi criminali di guerra agli stati dove i crimini erano stati commessi, come convenuto, perché li processassero, permettendo che ‘un filo nero’ unisse il fascismo di allora al tempo delle stragi. (6).

Non solo: secondo lo studioso, l’Italia istituzionale ha sempre rimandato di fare i conti con la sua storia ai tempi del regime, con le sue leggi razziali, diventate improvvisamente solo dei tedeschi, come con i suoi crimini e criminali, ed alcuni che avrebbero meritato un processo, sono invece stati pure promossi.  Ed ha pure riportato un paio di casi emblematici come esempio quelli di Ettore Messena e Ciro Verdiani, ambedue operativi nella Questura di Lubiana in epoca fascista, il primo del Servizio Informazioni Militare, il secondo dell’Ovra che poi, nel 1947, vennero tranquillamente inviati in Sicilia come responsabili dell’ordine pubblico, ed ad organizzare il relativo Ispettorato, e che poi furono ritenuti colpevoli di aver «finanziato, armato, protetto la latitanza con documenti falsi e addirittura con cure mediche, il bandito Salvatore Giuliano e gli uomini della sua banda: cioè gli esecutori materiali della strage del 1° maggio 1947»- come si apprende dalla sentenza sulla strage di Portella delle ginestre della Corte di Appello di Viterbo, emanata nel 1953.

Ma ancor più emblematica è la storia di Giuseppe Pièche, il capo della III sezione del Controspionaggio del Servizio Informativo Militare fascista, che viene mandato da Mussolini in Spagna nel corso della cosiddetta ‘guerra civile 1936-1939, ad intercettare e segnalare gli italiani accorsi a sostenere le forze democratiche contro Francisco Franco. Quindi come vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, nel 1941 viene inviato a Spalato, per organizzare la polizia politica degli Ustaša croati. Nel 1943 rientra in Italia, si consegna agli alleati dopo l’Armistizio, e immediatamente viene promosso e diventa vice comandante generale dell’Arma dei Carabinieri per il Mezzogiorno liberato. A fine guerra, poi, Mario Scelba, allora Ministro dell’Interno, lo chiama con sé e lo nomina suo braccio destro: così «il braccio destro di Mussolini diventa il braccio destro del Ministro dell’Italia repubblicana antifascista».

Copertina di un altro volume di Davide Conti: L’Italia di Piazza Fontana. Alle origini della crisi repubblicana, Einaudi ed. 2020.

A lui viene affidato il compito di riaggiornare il Casellario politico centrale, che contiene le schede degli oppositori politici si sinistra, e di creare una rete di Prefetti ombra che, in caso di vittoria del Fronte Popolare, cioè della sinistra, alle politiche del 1948, dovrà sostituire quelli regolarmente eletti nel dopoguerra in funzione anticomunista. Quindi Pièche partecipa al golpe Borghese dell’Immacolata, e deve fuggire a Malta perché indagato, ma poi, incredibilmente, tutti i partecipanti al golpe vengono ritenuti non colpevoli e quindi fa rientro in Patria. È stato pure uno dei fondatori, con Edgardo Sogno, dell’ Associazione ‘Pace e Libertà’, indagata poi per il golpe bianco del 1974 (7).

E così – ci ha narrato Davide Conti – la storia dell’Italia continua con quel filo nero che unisce fascismo, secondo dopoguerra, strage di “Portella delle ginestre” ad altre stragi, a partire da ‘Piazza Fontana’, realizzata quando passò in Parlamento Lo Statuto dei Lavoratori, con l’intento di incolpare gli anarchici e di negare che la ‘classe operaia’ potesse rivendicare dei diritti nei confronti dei suoi datori di lavoro.

Fascimo ed antifascismo nella storia d’Italia.

Fascismo ed antifascismo stanno alla base della storia d’Italia dopo la prima guerra mondiale per Davide Conti, che a Udine ha sottolineato come si sia fatto in modo di non far ‘venire alla luce’ le grosse responsabilità del fascismo relativamente a molti aspetti; per esempio nella promulgazione delle leggi razziali, solo per fare un esempio, che sono state fatte passare solo come mera emanazione del nazismo, e non sottolienando come il fascismo plasmò di sé tutta Europa e le colonie. Questo sta accadendo anche ora a causa «del disarmo ideale del campo antifascista, che si è ormai ridotto ad una rappresentazione riduttiva dell’antifascismo». L’antifascismo viene ormai rappresentato come forza d’urto confliggente con il fascismo, e da questo di deduce che, non essendoci ormai più fascismo, l’antifascismo si sia, giocoforza, esaurito. Ma l’antifascismo non è stato solo forza di opposizione al fascismo, è stato anche “una nuova teoria dello Stato” cioè un movimento che ha portato e definito diritti dove non erano mai esistiti.

Quella che ora viene definita dai mass media ‘la democrazia liberale’ prefascista – ha continuato Conti- non è mai stata presente in Italia, ed i padri e le madri costituenti non hanno mai voluto per l’Italia una democrazia liberale perché quella che fu poi definita arbitrariamente così, altro non era che un regime monarchico che discriminava le donne e le classi popolari, e che per evitare il suo collasso, spalancò le porte al fascismo. Ed i padri costituenti sposarono i valori fondanti dello Stato derivati dall’antifascismo, e costruirono la Carta Costituzionale su di un rovesciamento dei valori precedenti sia fascisti che liberali.  Così portarono nella costituzione temi mai presenti prima, quando vigeva ancora lo Statuto Albertino: la centralità del lavoro, la sovranità popolare, l’uguaglianza di genere, i diritti delle persone che per vivere hanno bisogno di lavorare, ed hanno posto questi temi al centro del ragionamento e dei diritti individuali, come mai era stato. Ed è questo- secondo Davide Conti- il senso dell’antifascismo di ieri e di oggi. (8).

Prima pagina della Gazzetta Ufficiale dove fu riportata la Costituzione Italiana. (Da senato.it).

Però- ha continuato Davide Conti – l’idea che l’Italia sia una democrazia liberale (anche se non è così perché, grazie all’antifascismo, è una democrazia costituzionale), è presente fortemente nelle classi formate da ricchi proprietari e nella dirigenza finanziaria. Nel 2013, la più grande banca del mondo, la JPMorgan (a cui per inciso ora si è rivolto anche Zelenskj, e questo lo scrivo io) ha prodotto un report di una cinquantina di pagine, in cui indicava i 4 anelli deboli dell’economia europea e cioè Grecia, Italia, Portogallo e Spagna. E per la JPMorgan il problema principale rappresentato da questi paesi era, testualmente, «la presenza delle loro costituzioni antifasciste», che mal si sposano con il libero mercato,  ed improntano la loro azione ed il loro perimetro di diritti e di cittadinanza su di una base antifascista. (9).

Pertanto, e questo lo dico io, pare di capire che per la JPMorgan, l’antifascismo e il libero mercato non possono camminare insieme, e che per la finanza possa esistere solo una società oligarchica e impositiva, che pare si vada costruendo anche in Italia dove, nella realtà, i diritti costituzionali si stanno riducendo al lumicino, e dove l’economia ed i servizi tendono sempre più ad esser dati in mano a privati, con il risultato di impoverire i poveri ed arricchire i ricchi e di aumentare la povertà. Non solo: una società che si regga su una economia neoliberista che presuppone una organizzazione non basata sull’antifascismo, porta con sé e ripropone tutte le contraddizioni che i sistemi oligarchici, fascisti, totalitari, colonialisti portavano con sé, con il loro bagaglio di disuguaglianze, sopraffazione, violenza, predazione di ricchezze altrui, ingiunzioni e corruzione, lotta ad un nemico magari solo definito tale, corsa agli armamenti, razzismo sotterraneo e strisciante, limitazione di ogni forma di opposizione, controllo dei mezz di informazione, e chi più ne ha più ne metta. Ma la JPMorgan è una holding bancaria multinazionale statunitense, e dispiace che molti abbiano dimenticato ogni etica propositiva del bene pubblico per seguire i suoi principi. (10). Ed anche questa è opinione mia.

Da: https://portaleimpresa24.it/finanza/jpmorgan-chase/

Le diverse narrazioni pubbliche di fatti storici.

Il volume che ho scritto – ha detto Davide Conti- «è un tentativo di ragionamento che muove attorno all’uso pubblico della storia, che è questione antica, perché nel nostro tempo contemporaneo ha assunto una funzione […] sempre più radicata intorno ad un passaggio che lo qualifica: “le politiche memoriali”. (11).

Vi è spesso un elemento di contraddizione fra la ragione dei fatti ed il modo in cui noi raccontiamo, in Italia, il tempo che è trascorso. E la seconda guerra mondiale, la guerra di Liberazione, la resistenza, per tutti i primi decenni successivi alla fine della guerra, sono stati narrati come la lotta fra il nazifascismo e l’antifascismo, avendo al centro la figura del partigiano combattente (12), ed, aggiungo io, inizialmente definito ‘patriota’ (13) indipendentemente dalla formazione di appartenenza, per poi passare qui alla divisione, ad uso politico, fra gli osovani buonissimi ed i garibaldini cattivissimi, creando due figure ‘caricaturali’ ben distinte dalla realtà che tutti i combattenti per la liberazione d’ Italia dall’invasore accomunava. 

«Ma poi, a partire dagli anni ’80 e soprattutto dopo la fine della guerra fredda, dopo il 1989 (14), questo processo di racconto del nostro passato si modifica completamente e, nello spazio pubblico europeo trova nuova centralità la necessità di un racconto unificante che, giocoforza, non può più essere quello della resistenza combattente».  (15).

Ed è in quel periodo che nasce una nuova narrazione dei fatti, che tiene insieme una comunità molto più larga, (dimenticando o meglio criminalizzando, e questo lo dico io, le ideologie che avevano giocato un ruolo negli eventi sin dal primo Novecento) e sorge l’era del ‘testimone’, che unifica il racconto memoriale intorno ai racconti drammatici dei dolori dei fatti tragici della seconda guerra mondale di cui tutti i popoli europei hanno ed avevano memoria, in un modo od in un altro. (16).

Copertina del volume di Delmo Maestri, Resistenza italiana ed impegno letterario.

Ed allora, dentro questo nuovo perimetro, ridefinito del racconto della storia, l’era del testimone sostituisce il racconto precedente, portando con sé elementi di profonda contraddizione e conflittuali. E questo accade perché il racconto memoriale trova la sua forza narrativa nel rapporto di prossimità, nell’empatia che suscita la testimonianza della vittima. Ma il problema è che questo rapporto empatico può essere suscitato da una vittima quale che sia. Infatti i figli piangono sia il padre nazista sia quello partigiano, senza differenziazioni. E sarebbe davvero difficile capire quale dei bimbi pianga l’uno quale l’altro, perché il dolore umano è identico. Ed allora la storia serve non tanto a rappresentare l’uguaglianza degli uomini alla loro morte, ma a rappresentare una valutazione di merito rispetto al nostro comportamento quando siamo in piedi sulla terra. (17), e ci permette di scindere il rapporto empatico dai fatti contestualizzati.

Il fatto che la memoria individuale si sostituisca quasi alla storia presso il pubblico, è aspetto insidioso perché può raggiungere esiti e risultati paradossalmente peggiori di quelli raggiunti dal revisionismo storico, che si proponeva di raggiungere la parificazione, l’uguaglianza storica tra i soggetti che si sono contrapposti durante la seconda guerra mondiale. Questo approccio, invasivo, ha raggiunto dei risultati, ma non totalmente l’obiettivo che si era posto, ed io credo anche perché molti, nella società odierna, hanno ormai sposato pensieri e modelli del fascismo e del nazismo, e mai parificherebbero i partigiani ai loro idoli.

Invece la centralità della memoria, ed in particolare del paradigma vittimario del racconto memoriale può produrre ciò che il revisionismo non è riuscito a produrre totalmente, e cioè la parificazione dei soggetti che si sono scontrati nelle seconda guerra mondiale.  

Ma con il nuovo corso, se le vittime diventano tutte uguali, se aspetti come shoah e foibe diventano la stessa cosa, allora tutti diventano uguali. Ma questo produce una contraddizione in termini, già presente nel rapporto tra storia e memoria e, attraverso l’uso pubblico della storia come strumento di veicolazione, può diventare una vera insidia al nostro sistema di valori riconosciuti ed alla Costituzione repubblicana, figlia della Resistenza e dell’antifascismo. (18). Ed io aggiungo che un sito di psicologia tiene ora persino un corso sul ”Ruolo del vittimismo nella politica americana”, indicandoci che, quindi, stiamo passando da una lettura della storia unificante per l’Europa al dominio americano anche a livello storico. E questa considerazione è mia.

Immagine che correda l’articolo: “Il ruolo del vittimismo nella politica americana”, https://formazionecontinuainpsicologia.it/ruolo-vittimismo-politica-americana/.

Sul populismo storico’ e la diffusione di narrazioni che cancellano i valori antifascisti in ogni classe sociale.  

E si giunge al ‘populismo storico’ che altro non è che l’evoluzione dell’istanza revisionista della storia, che però si caratterizza per alcune peculiarità, per alcune trasformazioni del racconto revisionista. Il revisionismo si era definito, nel corso del tempo, come un movimento espressione di elites culturali e pubblicistiche ed aveva provato a recidere i legami fra le radici della Repubblica ed il paradigma valoriale antifascista. E questo processo ha portato certamente dei risultati, ma mancava di un elemento centrale: una base di massa.

Il populismo storico si esprime attraverso un rapporto che, di nuovo, parte dall’ alto per calare verso il basso, ma chiede al popolo una restituzione di questa istanza revisionista su base di massa, attraverso il ‘vittimismo’, e l’empatia similare per qualsiasi vittima. E si esplica attraverso la diffusione di alcune chiavi di lettura della storia nel senso comune, ed è, il populismo storico, la diffusione nella società di elementi, di concetti, di caratteri che rappresentano un rovesciamento dal basso dei valori precedenti ed una presa di distanza, questa volta dal basso, dei valori fondativi della Repubblica. Ed è un processo che interessa tutte le meccaniche di trasmissione del sapere, e coinvolge tutte le classi sociali.

Il magistrato e lo storico. Il ruolo della storia e degli storici.

A domanda del prof. Zannini sul ruolo dello storico, che si differenza da quello del giudice, così risponde Davide Conti: «A proposito del rapporto fra storia e giustizia: il magistrato e lo storico sembrano, in alcuni casi, fare lo stesso lavoro, ma in realtà fanno esattamente l’opposto. Io ho lavorato con le procure di Brescia e di Bologna per le inchieste sulle stragi – continua Conti – ed il lavoro che svolgemmo all’ interno di quel contesto ha un segno inverso rispetto alla misura giudiziaria. Il magistrato cosa fa? Chiede allo storico di ricostruire il contesto e poi di stringerlo per circoscrivere le questioni in oggetto, e poi di stringerlo ancora ed ancora, fino ad arrivare al nucleo del fatto e stabilire se vi fu reato o no, se l’indagato o gli indagati sono colpevoli od innocenti.

Lo storico fa esattamente il processo inverso. Parte dal fatto e deve allargare, allargare, allargare, fino a comprendere perché quel fatto è potuto accadere, quali sono stati i contesti, le motivazioni, che hanno prodotto quel fatto nella storia. Per esempio: che cosa ha prodotto una strage a Bologna piuttosto che a Brescia, a piazza Fontana piuttosto che a Portella della ginestra? Quale è il contesto politico, sociale, internazionale che definisce quel tipo di azione in quel determinato momento? In fondo a questo serve la storia. Oggi, nel 2023, se la storia si limitasse a ricostruire in termini di date, fatti, nomi il tempo passato perderebbe molto, tanto della sua centralità all’ interno del discorso nella sfera pubblica». (19).

Nikolaos Gyzis, Allegoria della storia, 1892, da: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/53/Nikolaos_Gyzis_-_Historia.jpg

«La storia serve, in realtà, perché deve incaricarsi di offrire degli orizzonti di senso ai fatti. Cioè non deve solo costruire un rapporto dialettico fra passato e presente, illustrando da dove siamo partiti e dove siamo arrivati, ma deve rispondere alla domanda fondamentale: “Perché siamo ciò che siamo e perché non siamo un’altra cosa, quale è stato il processo che ci ha portato ad essere quello che siamo, tanto nell’accezione positiva quanto nell’ accezione negativa. E l’immettersi del populismo storico, cioè di un revisionismo su basi di massa, su questo processo produce un meccanismo torsivo di questa linea, riducendo la storia a tanti piccoli segmenti non comunicanti, che perdono il loro senso nella ricostruzione e diventano un fatto uguale all’altro, privando la storia della sua funzione, che è quella di illustrarci i processi che hanno determinato quegli eventi e il loro significato e che hanno determinato l’oggi e la nostra società». (20).

E con queste interessanti cosiderazioni di Davide Conti, chiudo questa prima parte che riporta principalmente il suo intervento ad Udine. Seguirà il secondo articolo relativo alle ricorrenze di carattere storico e la politica della memoria pubblica,

Un grazie sincero in primo luogo a Davide Conti ed a seguire agli organizzatori dell’incontro, ed al prof. Andrea Zannini dell’ Università di Udine, che ha permesso, con le sue puntuali domande, all’ospite di rispondere. Laura Matelda Puppini. 

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Note.

(1) Sull’uso politico della storia., in www.nonsolocarnia.info, 26 febbraio 2015.

(2) Per le altre opere di Davide Conti, cfr. https://www.einaudi.it/autori/davide-conti/.

(3) Commento a: “La coscienza giuridica degli ex- partigiani” trasmesso dall’A.N.P.I. di Tolmezzo per la pubblicazione, riportato da “La voce della giustizia” di Torino”, Lavoro, 1° settembre 1945, in: Bruno Lepre, Romano Marchetti, Carnia Lavoro, ed. Centro Studi Carnia, Tolmezzo, 1994, copia anastatica).

(4) “Per i Patrioti non c’è lavoro!” in: Lotta e lavoro, 26 luglio 1945.

(5) Trascrizione dell’intervento di Davide Conti a Gorizia, da Luciano Marcolini Provenza. Ma la stessa cosa è stata detta dallo studioso ad Udine nel pomeriggio del 4 febbraio 2023.

(6)Per Mario Roatta cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/mario-roatta_%28Dizionario-Biografico%29/.

(7) “L’uso politico della storia” Intervista di Andrea Zannini a Davide Conti sul suo volume: “L’uso pubblico della storia” Forum ed. 2022, tenutasi ad Udine il 4 febbraio 2023 presso la Libreria ‘Tarantola’. Registrazione e trascrizione di Laura Matelda Puppini.

(8) Tutta la parte relativa a Ettore Messena e Ciro Verdiani, oltre che a Giuseppe Pièche è tratta da: Davide Conti, “L’uso pubblico della storia”, intervento a Gorizia il 4 febbraio 2022 al mattino. Trascrizione di Luciano Marcolini Provenza. Ma su queste persone e fatti, Davide Conti ha raccontato le stesse cose pure pure ad Udine, solo che io ho preferito riportare dalla trascrizione dell’intervento di  Gorizia per praticità mia. Ringrazio Luciano Marcolini Provenza anche per avermela fatta pervenire.

(9) “L’uso politico della storia” Intervista, cit.

(10) Così però precisa Valeria Piergigli nel suo: “Le trasformazioni del sistema politico-istituzionale in Italia e la sostanziale continuità dello stato: «È evidente, invece, che qualora un mutamento dovesse realizzarsi in violazione di tali regole, e dunque al di fuori e magari in dispregio del dettato costituzionale, si potrebbe ragionare di una rottura della continuità dell’ordinamento. È quanto potrebbe accadere, ad esempio, nel caso in cui le richieste autonomistiche strenuamente difese da oltre un ventennio dalla Lega Nord dovessero pervenire alla – invocata e periodicamente rilanciata – indipendenza del centro-nord (c.d. Padania) dal resto dell’Italia. In questa ipotesi, però, la secessione troverebbe eventualmente realizzazione in via di fatto e non di diritto, stante la solenne proclamazione costituzionale del principio di unità e indivisibilità della repubblica (art. 5 Cost.), e allora non soltanto verrebbe meno la continuità dello stato e dell’ordinamento, ma cesserebbe anche di esistere la nazione italiana come identità culturale collettiva». (Valeria Piergigli, “Le trasformazioni del sistema politico-istituzionale in Italia e la sostanziale continuità dello stato”, in: https://p3.usal.edu.ar/index.php/aequitas/article/view/1675/2117).

(11) Questo paragrafo è tratto da “L’uso politico della storia” Intervista, cit.

(12) Ibidem.

(13) Cfr. anche su www.nonsolocarnia.info: “Dialogo a più voci. Il vecchio mondo sta morendo. Coglieremo il lucignolo fioco che ci indicherà la strada alternativa?” e “Giovanni Sarubbi, ‘Liberiamoci dal pensiero unico capitalistico’ e Cambiare rotta per sopravvivere, tra spunti teorici e la realtà.

(14) “L’uso politico della storia” Intervista, cit.

(15) Ibidem.

(16) Il Decreto Legislativo Luogotenenziale n° 158 del 05.04.1945, aveva come oggetto l’”Assistenza ai patrioti dell’Italia liberata” (GU Serie Generale n° 53 del 02.05.1945), non ai partigiani, indicando come allora essi venissero così definiti a livello istituzionale.

(17) Sulla vulgata antipartigiana degli inizi del 2000, cfr. anche il mio: Mode storiche resistenziali e non solo: via i fatti, largo alle opinioni, preferibilmente politicamente connotate”, su: www.nonsolocarnia.info. Inoltre cfr. anche, sempre su www.nonsolocarnia.info il mio: Letteratura e resistenza. Note da un testo di Delmo Maestri.

(18) “L’uso politico della storia” Intervista, cit.

(19) Per la lettura emozionale dei fatti anche storici, leggi su www.nonsolocarnia.info: “La conoscenza sentimentale e quella razionale. Il predominio delle emozioni e dell’hic et nunc nella società attuale. Inoltre cfr. anche: ‘Anne-Cécile Robert. La strategia dell’Emozione. Fremere anziché riflettere’, Le monde Diplomatique, Il Manifesto, 18 febbraio 2016, leggibile anche online in: http://www.sardegnasoprattutto.com/archives/9432.

(20). “L’uso politico della storia” Intervista, cit.

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L’immagine che accompagna il testo è un particolare della copertina del volume di Giorgio Bocca già inserita in questo articolo. L.M.P.

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2023/02/faSC-E-FILO-NEROindex-Copia.jpg?fit=190%2C41&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2023/02/faSC-E-FILO-NEROindex-Copia.jpg?resize=150%2C41&ssl=1Laura Matelda PuppiniETICA, RELIGIONI, SOCIETÀSTORIADato che il 4 febbraio mi trovavo ad Udine per impegni sanitari, ho deciso di andare ad ascoltare, presso la libreria ‘Tarantola’ di Udine, un incontro organizzato da Multiverso, rivista culturale monotematica e multidisciplinare, e dall'Ifsml, ove si presentava il volume di Davide Conti: “Sull’uso pubblico della storia”, Forum...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI