Questo è un articolo che tratta un argomento difficile, ma molto interessante: quale teologia seguì in un primo momento Aquileia? E cosa ci narra Rufino di Aquileia (1), nel suo commento al ‘Credo’ aquileiese, che si diversifica da quello ‘romano’? Inoltre questo articolo risulta davvero lungo, ma l’argomento non si riesce a spezzare. Ma questo è un racconto avvincente che ci parla del cristianesimo antico, non ancora influenzato da Agostino e dalla sua dualità, dove il corpo e l’anima si fondevano a creare una persona, e non vi era parte del corpo che fosse meno nobile di altre. Non solo: mentre ora si ripetono formule spesso pure poco comprensibili, pensate alla potenza del ‘credo’ allora pronunciato dai cristiani per scelta, magari insieme, che pare avere quasi la forza di smuovere le montagne.

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Introduzione.

Domenica 12 dicembre mi sono recata a Venzone ad ascoltare Gabriele Pelizzari (2), docente di storia del cristianesimo alla statale di Milano, e don Giuseppe Laiti (3) parlare del primo cristianesimo aquileiese come ci fu tramandato da Rufino anche attraverso il suo commento al ‘Credo’, presentando il volume curato dal solo Pelizzari: Rufino di Aquileia, Spiegazione del Credo, Paoline ed., 2021. L’incontro, promosso da ‘Glesie furlane’, si intitolava: “Tradunt maiores nostri, La Spiegazione del Credo di Rufino: per una nuova lettura delle origini cristiane ad Aquileia”.

Ma ho ascoltato pure le parole di Pelizzari sui dimenticati mosaici di Aquileia che, dico io, meriterebbero invero maggiore attenzione ed una messa in sicurezza, da parte della Regione Friuli Venezia Giulia, che forse ha scordato un serio impegno verso questi antichi segni della cristianità. E mi riferisco all’ultima mia visita alla basilica.

Rufino, vissuto tra IV e V secolo d.C., ha donato alla storia ed alla memoria anche la teologia aquileiese del secondo secolo: diverso modo di vedere i fondamenti del Cristianesimo, la passione e resurrezione di Cristo, di cogliere Dio uno e trino, in mezzo ad altre interpretazioni che via via venivano definite eretiche, mentre si andava configurando l’ortodossia. Ma al cristianesimo, per imporsi in modo definitivo dovunque, ‘urbi et orbi’ nel mondo allora conosciuto, anche sotto un unico credo, servì la spada di Carlo Magno (4), il connubio tra potere temporale e spirituale. Per ritornare, però, alle diverse visioni teologiche nei primi secoli del cristianesimo: che confusione per noi, non dotti in materia! Ma Laiti ci ha ben spiegato che ogni comunità, alle origini, cercava di comprendere le basi del cristianesimo ed il mistero di Cristo Dio e uomo, morto e risorto, sulla base pure della propria cultura.
Per prima cosa, però, proviamo a capire chi fu Rufino, di cui si è parlato nell’incontro tenutosi nel magnifico duomo di Venzone.

Il duomo di Venzone dopo la ricostruzione. (Da: http://www.viaggioinfriuliveneziagiulia.it/wcms/index.php?id=6185,0,0,1,0,0)

Chi fu Tirannio Rufino.

Rufino o meglio Tyrannius Rufinus, nacque a Concordia Sagittaria, che si trovava sotto l’influenza aquileiese, nel 345 circa, da genitori cristiani. Mentre attendeva agli studi in Roma, fece conoscenza con San Girolamo (5). Visse alcuni anni ad Aquileia, e qui ricevette il battesimo. Nel 371 viaggiò in Egitto, dove visitò gli anacoreti che si erano stabiliti nel deserto, a Nitria e a Scete. Si trattenne poi, per alcuni anni, ad Alessandria dove, alla scuola di Didimo il Cieco, fu affascinato dall’insegnamento di Origene. (6). Nel 378 si trasferì a Gerusalemme, ove visse da monaco sul Monte degli Ulivi, e ricevette l’ordinazione sacerdotale dal vescovo Giovanni. Nel 386 si portò a Betlemme con Girolamo, con cui, poi, mantenne cordiali relazioni, che però furono incrinate da un diverso giudizio sull’ortodossia della dottrina origenista, che sfociò in un aspro dibattito pubblico. Nel 397 Rufino tornò in Italia, ma l’invasione dei Visigoti, nel 407, lo costrinse a lasciare Aquileia. Morì a Messina nel 410. (7). Egli è noto come Rufino di Aquileia.

La prima chiesa aquileiese.  

Una serie di elementi, scritti, documenti, segni, starebbero a significare che la prima chiesa aquileiese praticò un cristianesimo marciano, cioè seguendo quanto trasmesso dall’apostolo Marco, che era molto vicino a Pietro, e quindi ad una interpretazione in senso ebraico del Vangelo. Ma ad Aquileia, intorno al 200 dopo Cristo, vivevano pure molti ebrei. Rufino, nel suo ‘Credo’ commentato, non fece altro, secondo Pelizzari e don Laiti, che concentrare quello che aveva appreso in Aquileia, e cioè le basi del cristianesimo originale e praticato nella città romana.

Mosaico ad Aquileia. (Da https://initalia.virgilio.it/basilica-aquileia-41893).

Ma leggiamo pure cosa scrive Niccolò Grassi, sacerdote, nel suo “Notizie storiche della provincia della Carnia”, prima ed. 1782, (8): «Ma assai più felice, a dirsi la nostra Provincia per la fede, che a tempo abbracciò. Gran ventura fu della nostra Carnia che fin dal primo secolo della natività di Cristo le nascesse fra le folte tenebre dell’Idolatria la luce della vera fede, e pietà. I suoi primi crepuscoli si ascrivono allo zelo dell’Evangelista S. Marco.  Essendo questi portato circa l’anno 46 del nato Redentore in Aquileia, ed avendo ivi predicata la parola della salute, ed affermato coll’Apostolo che questi è Cristo, scrisse di propria mano l’Evangelio, che un tempo mostravasi nella Chiesa d’ Aquileia, e spacciavasi per l’originale, ma che da’moderni non si crede più che copia del V secolo. Così primo predicatore in questa famosissima Città fu S. Marco Evangelista, il quale dopo di avere colla sua predicazione convertiti alla fede Cristiana infiniti popoli, e di avere già fondata quella Chiesa, desiderando di rivedere la faccia di San Pietro, e di andare a Roma, tentava di lasciarvi occultamente quel popolo: ma per la volontà di Dio vociferando il popolo, e dimandando un Pastore, a piene voci S. Ermagora fu eletto in Pastore del gregge del Signore. Allora S. Ermagora mettendosi in viaggio con S. Marco pervenne a Roma, e ricevendo il bastone del Pontificato ed il sacro velo, venne ordinato vescovo. Indi, restituitosi alla Città di Aquileia, con mirabil ordine reggendo la sua Chiesa, ordinò Seniori, e Leviti, i quali poi mandava per le contrade inculte d’Italia. (…). Ci giova qui allegare l’autorità del chiarissimo nostro Floriano Morocutti alla cui erudizione confessa esser molto debitore l’Ughelli nella sua prefazione all’ ‘Italia Sacra’. Riferisce dunque egli che dai primi Prelati d’Aquileia, o sia da S. Marco, o sia come a molti piace da Santo Ermagora fu mandato un certo Prete chiamato Lorenzo ad annunziare il Vangelo di Cristo ai Norici, Unni, o Avari Giepidi, Marcomanni ed altri confinanti popoli Transdanubiani. Ora la nostra Carnia è situata ai confini del Norico […]. (…). Quindi è da credersi che la nostra Provincia della Carnia sia stata una delle prime a ricevere il seme della Divina parola […].».  (9).

Niccolò Grassi. “Notizie storiche della provincia della Carnia”, op. cit., pp 42-43.

Quindi par di capire che il Vangelo predicato ad Aquileia e dalla stessa diffuso, fu quello di Marco, che era vicino a Pietro, e che esso fu seguito anche da Ermagora vescovo. Ma quello che poi, dal quinto secolo venne diffuso da questa città come l’originale, non lo era, se ho ben compreso.  

Il Cristianesimo ebraico di Pietro e quello greco- romano di Paolo.

Renato Iacumin, nel suo “Radici e sviluppo del Cristianesimo” (10), sostiene che già nel 190 d.C. ad Aquileia era giunto il Cristianesimo, e scrive che nella Epistola XII scritta alla fine del Concilio di Aquileia del 381, si legge che la chiesa di Aquileia seguiva la successione e la organizzazione della chiesa di Alessandria e che aveva sempre mantenuto, secondo il costume e la tradizione dei “maiores”, una “indissolubile comunanza” con Alessandria.

Ed ancora: «L’origine marciana della chiesa aquileiese (vale a dire petrina), – scrive sempre Jacumin – comportava anche la possibilità per gli aquileiesi di rifarsi agli apostoli, o per lo meno ad un diretto collaboratore di Pietro (Marco è detto “interpres Petri”). (…). Ora, che l’origine della chiesa di Aquileia debba ricercarsi in una comunanza con quella di Alessandria, lo abbiamo visto attestato anche dai vescovi del concilio nel 381; che tale comunanza possa significare l’avere avuto, tra l’altro, entrambe lo stesso fondatore è cosa molto probabile». (11). E Monsignor Biasutti (12) e don Gilberto Pressacco (13) hanno per primi approfondito il problema, ed hanno enucleato una serie di elementi che, assieme ad altri, portano a ritenere che esistesse ad Aquileia una comunità cristiana (forse due, se consideriamo quella gnostica a sé stante) certamente verso la fine del secondo secolo, e che «essa aveva caratteri comuni a quella di Alessandria, città con cui era in collegamento regolare per gli scambi commerciali (circa undici o tredici giorni durava la navigazione); che si trattava di una comunità con forti tradizioni giudaico-cristiane (petrina), oppure gnostiche o della gnosi cristiana, di cultura (e di lingua) ellenistica; infine che, ad una certa data (180), era già organizzata ed in grado di perfezionare teologicamente il proprio “credo”». (14).

E, scrive sempre Jacumin – «forse proprio il carattere giudeocristiano della prima comunità può spiegare il fatto, sottolineato da Biasutti e da Pressacco, che ancora nel secolo VIII i rustici friulani festeggiassero il sabato e non la domenica. Quel sabato “…quod Judaei celebrant… et rustici nostri observant”, secondo il canone XIII del Concilio Cividalese, è indizio di una cristianizzazione delle zone rurali molto antica, probabilmente del primo secolo. (…). Nella bufera delle grandi migrazioni di popoli che l’ha investita, Aquileia ha svolto opera di collegamento tra la parte Orientale o Sudorientale dell’impero e quella del Mediterraneo alessandrino-occidentale». (15).  

Tirannio Rufino in una immaginetta di Bloemaert Frederick (1666). (Da https://it.wikipedia.org/wiki/Tirannio_Rufino).

Il testo del Credo di Rufino.

Secondo Antonio Bollin, autore del già citato articolo intitolato: “Il Credo della chiesa di Aquileia”, «Nei primi secoli del cristianesimo numerose Chiese d’Occidente e d’Oriente avevano un proprio credo o simbolo […] di fede. Esso – come spiega Rufino […]  – è come […] un segno, un emblema distintivo della religione cristiana. Nel simbolo si condensava e riassumeva l’insegnamento durante il competentato per coloro che volevano diventare cristiani […].». (16). Era quindi una specie di summa per colui che si apprestava a ricevere il battesimo dopo un periodo di apprendimento. 

Ed anche “Aquileia, – scrive Bollin – «aveva un suo Simbolo e quindi un suo metodo di catechesi, […] e nel costituirsi poi come diocesi, Vicenza risulta dipendente da Aquileia e legata dalla comune venerazione per i martiri Felice e Fortunato (304 d.C.). Nella comunità cristiana vicentina – con ogni probabilità – si confessava la fede nella liturgia utilizzando il Simbolo aquileiese e si seguiva la medesima prassi catecumenale». (17).

Ma il simbolo aquileiese è pure il ‘Credo’ di Rufino, che aveva visitato varie città e comunità cristiane (Alessandria d’Egitto, Gerusalemme, Roma) su invito di Lorenzo, che Pelizzari ci ha detto essere stato, presumibilmente, il vescovo di Concordia Sagittaria e quindi del paese natale di Rufino e, così facendo, aveva appreso le loro diverse professioni di fede. L’intenzione dello scritto, indirizzato non solo ai catecumeni, ma soprattutto ai loro catechisti, è quello di offrire un insegnamento completo sui punti fondamentali della dottrina cristiana. (18). Questo il testo tradotto in italiano, come riportato da Bollin.  

«Credo in Dio Padre onnipotente, invisibile e impassibile;/ e in Gesù Cristo unico Figlio suo nostro Signore/che è nato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine,/ [fu] crocifisso sotto Ponzio Pilato e sepolto,/discese negli inferi [nell’inferno], il terzo giorno è risorto,/ è asceso al cielo [in cielo], siede alla destra del Padre:/ di lì verrà a giudicare i vivi e i morti;/ e nello Spirito Santo,/la santa Chiesa,/ la remissione dei peccati,/ la risurrezione di questa carne./
[Al di fuori di questa fede, che è comune a Roma,/ Alessandria e Aquileia,/ e che si professa anche a Gerusalemme,/ altra non ho avuto, non ho e non ne avrò/  in nome di Cristo. Amen]».
(19).

A chi ha imparato da piccolo il ‘Credo’, pare simile a quello che si recita attualmente, ma non è così.

Le tre aggiunte nel ‘credo di Rufino’ rispetto al Credo che conosciamo, dall’intervento di Gabriele Pelizzari a Venzone il 12 dicembre 2021. (20).

 «Le tre aggiunte per cui il ‘Credo’ di Rufino differisce da quello che conosciamo sono le seguenti:

1- nella definizione di Dio Padre onnipotente si trovano gli aggettivi ‘invisibile ed impassibile’, a Lui riferiti. «Rufino annota che queste parole sono state aggiunte dai nostri antenati per reazione a quell’eresia chiamata patripassiana (21). I temi fondamentali in gioco erano l’unicità di Dio e l’efficacia della Pasqua. Ma se la Pasqua ha un valore così ampio da coinvolgere tutta la storia, presente, futura e vedremo anche passata, allora non può che essere un evento che coinvolge direttamente Dio. E se la Pasqua deve essere ‘un’operazione’ di Dio, allora non può che essere compiuta dal Padre. Pertanto la teologia patripassiana postulava che il Padre avesse patito: “Pater passus est”, con il figlio. La formulazione più matura, quella di Saverio, ci dice invece che solo il figlio ha patito, perché egli era sulla croce ed è morto, ma a patto di intendere il figlio come una specie di emanazione del Padre.

Ad Aquileia la disputa nei confronti di questa teologia ha portato ad inserire nel ‘Credo’ l’indicazione che il Padre è invisibile, a differenza del Figlio che realmente si è fatto uomo, ed impassibile, perché il padre non può avere patito. Ma questo lessico può far capo unicamente allo stadio più precoce della teologia cristiana, identificabile in quello presente nel secondo secolo. E per Biasutti è importantissima questa aggiunta, perché rappresenta la traccia di un dibattito molto antico, che però ad Aquileia era ricordato anche attraverso i termini utilizzati. Infatti, ai tempi di Rufino, ‘patripassiano’ non era più un termine circolante, e si parlava più costantemente di Sabelliani. Rufino dà, utilizzandolo, una nota di erudizione».


Sandro Botticelli. Trinità. Tempera su tavola. Questo quadro mi ha particolarmente incuriosito perché è evidente che il Padre è addolorato per la morte del figlio, e che tutta la trinità (titolo dell’opera) partecipa al sacrificio di Cristo.  (Da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Botticelli_Trinity.jpg).

2 – La seconda aggiunta è quella del ‘descensus’, della discesa di Cristo agli Inferi. Essa, ha precisato il prof. Pelizzari – «si può riportare ad una teologia molto antica, non originaria di Aquileia, e che rimanda all’ epistolario petrino, dove già è annunciato questo tema, che prevede che, tra la morte e la resurrezione, Cristo sia sceso agli inferi per riscattare Israele. La domanda è: i giusti di Israele sono esclusi dalla salvezza che la Pasqua di Cristo ha portato? Naturalmente no. Questo, peraltro, ha una ricaduta evidente sulla tradizione liturgica di Aquileia, che vede, al termine della celebrazione della grande veglia pasquale, il popolo ed il clero spostarsi sulla soglia della chiesa per intonare il ‘Cum rex gloriae’ (22), che è un inno che narra proprio della discesa di Cristo agli inferi e di come abbia divelto le porte dell’inferno per richiamare i Giusti che vi erano imprigionati. E questo coro dei giusti che accoglie Cristo è molto bello. Questa idea della discesa agli inferi, nelle origini cristiane, si modula in modi molto diversi, e c’è addirittura l’idea della croce; si interroga Gesù che discende, e c’ è il vangelo di Nicodemo che racconta questa discesa, insomma è una teologia ampia e di chiara matrice giudaica.
Ed ancora una volta ad Aquileia si difende una connotazione religiosa che rimanda ad un paradigma non certo origeniano, non certamente del quarto o quinto secolo, ma molto antico e di chiaro valore giudaico. Perché il problema di salvare Israele si presenta solo se si guarda l’annuncio del Vangelo in quella prospettiva».

3- la terza aggiunta è quella relativa alla resurrezione di questa carne. «Anche qui – continua Pelizzari – io sono del tutto persuaso che si tratti di una traccia giudaico-cristiana o che, tutt’al più, può esser fatta risalire ad Ireneo di Lione (23). E dico giudaica – cristiana perché la Pasqua di Gesù viene affermata attraverso ed in ragione di una offerta sacrificale corporea – Gesù non muore simbolicamente, viene inchiodato, il suo corpo viene straziato e quel corpo è offerta immolata – come nella tradizione giovannea che è poi alla base della tradizione quartodecimana (24), e l’ora della glorificazione è l’ora in cui Gesù è innalzato sulla Croce. Quell’ offerta è una offerta corporea, ma non per efferatezza di Dio ma perché, nella cultura giudaica, l’essere umano non è divisibile, non si può salvare lo spirito perdendo il corpo, non si può offrire l’uno senza offrire l’altro. Ed infatti il concetto portante non è quello di peccato, per il mondo ebraico, ma quello di purità. E ciò che contamina può provenire dall’interno ma anche partire dal corpo. E dato che l’essere umano è unitario, l’offerta pasquale è una offerta che coinvolge il corpo e passa attraverso il corpo di Cristo.
Però, come nota Ireneo di Lione, o la salvezza è di tutto o non è vera salvezza. O si salva il corpo o si salva anche il corpo. O si salva anche questo mondo, o il creato tutto è oggetto di salvezza, o altrimenti è tutta una metafora.
Ma sta di fatto che, ad Aquileia, l’insistenza sulla resurrezione della carne vedeva la precisazione di “questa carne”.  Origene invece parlava di un corpo spirituale, diverso da quello che abbiamo adesso, con presente una cesura tra questo corpo ed il corpo ultimo: quello della salvezza. La sottolineatura del ‘Credo’ aquileiese nel senso di ‘salvezza di questa carne’ si capisce bene a patto di guardare ad un’antropologia che affonda le sue radici non nella cultura teologica di terzo o quarto secolo ma pregressa.

Ora queste tre aggiunte che Rufino riconosce, dichiara essere tipicamente aquileiesi, e commenta ampiamente, stanno lì a dare la misura di una tradizione che difficilmente si potrebbe collocare in uno spazio diverso da quello del secondo secolo, quando ad Aquileia già si discuteva con i patripassiani».

«Certamente – aggiunge don Giuseppe Laiti – in ‘resurrezione di questa carne’ vi è una sottolineatura estremamente positiva dell’unitarietà del vivente umano, e della sua componente somatica.  C’è un passaggio divertente di Rufino quando parla della nascita di Gesù da Maria. Rispondendo alle critiche dei pagani che gli dicono che non può un Dio nascere da una parte così poco nobile del corpo di una donna, Rufino dice […] che vorrebbe sapere chi ha detto che quella è una parte poco nobile del corpo umano, perché questa è una invenzione. E questo è un modo di pensare sano, che risente di un humus peculiare».

Ma vediamo cosa ci hanno narrato a Venzone Laiti e Pellizzari su un tema un po’ curioso e distante dalla nostra vita: quel ‘Credo’ commentato da Rufino, che però ci parla anche della nostra terra e del cristianesimo di Aquileia.  E chi scriveva il suo ‘credo’ diceva in cosa credeva veramente, scriveva le basi del suo cristianesimo.

Gabriele Pelizzari. (Da: https://www.friulionline.com/cultura-spettacoli/le-radici-cristiane-dellantica-chiesa-di-aquileia-incontri/).

Intervento del prof. Gabriele Pelizzari, a Venzone il 12 dicembre 2021. (25).

Così ha iniziato Gabriele Pelizzari il suo intervento al duomo di Venzone il 12 dicembre 2021. «Grazie per averci invitato qui a parlare di Rufino e del credo di Rufino. Il lavoro che vengo qui ad illustrarvi è il frutto di almeno tre anni di studio, confronto, scrittura su di un’opera che è stata francamente maltrattata dalla critica: ‘la spiegazione del Credo’ di Rufino, scritta nel 399 o 400 dopo Cristo, quando ad Aquileia era vescovo Cromazio (26), e dove Rufino era ritornato dopo aver trascorso tutta la sua vita, ben lontano dalla patria aquileiese. Con questa sua opera, Rufino iniziò un nuovo genere letterario: quello della spiegazione del credo, che poi, per tutto il Medioevo, proseguirà prendendo ispirazione od addirittura citando ampie porzioni del testo di Rufino».

«Il testo di Rufino è stato certamente più apprezzato nel passato che nel presente, ed è stato studiato solo in due circostanze: negli anni sessanta da uno studioso inglese Kelly (27), che fu fortemente incuriosito dal ‘Credo di Rufino’, ma lo utilizzò principalmente per ricavare il credo che veniva professato a Roma; e recentemente dall’editore del testo latino della spiegazione del ‘Credo’, don Manlio Simonetti (28), che ha prodotto una sua traduzione in italiano ed un commento più che essenziale, molto breve e molto poco benevolo nei confronti di Rufino. E questi sono i riferimenti e le basi su cui sin qui si è conosciuto questo scritto. Ma non sono le uniche. Infatti vi è pure una lodevole eccezione: Guglielmo Biasutti.  

Egli però, non produrrà mai un commento sistematico al testo e non studierà mai l’intera opera, ma si accontenterà di scrivere un importante saggio su otto righe dello stesso, per ricercare le specificità aquileiesi del ‘Credo’ di Rufino. E questo è certamente un suo limite».

«Quello che stupisce nel ‘credo’ di Rufino, è proprio notare la presenza di numerosi elementi caratteristici ed in controtendenza con le coeve tradizioni cristiane. E se uno confronta il contenuto del ‘Credo’ aquileiese ed il modo in cui Rufino lo commenta, si trova disorientato, e gli sembra di leggere un testo scritto nel terzo secolo, non nel quinto. Infatti esso rinvia a dei contenuti religiosi e teologici molto antichi. E la tradizione che soggiace a questo ‘Credo’ è una tradizione antica, a cui Rufino aderisce.  Ma bisogna ricordare che, nel momento storico in cui Rufino riporta detta tradizione, il paradigma cristiano che egli riprende non è più né attuale né maggioritario».

«Ora si pensa che il cristianesimo giunse ad Aquileia tardivamente, nella seconda metà del terzo secolo, come accadde in altri grandi centri urbani, ma, leggendo il ‘Credo’ di Rufino, pare che non sia stato così, perché questa ipotesi non si concilia con quanto egli scrive. Inoltre vi è un altro punto significativo e da sottolineare: ed è quello dei ‘modi’ del commento al Credo aquileiese di Rufino. Rufino ha dedicato gran parte della sua vita […] alla traduzione di Origene che scrive in greco. Egli diviene perciò, tra la seconda metà del IV° secolo e il V° secolo, difficilmente accessibile per ampi distretti del cristianesimo latino.  Così alcuni intellettuali, e fra tutti Rufino, si impegnano in un’opera di traduzione e, sollecitati a tradurre Origene, lo traducono. Origine scrive il primo trattato sistematico di teologia cristiana, nel senso di discorso unitario, e lo stesso ci è pervenuto solo nella traduzione di Rufino, essendo andato perduto l’originale. Quindi sappiamo che Rufino conosce molto bene Origine ma, nonostante questo, decide di commentare il simbolo con una modalità esegetica il più lontano possibile da quella di Origene.

Origene, rappresentazione eseguita da Guillaume Chaudière (1584). (Da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Origen.jpg).

Quest’ ultimo aveva introdotto di fatto, nel cristianesimo, una interpretazione delle Scritture che potremmo definire filosofica. E, per spiegare in breve in cosa consistesse detta interpretazione, basta ricordare che le grandi tradizioni filosofiche assumevano le opere dei loro maestri commentandole parola per parola, passo per passo, per cercare di ampliare l’insegnamento del maestro. Rufino, invece, in tutto il suo commento del ‘Credo’, usa le scritture in modo simmetrico, utilizzando la modalità tipica della sinagoga e poi della liturgia, per testimonianze estratte dalle Scritture in modo non continuativo ma per esempi: “Così recita in questo punto il profeta Isaia, così troviamo nel …”, citando brevi passi collegati dalla loro interpretazione teologica e non dalla loro successione nel testo. Ora questo colpisce, perché agli inizi del quinto secolo questo non è più abituale, ed è considerato superato. E nessuno più di Rufino poteva esserne al corrente. Eppure adotta un metodo diverso da quello ritenuto culturalmente alto e in voga. E questo non dipende certo da una mancanza di competenze, ma dal fatto che sta scrivendo per la sua chiesa.

Ed egli non solo presenta il ‘Credo’ di Aquileia, ma anche lo valorizza, trattando i temi più in auge nell’ agenda teologica aquileiese; ma persino il modo di presentare le scritture si caratterizza sulla base di quella che doveva essere la prassi aquileiese».

«Ma come facciamo a dire che c’è una tradizione aquileiese, dietro lo scritto di Rufino, e che non è Rufino che ha avuto un momento di mancamento in questa spiegazione del ‘Credo’? Ce ne accorgiamo mettendo insieme i tasselli documentali di cui disponiamo.

La notizia che propone Erma (29), autore di ‘il Pastore’ ed altro padre della chiesa, giunto a Roma con il fratello Pio, rispettivamente come profeta l’uno, e vescovo della comunità l’altro, del loro essere ‘aquileiesi’ già alla metà del secondo secolo, ci potrebbe almeno dare lo slancio per vedere se alcuni contenuti teologici in “Il Pastore” rientrano nella tradizione aquileiese. E così pare che sia.
Pertanto allineando questo aspetto con i mosaici dell’aula sud della basilica aquileiese, che rappresentano una grande trattazione catechetica per immagini, allineando a queste fonti l’opera di Fortunaziano (30) e di Cromazio, ambedue di Aquileia, e di Rufino, si vede come una tradizione sussista, come esista in loro una visione teologica similare e riferibile alla loro terra, ad Aquileia. E si nota in loro una continuità che si esprime in una storia conservativa, non demolitiva, in quanto gli elementi caratteristici di questa spiegazione del ‘Credo’, fatta da Rufino, riportano ad una storia davvero antica del cristianesimo, che si nota, pure, nell’ uso fatto delle Scritture, nella centralità di una Pasqua illuminata dal paradigma della Passione, non della Resurrezione, come invece era nella tradizione quartodecimana».

«Questo aspetto non è difficile da comprendere e si può ritornare ad una immagine di Bruno Maggioni (31), biblista milanese, per capirlo meglio. Egli chiedeva ai suoi interlocutori, per semplificare: “Immaginate che vi raggiunga la notizia che un vostro conoscente, a cui siete particolarmente affezionati, un parente, un amico, un figlio, il vostro coniuge, è improvvisamente morto. Tanto maggiore è l’affetto che vi lega a quella persona, tanto più grande sarà la vostra desolazione. Ma se, dopo qualche giorno, mentre siete nella disperazione, ricevete la notizia che questo vostro affetto è risorto, indubbiamente, tra lo stupore e l’entusiasmo, cambiate umore, cambiate il vostro atteggiamento. Ma se però poi vi comunicano che questo vostro affetto era Dio, il punto stupefacente di tutta la storia non è più il fatto che egli sia risorto, ma che sia morto.

Nel paradigma teologico cristiano più antico, l’elemento decisivo della Pasqua è il sacrificio di Gesù. E la liturgia, fin dagli albori del Cristianesimo, celebra la Passione e Morte di Gesù non la resurrezione. Questo però non vuol dire che la ignori, perché la annuncia, ma il rito fondamentale, il pane che si spezza, il vino che si versa nel calice, non alludono alla resurrezione, non ricordano una festa delle primizie, ma bensì all’ offerta sacrificale.

E ritorniamo alla spiegazione del ‘Credo’ di Rufino. In essa il paradigma della Passione occupa ben tredici capitoli, quello della Resurrezione uno solo. Veniamo immersi, in questa opera, in una teologia pasquale della Passione tipica dei quartodecimani, e presente nel secondo secolo».

Mosaico ad Aquileia. Questa immagine è riportata anche sulla copertina del volume di Gabriele Pellizzari “Il Pastore ad Aquileia”. (Da: https://www.ilfaunomosaici.it/it/blog/dettagli/i-mosaici-a-tema-cristiano-piu-antichi-al-mondo.html).

«Abbiamo visto il tema ermeneutico (32), abbiamo visto il tema preponderante della Passione e l’uso di un lessico, nella spiegazione del ‘Credo’, di caratteri e di lemmi latini usati in forma atipica, rispetto al lessico corrente nel V secolo. E questo significa che si era creato, nel contesto del primo cristianesimo aquileiese, un lessico proprio, un lessico distintivo, un lessico che possiamo conoscere e ripercorrere da Fortunaziano a Cromazio, e quindi a Rufino.

Esistono, dunque, caratteristiche nella modalità del discorso religioso e di contenuto, ed addirittura di forme dello stesso che, in tutti i modi, attestano una tradizione compatta e continua. E la spiegazione del ‘Credo’ di Aquileia, peraltro, è un prodotto interno a questa tradizione.

Il testo della spiegazione del ‘Credo’ aquileiese di Rufino è dedicato a papa Lorenzo, cioè al vescovo Lorenzo, perché come sappiamo il termine ‘papa’ nel primo cristianesimo era usato abitualmente per indicare le cariche episcopali. Ma di questo Lorenzo non si sa delineare con precisione l’identità. Biasutti ha proposto, efficacemente, a mio giudizio, che si trattasse del primo vescovo di Concordia. Ed abbiamo i sermoni di Cromazio, che descrivono, celebrano la consacrazione della cattedrale di Concordia. Pertanto sappiamo che sotto l’episcopato cromaziano, Concordia si dota, per la prima volta, di una cattedrale e di un luogo dove un vescovo predica, diventando così chiesa episcopale.

Ma per ritornare a Rufino, questa dedicazione a Lorenzo diventa interessante, perché essa porta con sé i caratteri enciclopedici di questo scritto, in quanto Rufino pone, dentro questo suo testo, tutto quello che può servire ad un Vescovo: alcuni elementi di polemica anti-gentile ed  anti-ebraica, il canone delle Scritture, un piccolo panario anti- ereticale, cioè un elenco di assemblee vane fatte da gruppi che non sono autenticamente chiesa, un racconto sull’origine del ‘Credo’, oltre una spiegazione meticolosa di tutti gli articoli dello stesso, basata sul metodo esegetico dei ‘testimonio’.
Cioè Rufino fornisce ai Vescovo Lorenzo una specie di strumento di lavoro complessivo, che parla, in modo martellante, del lascito dei ‘maiores nostri’, dei nostri antenati, dei nostri padri. E Rufino continua ad insistere sul fatto che quella di quel ‘Credo’, che va a commentare, è la fede professata dalla chiesa aquileiese, e specifica pure: dalla ‘nostra’ chiesa aquileiese. Possiamo quindi dire che il ‘Credo ‘ di Rufino è un testo che si inserisce in quella tradizione, e pienamente partecipa della stessa».

Il problema dei due commentari al lavoro di Rufino, quello di Kelly e quello di Simonetti è che, probabilmente, essi non riconoscono una tradizione aquileiese, e se si toglie questo elemento, questo ‘contesto vitale’, è vero che non si capisce proprio niente.

Ma ritornando a Biasutti, egli si sofferma sui tre elementi peculiari del ‘Credo’ di Aquileia, che sono, molto sinteticamente, l’aggiunta di “invisibile ed impassibile” relativamente a Dio Padre; la menzione della discesa agli Inferi di Cristo e, da ultimo, la menzione della “resurrezione di questa carne”. Sono tre elementi che il Biasutti interpreta molto bene, e che rinviano ad un contesto non posteriore al secondo secolo. Sono cioè caratteristiche del ‘simbolo’, del ‘Credo’ di Aquileia, che, con ogni verosimiglianza, si stabiliscono, si fissano entra il secondo, terzo secolo. Ma questo significa che il testo del ‘Credo’ di Aquileia si era formato in quell’epoca. E ciò significa che la chiesa di Aquileia doveva esistere da prima.

Però il lavoro di Biasutti non venne sufficientemente apprezzato, e, come si suole dire, ‘non fece scienza’, non entrò nelle bibliografie, e quindi venne poco sfruttato. Ma questo spiace perché un lavoro apprezzato stimola l’autore ad andare avanti. E sembra proprio che Biasutti avesse intuito l’utilità di questa coordinata critica; leggendo il ‘Credo’ come un prodotto ed una parte di una storia con caratteri personali e non intercambiabili. E non si può leggere il ‘Credo’ di Aquileia entro una tradizione diversa, perché si perdono quote del testo e se ne perdono le ragioni, se ne perde la finalità.  E Biasutti era proprio partito da ciò che differenzia il ‘Credo’ romano, da quello aquileiese, a differenza di Kelly, aprendo una via».

Mosaici di Aquileia. Particolare. (Da: http://www.comune.aquileia.ud.it/index.php?id=6903).

Intervento di don Giuseppe Laiti su il ‘Credo’ di Rufino a Venzone il 12 dicembre 2021. (33).

«Devo dire che, all’inizio, io ero fermo, per quanto riguarda il ‘Credo ‘ di Rufino, ai lavori di Kelly e di Simonelli. E avendo letto qualcosa pure in spagnolo nel merito, non avevo trovato molto di più. Ma poi mi sono ricreduto, perché nuove letture ed il Biasutti mi hanno riservato grosse sorprese. In primo luogo Rufino ha vissuto per più di 25 anni tra Alessandria d’ Egitto e Gerusalemme, e, quando torna ad Aquileia, intorno al 397, mettendosi poi a commentare il ‘Credo’, sembra che lasci da parte il 90% di quello che ha imparato ad Alessandria alla scuola di Didimo ed a Gerusalemme, ascoltando Cirillo, cioè un patrimonio culturale che conosceva benissimo ed ammirava e fa, a questo testo, un commento inedito, che pesca dalla tradizione di Aquileia. E mi sono chiesto: “Ma perché lo ha fatto? Perché ha fatto un’operazione di questo genere?” E leggendo, neanche tanto fra le righe, le apologie che Rufino scrive contro Girolamo, si comprende che egli vuole spiegare a chi legge che egli è stato allevato in una fede genuina, che è la sua fede, quella aquileiese, ed egli è stato battezzato ad Aquileia, e pertanto vuole spiegarla agli altri.  Quindi potremmo dire che il commento al ‘Credo’ di Rufino è, in questo caso, un marcatore identitario.

Ed il giro che Rufino ha fatto prima tra le chiese di Roma, poi di Alessandria e Gerusalemme, lo ha confermato nella verità e nella cattolicità, nella autenticità della fede ricevuta ad Aquileia. E questo fa davvero una certa impressione. Perché Rufino sapeva di avere alle spalle la tradizione di chiesa recente e quella di una più antica, che aveva una sua storia alle spalle, che era in parte nota ma che, comunque, egli poteva documentare. Ora per me questa è stata una sorpresa e mi sono subito interessato al testo. Ma questa sorpresa è stata confermata da un’altra: l’ecclesiologia che Rufino lascia capire di avere alle spalle. Infatti un passaggio del commento al ‘Credo’ dice: “Bisogna mantenere tutte le sane tradizioni delle chiese. Questo vuol dire che Rufino sa che una pluralità di tradizioni appartengono alla fede della chiesa. E come il Nuovo Testamento ha 4 Vangeli, così la tradizione del Vangelo si riflette nelle diverse tradizioni delle chiese.
Perché, scrive Rufino, ogni chiesa fa un suo percorso, e così la fede si incarna. Ed incarnandosi incontra e suscita al tempo stesso dei problemi e delle difficoltà. E la sua tradizione mette a fuoco la fede rispetto a quelle difficoltà.

Le aggiunte (“invisibile ed impassibile” relativamente a Dio Padre; la menzione della discesa agli Inferi di Cristo; la menzione della “resurrezione di questa carne”) che Rufino difende a spada tratta nel simbolo di Aquileia, sono un segno del processo di incarnazione della fede, e vanno mantenute. E con una certa ironia, Rufino dice che la Chiesa di Roma non ha bisogno di aggiunte, perché là mai c’è stata eresia, mai c’è stato problema. Ma poi, quando fa l’elenco delle eresie, ne segna alcune presenti anche a Roma.

E vi è pure un commento di area ambrosiana, presumibilmente di Sant’Ambrogio e poi rivisto, dove la chiesa milanese critica le aggiunte della chiesa di Aquileia. Ed è abbastanza comprensibile che Rufino abbia voluto difendere questa aggiunte non per amor di Patria ma come qualcosa di legato ad un processo di inculturazione del Vangelo. Un modo di annunciare il Vangelo e di pregare che fosse stato identico dappertutto avrebbe significato il suo non radicarsi nei diversi ambienti di vita, il suo non ‘incarnarsi’, restando ad un metro e mezzo da terra».

Don Giuseppe Laiti (Da: http://www.chiesabellunofeltre.it/trovera-ancora-fede-sulla-terra/).

«Un altro aspetto che non ho trovato annotato da alcuno, ma anche perché gli studiosi che si sono affaticati ad analizzare il commento al ‘Credo’ di Rufino furono pochissimi, essendo ritenuto un testo di secondo piano, è il problema del ‘canone’ delle Scritture. E mi spiego meglio. Rufino, ad un certo punto, parlando dell’opera dello Spirito Santo nella Chiesa, dice che una delle azioni fondamentali dello Spirito Santo è l’ispirazione della Scrittura. Ed a questo punto Rufino inserisce l’elenco dei libri dell’antico e del nuovo Testamento. La cosa interessante è questa: facendo l’elenco dei libri del vecchio Testamento, Rufino termina l’elenco con il “Cantico dei Cantici”. In genere, però, gli elenchi che noi conosciamo finiscono con un profeta o con i libri storici, ma non c’è nessuna raccolta canonica dell’antichità che termini con il ‘Cantico dei Cantici’.  Come mai?

Così cercando di svelare questo piccolo arcano, ho trovato che Rufino, nel capitolo che dedica alla Resurrezione, per ben due volte cita il ‘Cantico dei Cantici’ come preannuncio delle apparizioni del Signore alla Maddalena ed alle donne. Ma allora uno incomincia a chiedersi: “Ma forse Rufino legge il Cantico dei Cantici come un preannuncio della Resurrezione? E sa dove gli deriva questa possibilità? Guadando tra le scartoffie, si torva che c’è una antica tradizione giudaica che riserva alla settimana di Pasqua, alla settimana degli azzimi, la lettura del Cantico dei Cantici. E se si gira ancora pagina, si vede che Rufino, dove fa l’elenco dei canoni, dà una grande importanza all’apostolo Giacomo, identificandolo con il fratello del Signore e con l’autore della ‘lettera di Giacomo’.

Frammento della lettera di Giacomo, su papiro. ([[File:Papyrus 20 (Jc 1 vers).jpeg|Papyrus 20 (Jc 1 vers)]], da: https://commons.wikimedia.org/wiki/).

«E, quando parla degli apocrifi, l’unico apocrifo a cui dedica una riga interessante è “Il Pastore” di Erma.
Allora uno incomincia a pensare: questo è un sintomo di … questo è un altro sintomo di… questo è un altro ancora…  e diventa difficile sfuggire all’impressione che Rufino conosca il fatto che la sua chiesa aquileiese ha un forte radicamento quartodecimano e che il Cristianesimo aquileiese ha una radice giudaica. E questo troverebbe pure conferma nel fatto che ad Aquileia si trovava una comunità giudaica di grande consistenza.Questo potrebbe voler dire che Rufino mette in chiusura del canone il Cantico dei Cantici anche per dare una possibilità dialogica ulteriore. E se il Cantico dei Cantici è davvero il testo pasquale per eccellenza della comunità giudaica, allora la resurrezione del Signore è l’adempimento di quello che il Cantico annuncia.

Ed ora un’ultima considerazione, su cui abbiamo tanto discusso ma anche tanto sorriso: Biasutti aveva notato pure la famosa questione dell’‘in’ con l’ablativo, oltre le tre aggiunte, che differenziano il ‘Credo’ aquileiese da quello romano. Infatti il ‘Credo ‘ di Rufino, quando dice “Credo in Dio Padre Onnipotente, in Gesù figlio e nello Spirito Santo, invece che usare l’accusativo, usa l’ablativo “Credo in Deo Patri Onnipotenti”. Ma come si spiega questo ‘in’ con l’ablativo mentre andrebbe l’accusativo? Biasutti pensava che ciò derivasse da una vicinanza con il Vangelo di Marco. Questo è possibile, ma c’è un’altra strada che può aiutare a capire.

Commentando il senso del verbo ‘credere’, che è una delle parti più interessanti dell’inizio del commento di Rufino al ‘Credo’, egli gli dedica un ‘attenzione particolare nello spiegare che il verbo ‘credere’ ha un significato fortemente positivo. Però ‘credulitas’, in tutta la letteratura latina che conosciamo, ha normalmente un significato negativo. Infatti ‘credulitas’ vuol dire ‘creduloneria’, e il fatto di essere creduloni era dai romani attribuito ai barbari, che a loro avviso non sapevano pensare ed utilizzare la ragione. E anche Celso, un filosofo della seconda metà del secondo secolo, criticava i cristiani perché, secondo lui, erano creduloni. Invece Rufino afferma che la ‘credulità’ è un aspetto eminentemente positivo, perché, se uno non si allontana dalla vita, vede e comprende che ciascuno si impegna perché ha una sorta di presentimento di un risultato positivo, che seguirà al suo impegno.

Infatti il contadino semina perché intuisce che la semina darà il suo frutto, ed uno si impegna in un compito, anche in un’impresa affettiva, perché prevede che l’esito sarà positivo. Allora l’uso dell’’in con ablativo’, fatto da Rufino, forse vuol dire anche questo: la fede, poiché si mostra come l’intuizione di una fiducia che Dio merita, e che per noi rappresenta anche una forma di riposo, non è solo una ‘tensione verso’ ma pure un abbandonarsi, ed allora richiederebbe ‘in con ablativo’. E così Dio viene visto come un punto di appoggio roccioso, su cui possiamo anche riposare e prendere respiro.

Mosaici aquileiesi. (Da: https://www.gopolis.it/go-storia/aquileia-gnostica/).

Ed accanto a questa considerazione sul ‘credere’ si può porre una sorta di mosaico di termini che Rufino riabilita nel suo commento, tre cui la ‘brevitas’ a cui dedica un lungo commento, che non è soltanto usare poche parole invece di tante, ma significa pure che nel poco può esser contenuto molto. E se ci addentra in Fortunaziano e Cromazio e perfino Girolamo, si trova un altro termine analizzato la ‘rusticitas’ (34) che indica che la fede cristiana va d’accordo con un senso vivo e concreto della vita. E bisogna stare aderenti alla vita, alle sue logiche elementari, all’alfabeto dell’esistere quotidiano, per avere la chiave d’ ingresso per l’interno della fede.  Ma è anche vero che la fede cristiana restituisce, in un movimento di ritorno in sovrabbondanza, questa capacità di leggere in profondità il senso che la vita di tutti i giorni, la vita normale di relazione e di lavoro, ha davanti a Dio ed anche per la nostra comprensione.

Forse con queste spiegazioni ho sforato un po’ il commento stretto di Rufino, ma era un’apertura che mi sembrava interessante».

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Così termina questo testo. Preciso che esso non è stato riletto da Gabriele Pelizzari e don Giuseppe Laiti né da Remo Cacitti od altri, ed io ho cercato di fare del mio meglio, ma se vi fossero critiche per le parti aggiunte, per la trascrizione od altro, potete commentare anche in senso critico o scrivermi in privato. Cercherò di inviare al prof Pelizzari, sperando mi risponda, ed a don Laiti. Ma mentre del primo vi è una email, vedrò come raggiungere il secondo. Ed ora buona lettura.

Laura Matelda Puppini.

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Note.

(1) Tyrannius Rufinus, teologo, monaco, storico, padre della Chiesa, nato circa il 345, probabilmente a Concordia, ma noto come Rufino d’Aquileia; morto a Messina nel 410. (https://it.cathopedia.org/wiki/Rufino_di_Aquileia).

(2) Gabriele Pelizzari, dall’a.a. 2015-2016 insegna Storia del cristianesimo antico, Letteratura cristiana antica, Introduzione alla critica neotestamentaria e Metodologia critica per l’analisi della documentazione iconografia paleocristiana presso l’Università degli Studi di Milano. È autore di diversi libri ed articoli e collabora anche con altre università.

(3) don Giuseppe Laiti è stato ordinato sacerdote nel 1970. Attualmente è docente di patrologia presso l’ISSR di Verona.

(4) Per l’unificazione della cristianità sotto un unico ‘credo’ sempre ad opera di Carlo Magno, cfr. cfr. Antonio Bollin, Il Credo della chiesa di Aquileia, in: Rivista della Diocesi di Vicenza” 97(2006)2, 177- 181, leggibile anche online in: http://irc.vicenza.chiesacattolica.it/documenti/didattica/materiali_aggiornamento/Il_credo_di_Aquileia.pdf, versione on line p. 1.

(5) Sofronio Eusebio Girolamo, noto anche come san Girolamo, Gerolamo o Geronimo, nacque a Stridone, in Istria, nel 347 e morì a Betlemme nel 420. Fu un biblista, traduttore, teologo e monaco cristiano. Padre e dottore della Chiesa, tradusse in latino parte dell’Antico Testamento ed latri scirtti di argomento religioso. Fu un gran sostenitore del celibato ecclesiastico. (https://it.wikipedia.org/wiki/San_Girolamo).

(6) Origene di Alessandria, detto Adamanzio, nato nel 185 d.C. e morto a causa delle persecuzioni nel 253 o 254, è stato un teologo e filosofo greco antico. È considerato uno tra i principali scrittori e teologi cristiani dei primi tre secoli. Di famiglia greca, fu direttore della Scuola catechetica di Alessandria. Interpretò la transizione dalla filosofia pagana al cristianesimo e fu l’ideatore del primo grande sistema di filosofia cristiana. (https://it.wikipedia.org/wiki/Origene).

(7) https://www.monasterovirtuale.it/rufino-di-aquileia.html.

(8) Notizie storiche della provincia della Carnia raccolte dal reverendiss. Niccolò Grassi di Formeaso, parroco di Cercivento, e canonico della Collegiata di S. Pietro in Carnia e dedicate a s.e. reverendiss. mons. Gian-Girolamo Gradenigo arcivescovo di Udine, prima ed. Udine, per li F.lli Gallici alla Fontana, 1782, quindi tre o quattro copie anastatiche, ultima copia anastatica: Niccolò Grassi, Notizie storiche della provincia della Carnia, Arnaldo Forni, giugno 2006. (Citazione da quest’ ultima).

(9) Niccolò Grassi, op. cit., copia anastatica 2006, pp. 42-46.

(10) Renato Iacumin, Radici e sviluppo del Cristianesimo”,  http://www.comune.aquileia.ud.it/fileadmin/_migrated/content_uploads/Radici_e_sviluppo_del_Cristianesimo.pdf, (pagine non numerate). Renato Jacumin, di Aquileia,  è stato uno storico, un poeta, un politico ed insegnante friulano.

(11) Ibidem.

(12) Guglielmo Biasutti, sacerdote e poi Monsignore, studioso, nato a Forgaria del Friuli l’8 agosto 1904, deceduto nel 1985, autore, tra l’altro, di ‘Il cristianesimo primitivo nell’alto Adriatico. La Chiesa di Aquileia dalle origini allo scisma dei tre capitoli’. (Cfr. https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/biasutti-guglielmo/).

(13) Gilberto Pressacco, sacerdote, nato a Sedegliano (Ud) il 19 settembre 1945, morto ad Udine il 17 settembre 1997. Musicologo, direttore di coro, Si laureò nel 1981 in teologia a Roma. Oltre a svolgere la missione sacerdotale, insegnò in varie scuole ed anche al Conservatorio. Studiò storia della musica in Friuli, ma è pure autore di diversi scritti relativi alla sua terra. (https://it.wikipedia.org/wiki/Gilberto_Pressacco).

(14) Renato Iacumin, op. cit.  

(15) Ibidem.   

(16) Antonio Bollin, op. cit. copia online, p. 1.

(17) Ivi, p. 2.

(18) Ibidem.

(19) Ibidem.

(20) Da una risposta di Gabriele Pelizzari a domanda nel corso dell’incontro con lo stesso e Giuseppe Laiti intitolato: “Tradunt maiores nostri, La Spiegazione del Credo di Rufino: per una nuova lettura delle origini cristiane ad Aquileia”, duomo di Venzone, 12 dicembre 2022. Registrazione e trascrizione di Laura Matelda Puppini.

(21) Il Patripassianismo (dal latino Patris passio, “passione del Padre”) è un’eresia di carattere cristologico-trinitario: ritiene sia stato il Padre, di cui il Figlio è solo una proiezione, a subire la passione sulla croce.  Il Patripassianismo venne combattuto sia da Origene che da Dionisio di Alessandria. (https://it.cathopedia.org/wiki/Patripassianismo).

(22) Cfr. Giacomo Baroffio, Canto gregoriano/ Cum rex gloriae, la meraviglia della liberazione, in: https://www.ilsussidiario.net/news/musica-e-concerti/2012/4/7/. In questo articolo si legge che “Cum rex gloriae è un’antifona diffusa Oltralpe prima dell’anno 1000, le cui parole rivelano una sensibilità affine a quella delle Chiese orientali”. Questo il testo riportato sempre nell’ articolo di Boraffio citato: “Cum rex gloriae Christus infernum debellaturus intraret,/ choris angelicis tollere praeceperat sanctorum animas/, quae tenebantur in morte captivae, voce lacrimabili clamaverunt:/ Advenisti, desiderabilis, quem spectamus in tenebris/, ut adduceres hac nocte vinculatos de claustris./ Te nostra vocabant suspiria. Te larga requirebant lamenta/. Tu factus es spes desperatis, magna consolatio in tormentis./”. E così continua sempre Baroffio: In queste immagini l’evento pasquale è raffigurato, […] con la discesa di Cristo risorto agli inferi per liberare i progenitori.  (…). A Cividale l’antifona si conclude con un’intensità unica. Le brevi frasi sono espresse con un movimento melodico che progressivamente abbandona le parole e sfocia in vocalizzi: è la meraviglia di chi si lascia trascinare nel vortice della liberazione e si sottrae così al dominio del nemico superbo. Con la sua morte Cristo ha sconfitto la morte. Insieme al buon furfante invita anche noi ad entrare nel regno. Senza mai abbandonarci. Sempre vicino a consolarci come ben sanno Pietro e i suoi amici. Alleluia!”

(23) Ireneo di Lione, nato a Smirne in Asia Minore nel 130 d.C. e cresciuto in una famiglia già cristiana, ricevette alla scuola di Policarpo, vescovo di Smirne (tradizionalmente ritenuto discepolo dell’apostolo Giovanni) e di altri, una buona formazione religiosa, filosofica e teologica. Fu vescovo della città di Lione dal 177. Fu anche inviato a Roma per dirimere questioni di ordine dottrinale. Secondo la tradizione della Chiesa fu martire a sua volta, e morì a Lione nel 202, ma scarse sono le notizie storiche sulla sua vita e morte. Ireneo fu il primo teologo cristiano a tentare di elaborare una sintesi globale del cristianesimo, all’interno di un periodo storico marcato da due eventi culturali di grande spessore: il diffondersi del neoplatonismo e lo gnosticismo in ambito cristiano. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ireneo_di_Lione).

(24) I quartodecimani sono cristiani che celebrano la commemorazione della morte di Cristo nel giorno stesso in cui cade la Pasqua ebraica, ovvero il 14º giorno del mese di nisan.

(25) Intervento di Gabriele Pelizzari in: Gabriele Pelizzari, Giuseppe Laiti, Tradunt maiores nostri,  cit.

(26) Cromazio, scrittore e vescovo di Aquileia dal 388 o 389 al 407° 408. Dalle testimonianze di Cromazio si rilevano tre precisi influssi provenienti dall’Asia Minore nella liturgia aquileiese: il rito pre-battesimale della ‘Lavanda dei piedi’, mentre a Milano, secondo il rito ambrosiano, era post-battesimale, ed infine passata al giovedì santo; il valore della Pasqua concentrata sulla Passione di Cristo ed il suo sacrificio quale agnello immolato; l’attribuzione del leone come simbolo all’ evangelista Giovanni, togliendolo a Marco a cui attribuì l’aquila. Ma, successivamente, San Gerolamo ridette a Marco il leone. (https://it.wikipedia.org/wiki/Cromazio_d%27Aquileia).   

(27) Trattasi, presumibilmente, del teologo inglese John Norman Davidson Kelly. Suo, tra l ‘altro, “I simboli di fede nella chiesa antica”, tradotto pure in italiano (Edizioni Dehoniane Napoli, Cerbara di Città di Castello 1987).

(28) Manlio Simonetti, romano, nato il 2 maggio 1926 a Roma, morto sempre a Roma il 2 novembre 2017, è stato è stato un accademico, filologo classico e latinista italiano, studioso di patristica, di storia del cristianesimo e di letteratura cristiana antica, tra i più importanti del XX secolo. (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Manlio_Simonetti).

(29) Erma, padre della Chiesa e scrittore greco, vissuto nel secondo secolo, è l’autore del ‘Pastore’, testo cristiano. Si tratta del più lungo scritto del periodo dei cosiddetti “Padri apostolici” conservatosi; riveste un particolare interesse. ‘Il Pastore’ fu inserito fra i testi del Nuovo Testamento della più antica Bibbia conservatasi, il Codex Sinaiticus, ma poi fu posto fuori dai testi sacri. (https://it.wikipedia.org/wiki/Erma_(padre_della_Chiesa).    

(30) Fortunaziano, di origine africana, visse nel 4 secolo d.C., fu vescovo di Aquileia prima del 371 ed intorno al 343, e partecipò ai Concili di Sedica e Milano e partecipò alle lotte contro l’arianesimo. Egli, riconoscendo le esigenze del mondo rurale, scrisse in forma ordinata e in breve e semplice linguaggio dei Commentari, a cui fa cenno Girolamo. (https://www.librideipatriarchi.it/riferimenti/fortunaziano/). Forse il riferimento è ai “Commenti ai Vangeli” di Fortunaziano vescovo di Aquileia, ed ai “Sermoni” di Cromazio, pure lui vescovo della stessa città romana, che sono pure stati pubblicati da ‘Città nuova’ nella collana ‘Corpus scriptorum  ecclesiae aquileiensis’.

(31) Bruno Maggioni Lombardo di origine, nato a Rovellasca in provincia di Como nel 1932. È stato ordinato sacerdote nel 1955, e quindi si è dedicato a studi di Teologia e Scienze bibliche alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Biblico di Roma e, dal 1958 ha insegnato Esegesi del Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Teologia biblica al Seminario Vescovile di Como ed Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e ha tenuto costantemente incontri e lezioni in tutta Italia.  È morto a Como il 29 ottobre 2020.

(32) Ermeneutico cioè relativo all’ interpretazione del testo scritto.

(33) Intervento di Giuseppe Laiti in: Gabriele Pelizzari, Giuseppe Laiti, Tradunt maiores nostri, cit.

(34) Qui, presumibilmente, capacità di assumere una posizione decisa senza ambiguità, come fa la persona semplice, che segue la fede e la tradizione senza tante riflessioni ed argomentazioni.

Su: https://www.facebook.com/GlesieFurlane/, si può ascoltare e vedere la video-registrazione degli interventi del prof. Pelizzari e di don Laiti a Venzone. L’immagine che accompagna l’articolo, è una di quelle che si trovano al suo interno.  Laura Matelda Puppini.

 

 

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