Riporto qui un altro intervento, quello di Paolo Braida, dall’incontro del 18 novembre 2019, che riguarda in particolare aspetti storici legati alla creazione di latterie cooperative sia sociali che turnarie e di casse rurali ed all’Associazione Cooperative Friulane. Ho integrato alcune informazioni date da Paolo Braida per arricchire il contenuto della relazione, peraltro esaustiva.

LATTERIE SOCIALI, COOPERATIVE E ALTRO ANCORA DALL’INTERVENTO DI PAOLO BRAIDA ED ALTRE FONTI.

Ha preso la parola Paolo Braida, già presidente dell’Associazione Cooperative Friulane, per parlare di alcuni aspetti storici relativi a Confcooperative.

Egli ha esordito dicendo che si è soliti dire che la prima latteria fondata è stata quella di Collina di Forni Avoltri in Carnia, ad opera del maestro Eugenio Caneva nel 1880, ma nella realtà bisogna fare qualche puntualizzazione nel merito. Detto fatto storico è incontestabile, come del resto che il maestro Caneva si dette da fare per convincere i suoi compaesani a passare da una latteria turnaria spontanea ad una latteria turnaria formalizzata, costituita in cooperativa con un semplice statuto. Ma se questo è vero, non si può pensare che il maestro Caneva si sia inventato detta latteria unicamente insegnando. Perché allora il terreno era già stato dissodato sia in Italia, dove si ritrovano esperienze precedenti in Cadore, sia nel bellunese che nell’agordino. Ed a riprova di questo io ho trovato su: http://www.unionladina.it/sito/la-latteria-e-la-produzione-dei-latticini, che, nel  1874, furono realizzate le latterie cooperative di Pozzale e di Borgo Vigo di Auronzo in Cadore, e molte altre furono costituite negli anni successivi. In particolare, come evidenziato alla nota 110 del testo, la latteria di Reane, Borgata Tarin e Villa Piccola ad Auronzo furono create nel 1875; quelle di Domegge, Vallesella e Calalzo nel 1876, quella di  Tai nel 1878. (Ivi, nota 110).

La prima latteria sociale, comunque è considerata quella di Forno di Canale (oggi Canale d’Agordo), creata nel 1872 grazie all’arciprete di Canale d’Agordo don Antonio Della Lucia, su modello svedese  (https://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodente&Chiave=60071), mentre la prima cooperativa italiana fu il Magazzino di previdenza di Torino – una cooperativa di consumo, nato nel 1854 su iniziativa dell’Associazione degli operai. Nel 1856 sorse invece ad Altare (Savona) la Artistica Vetraria, una cooperativa di lavoro. «Due realtà affermatesi sulla base del principio di solidarietà e come risposta a problemi di disoccupazione e aumento del costo della vita». (https://www.glistatigenerali.com/cooperative/dalla-federazione-alla-lega-delle-cooperative-storia-della-cooperazione).

E secondo Braida, prima del 1880, data di creazione della latteria di Collina, erano già operative latterie turnarie spontanee, che producevano formaggi.  E vi sono documenti che già nel XVIII secolo, un capitano delle Milizie, un Savorgnan, convinse gli uomini di Osoppo a costituirsi in latteria cooperativa con funzionamento turnario. Per essere precisi, però,  io ho trovato sull’articolo di Lara Zilli intitolato “Le latterie sociali in Friuli”, in: “Tiere Furlane” n. 23 del dicembre 2015, pp. 48 – 56, che, verso la fine del XVIII secolo, nella zona di Osoppo sorsero delle “compagnie del latte” per iniziativa dell’allora capitano della milizia appartenente ai conti Savorgnan, che erano strutturate su di un  sistema di tipo itinerante che prevedeva, sulla base di accordi privati tra alcune famiglie, la lavorazione a turno del latte nelle proprie case e con i propri attrezzi. Tuttavia questo tipo di lavorazione non seguiva nessuna tecnica e nessuna regola d’igiene e ciò andava a detrimento della qualità dei prodotti realizzati. (Lara Zilli, op. cit., p. 48).

Solo dopo il 1870 comparvero in tutta Europa i primi segni di modernizzazione ed in Italia, alla fine dell’ ‘800, primi del ‘900 ,  sorsero non solo Società di Mutuo Soccorso e Cooperative, ma anche latterie sociali cooperative, che non furono però «emanazione spontanea del mondo contadino, ma piuttosto la fase più moderna di un’antica attività artigianale gestita e controllata dalla classe dirigente e colta della comunità» (Ivi, p. 49), lasciando perdere qui, perché non è la sede opportuna, la grande esperienza delle cooperative carniche: la consumo, la credito ed il consorzio tra le cooperative di lavoro, che formarono un unicum mosso da un unico centro motore, e la cui storia ho ampiamente tratteggiato nel mio Laura Puppini (anche Laura Matelda Puppini), Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le Cooperative Carniche (1906- 1938), Gli Ultimi, 1988, leggibile on line su www.nonsolocarnia.info.

Ma per ritornare alle latterie cooperative, Lara Zilli sottolinea i vantaggi che esse apportarono: infatti «grazie all’impiego di personale specializzato e stipendiato che operava in locali adatti e appositamente costruiti, consentirono una lavorazione più razionale del latte. Delegando quella attività al casaro stipendiato, i contadini avevano più tempo per il lavoro nei loro campi e per la cura degli animali. I latticini, di qualità più elevata, garantirono un netto miglioramento nell’alimentazione dei soci e divennero più facilmente smerciabili».  (Ivi, p. 50). Non solo: «Il loro successo venne assicurato dal fatto che, oltre a garantire la divisione del prodotto tra i soci, il sistema necessitava di un basso impiego di capitali ed era funzionale alla struttura frammentata dell’allevamento friulano, dove ogni famiglia possedeva pochissimi capi. Inoltre, tramite il sistema della cooperazione tra i soci, si sviluppò una nuova coscienza sociale» come accadde, del resto, in  ogni struttura cooperativa. (Ibid.).

Inoltre «le latterie cooperative, gestite direttamente dai soci, giuridicamente prevedevano «la produzione dei latticini in comune tra i soci allo scopo di distribuirne tra loro la maggior parte del prodotto e venderne per conto sociale un’altra parte». (Ibid.).  Esse potevano essere sociali o turnarie.  «La latteria turnaria era più economica della latteria sociale in quanto i soci fornivano sia la legna per accendere il fuoco e scaldare le caldaie che il personale che puliva i locali e aiutava il casaro. Nel caso della latteria sociale questi servizi, così come il lavoro del casaro e del suo aiutante, dovevano essere retribuiti. Il vantaggio principale della latteria sociale stava invece nel fatto che, nel caso di partite di latte di scarsa qualità, il prodotto lavorato veniva suddiviso tra tutti i soci, mentre nel caso della latteria turnaria il formaggio scadente toccava al socio di turno». (Ibid.).

Ma, con il loro proliferare, si iniziò a temere, pure, la possibilità di attività speculative, tanto che, nel 1885, anno in cui «il Consorzio delle latterie di Udine contava già ventinove unità»  (Ivi, p. 51) come ci ricorda sempre Lara Zilli, «nel numero annuale della cronaca della Società Alpina Friulana, si precisava che “la latteria, volendo restare una istituzione veramente benefica per le classi meno favorite dalla fortuna, non deve essere precipuamente una società di speculazione e guadagno come ordinariamente avviene di quelle istituite nei grossi centri, ma deve aver lo scopo primissimo di fornire i più sani e nutrienti prodotti alla tavola di ogni famiglia di Soci”» (Ivi, p. 50).

Comunque, nel 1904 si contavano in Friuli già  275 latterie che lavoravano 40.000 quintali di latte. «Nel 1915 con 321 caseifici attivi, i quintali di latte lavorato in regione furono 590.000. La Grande Guerra e l’invasione austro-tedesca provocarono un severo colpo di arresto all’attività casearia che vide il numero delle latterie ridursi, nel 1918, a 21 unità con poco più di 37.000 quintali di latte lavorato. Nel 1919, 85 caseifici avevano già ripreso a funzionare. Nel 1920, si contavano 184 latterie che lavorarono 265.000 quintali di latte. Nel 1927, 485 latterie lavorarono in media 805.000 quintali di latte. Nel 1940, il numero delle latterie salì a 627 unità. Durante la seconda guerra mondiale circa 150 latterie sospesero la loro attività, ma nel 1950 le latterie attive erano di nuovo più di 600. Salirono a 652 unità nel 1960: in pratica una in ogni frazione di Comune».  (Ivi, p. 52).  Quindi , negli anni sessanta del Novecento, iniziò il loro declino.

Per quanto riguarda la latteria di Collina di Forni Avoltri ed il maestro Eugenio Caneva, vedasi anche: Enrico Agostinis, Fu la prima a nascere… Vita e opere di Caneva Eugenio da Collina, in: Tiere Furlane, n. 5, giugno 2010, pp. 53-60. Ricordo però, come già scritto,  che la latteria cooperativa di Collina di Forni Avoltri fu la prima della Carnia e forse del Friuli. Per la latteria cooperativa fondata subito dopo, sempre in Carnia, da don Gio Batta Piemonte ad Illegio, cfr. Antonietta Spiazzo, Miracul a Dieç: spongje e çuç di 127 agns in cà, in: Tiere Furlane,  n.5, giugno 2010, pp. 61- 66.

Ma per ritornare all’intervento di Paolo Braida, egli ha detto, poi, che si ha notizia di altre società  cooperative in Italia, in Piemonte come in altre regioni, che datano prima della latteria cooperativa di Collina. E anche i  famosi pionieri di Rochdale, cittadina della Gran Bretagna sita a 20 chilometri di Manchester, che vengono ritenuti i primi ad aver fondato una vera e propria società cooperativa di consumo finalizzata a: «operare nel commercio di generi alimentari di prima necessità» la “Rochdale equitable pioneers society”, creata il 15 agosto 1844, con spaccio aperto il 21 dicembre dello stesso anno in vicolo vecchio n. 31 (http://www.memoriecooperative.it/calendario/21-dicembre-1844/), erano, secondo Briada, giunti alla creazione di questa cooperativa dopo aver fallito un’altra esperienza. Essi infatti avevano in precedenza formato una società assimilabile ad una cooperativa per la vendita di viveri, ma fecero, a suo avviso, l’errore di porre in vendita gli stessi  a prezzo di costo, andando incontro al fallimento.

E fra i  pionieri  di Rochdale «otto facevano i tessitori, uno il cappellaio, quattro gli ebanisti. Gli altri, i mestieri più umili. (…).  Eppure, alla base di tutto il mondo cooperativo ci sono loro, i fondatori della “Rochdale Equitable Pioneers Society”, e la loro mitica carriola con la quale coprivano il percorso — venticinque chilometri — da Rochdale a Manchester, e ritorno». (Raffaele Niri, I magnifici pionieri di Rochdale, quando basta una carriola e inventi la cooperativa, in: La Repubblica, 21 novembre 2014).

Ma, diversamente dagli entusiasti che vedono in una idea creativa nata a Rochdale l’inizio del cooperativismo, quello che Braida ha voluto giustamente sottolineare è che il sorgere delle prime società cooperative fu il frutto di un lungo processo che vide, tra l’altro, la loro espansione ed il loro radicamento in territori tutti contraddistinti da grande miseria,  analfabetismo, emigrazione. E, parallelamente al crescere delle società cooperative, si andarono definendo e consolidando i concetti soggiacenti, espressi in termini giuridici, ed  i criteri di comportamento da tenersi da parte dei soci ed in particolare da parte di quelli che erano stati chiamati a svolgere la funzione di amministratori.

Ed anche oggi, in Italia, la Costituzione, all’articolo 45, riconosce il valore sociale delle cooperative con carattere di mutualità. Ed il concetto di mutualità deriva dagli inglesi  anche se poi  è stato coniugato, nel tempo, in modo diverso in realtà diversificate, e disciplinato dalle leggi in modo diverso. E, sempre secondo Briada, si potrebbe anche discutere se l’ordinamento italiano, così com’è, favorisca o meno la nascita di forme cooperative, ma ciò non toglie valore alla cooperazione ed al cooperativismo.

Rispondendo poi ad una sollecitazione del moderatore Paolo Mosanghini, vice- direttore del Messaggero Veneto, quotidiano locale, Braida ha sottolineato poi come coloro che diffusero i principi della cooperazione ed unirono gli abitanti dei paesi in cooperative furono, come precisato anche da me nel corso delle diverse presentazioni del mio volume, “Cooperare per vivere, op. cit.”, persone autorevoli ed istruite del paese, il prete, il maestro, “chel studiat”, il lavoratore sensibile, ma in molti casi senza filantropi, cattolici, liberali, socialisti che finanziarono, con i loro capitali, molte cooperative e società di mutuo soccorso, queste non avrebbero mai potuto sorgere e sopravvivere. Insomma moltissime cooperative in Italia nacquero da una felice unione tra la borghesia illuminata e progressista ed i proletari, per dirla alla Carlo Marx.

Ma se sacerdoti poterono agire prima del 1919, lo fecero a titolo personale, ci ha ricordato Braida, perché, come tutti sanno, prima dell’Enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII era fatto divieto ai cattolici di unirsi in movimenti o partiti e svolgere attività politica (non expedit), mantenendo la Chiesa una attività di difesa, dopo la breccia di Porta Pia, verso lo Stato Italiano ma anche, parallelamente, verso il socialismo dilagante ed il liberalismo. E così ai cattolici italiani fu inizialmente permesso solo ed unicamente di aderire all’Opera dei Congressi e dei comitati dei cattolici, sorta nel 1874 che promuoveva tale linea difensiva, e di partecipare ad attività di carattere caritativo. 
Dopo  l’apertura dell’enciclica prima ricordata, iniziarono a sorgere imprese cattoliche atte non solo a favorire il benessere economico ma anche la pace sociale, e tra queste si possono annoverare le cooperative agricole bianche, che furono poi spazzate dal fascismo. 

Infine Braida ha ricordato l’attività progressista della Società Agraria Friulana, fondata, da che ho letto, nel 1855 da possidenti che volevano migliorare la rendita e la cura dei terreni di loro proprietà introducendo innovazioni agrarie e insegnando come usarle a famigli e contadini.
Nel merito così si legge su: ” Afeo Mizzau, Per la storia dell’agricoltura friulana”, p. 31, in rsa.storiaagricoltura.it:  «L’agricoltura friulana moderna quindi, che ha i suoi primi accenti in Antonio Zanon e nei suoi pochi amici nel corso del 1700, fa i primi passi alla fine della prima metà dell’800, dopo che con la Santa Alleanza di Vienna, l’Europa ritrova un suo equilibrio politico. Alla radice dello sviluppo, e nella successiva crescita, troviamo l’Associazione Agraria Friulana che, fondata nel 1846, per quasi un secolo sarà centro e motore di ogni conquista agraria» segnando il passaggio dall’arcaico al moderno in Friuli.

Quindi Paolo Mosanghini, moderatore, ha posto a Paolo Briada una domanda   sulla situazione attraversata dalle cooperative durante le guerre ed il fascismo.

Anche le cooperative attraversarono tempi duri durante le guerre ed il fascismo, ha sottolineato Braida, come del resto io nel mio “Cooperare per vivere, op. cit.”. Il primo dopoguerra fu un tempo convulso e di grande conflitto, segnato da due chiamate alle urne per nominare i nuovi governi: una nel 1919 ed una nel 1921, fino a quella del 1924, ricordo io, in cui i fascisti intimidirono in vario modo gli elettori, giungendo così ad una vittoria imposta , non scelta. Nel 1919, come ricorda https://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_politiche_italiane_del_1919, «alle elezioni nessun partito riuscì a presentarsi in tutti i 54 collegi in cui era divisa l’Italia. Solo il Partito Socialista Italiano e il Partito Popolare Italiano riuscirono a presentarsi in modo uniforme in 51 collegi col medesimo contrassegno, rispettivamente la falce e martello e lo scudo crociato; tutte le altre forze politiche si presentarono con nomi e simboli diversi da collegio a collegio. Si potevano contare 281 simboli per 1.260 candidati».

Il risultato dette vincenti, per poco, i socialisti, ma credo che se si fosse saputo cosa veramente era successo durante la prima guerra mondiale, la vittoria sarebbe stata netta, e così si procedette a non rendere pubblici, per paura di una avanzata “rossa”,  i risultati a cui era giunta la Commissione d’ inchiesta su Caporetto, di cui fece parte anche Michele Gortani, che mettevano nero su bianco responsabilità precise relativamente allo sfondamento nemico a Caporetto. Ma dei tre volumi prodotti, uno solo venne pubblicato e conosciamo, perché gli altri due svanirono nel nulla. Questo accadde perché i lavori di detta commissione divennero immediatamente oggetto di dibattito politico, con i socialisti che guardavano con positività agli esiti di detto lavoro voluto dal governo, mentre i cattolici li minimizzavano. (Cfr. Giorgio Rochat, L ’inchiesta su Caporetto e la lotta politica nel 1919, reteparri.it/wp-content/uploads/ic/RAV0068570_1966_82-85_26.pdf).

Quindi le politiche del 1921, ove ugualmente uscirono vincenti i socialisti, seguiti dal Partito Popolare ed infine dai Blocchi Nazionali, a cui aderirono anche i Fasci Italiani di Combattimento e da altri partiti, compreso, buono ultimo, il Partito Fascista, che così faceva la sua entrata nel mondo politico, ed otteneva 3 seggi con Farinacci, Grandi e Bottai, la cui elezione venne però inficiata dal fatto che essi non avevano l’età minima per far parte della Camera dei Deputati. Ma i Blocchi Nazionali riuscirono ad eleggere ben 35 deputati aderenti ai Fasci Italiani di Combattimento, fra cui Benito Mussolini, il terzo più votato d’ Italia. (https://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_politiche_italiane_del_1921).

Poi la marcia su Roma, ricordata anche da Braida, a cui non si oppose il Re, le elezioni dell’aprile  1924, dopo l’approvazione della cosiddetta legge Acerbo, la n. 2444 del 18 novembre 1923, che sanciva, dopo esser stata accettata in un clima intimidatorio,  un proporzionale con voto di lista e premio di maggioranza. E così scriveva allora il socialista Filippo Turati: «Sotto l’intimidazione non si legifera; non si legifera tra i fucili spianati e con la minaccia incombente delle mitragliatrici […] Una legge, la cui approvazione vi è consigliata dai 300 mila moschetti dell’esercito di dio e del suo nuovo profeta, non può essere che la legge di tutte le paure e di tutte le viltà». (https://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_politiche_italiane_del_1924).

«La campagna elettorale e le elezioni furono segnate da un clima di intimidazione e da ripetute violenze da parte dei sostenitori del Partito Nazionale Fascista, denunciate nella seduta parlamentare del 30 maggio dal segretario socialista Matteotti», ad elezioni avvenute. (Ivi).
Uscì vincitrice la Lista Nazionale, composta per lo più da filofascisti, con oltre il 60% dei voti, seguita dal Partito Popolare Italiano con il 9% dei voti e dal Partito Socialista Unitario con il 5,9% dei voti. Presidente del Consiglio uscente era Benito Mussolini, non certo impostosi in modo democratico. Per la legge Acerbo, la Lista Nazionale ottenne i 2/3 dei deputati, e la Camera dei deputati fu di fatto consegnata in mano ai fascisti. E la posizione critica di Giacomo Matteotti, che aveva chiesto pure di inficiare le elezioni, domanda respinta, indusse i fascisti ad ucciderlo.

Poi la dittatura fascista, che cancellò anche ogni polemica sulla prima guerra mondiale imponendo una lettura agiografica della stessa.

Ed il regime fascista si pose contro le cooperative, in particolare contro il sindacalismo cooperativo, oltre che contro i sindacati in generale, in quanto esso era espressione del padronato, e decretò lo scioglimento pure della Confederazione delle Cooperative, nel 1925, oltre che della Lega della Cooperative (Per la Lega delle Cooperative cfr. anche Laura Puppini, Cooperare per vivere, op. cit.), e nel 1931 istituì l’Ente Nazionale Fascista della Cooperazione, Enfc, a cui dovettero aderire tutte le cooperative sopravvissute. Perché non bisogna dimenticare che in Emilia Romagna ed in Toscana in particolare, ma anche nell’ Italia intera, picchiatori fascisti, comandati pure da Italo Balbo, detto il ras di Ferrara, fecero una carneficina di aderenti alle leghe rosse e bianche, uccidendo, picchiando, mettendo alla gogna con l’olio di ricino ed altri mezzi,  distruggendo sedi, e questo l’ho scritto anch’io nel mio:  “Tra terra e cielo. Francesco De Pinedo, il primo re dei voli transoceanici, ai tempi del fascismo”, in: nonsolocarnia.info.

Sotto l’Ente Nazionale Fascista delle Cooperative, alcune cooperative, dal punto di vista economico, riuscirono a sopravvivere bene, altre no, e l’andamento globale non fu univoco o lineare, ma fluttuante e difforme – ha specificato Briada. Ebbero invece vita dura le casse rurali, in quanto il fascismo non voleva avere strutture democratiche che erogassero denaro. Inoltre il regime fascista impose a tutte le banche l’acquisto di titoli di stato, notoriamente senza valore. Invece le cooperative agricole, grazie alla politica autartica e ruralistica del fascismo, ebbero un momento di consolidamento, in particolare quelle che gestivano essicatoi per il tabacco, cantine sociali, filande, e l’allevamento dei bachi da seta e recupero del filato.

E superarono le difficoltà anche le cooperative di consumo, che servivano ai fascisti più di altre.  Per inciso ricordo qui che Vittorio Cella, nel 1919, riuscì, grazie al sistema cooperativo, a far giungere viveri alla Carnia appena uscita dalla prima guerra mondiale e dall’invasione austriaca e ridotta alla fame, (Cfr. Laura Puppini, Cooperare per vivere, op. cit.,) e che, nel corso della seconda guerra mondiale, i partigiani e la popolazione carnica, a cui era stato vietato dai tedeschi il rifornimento alimentare, mentre quello spontaneo veniva taglieggiato dagli ammassi, poterono sopravvivere pure grazie alla Cooperativa Carnica di Consumo che aveva allora come direttore un noto fascistissimo Rinaldo Colledan, che sembra però abbia chiuso più di un occhio dopo l’8 settembre 1943 ed aiutato la popolazione. (Cfr. i miei:  Giacomo Solero. Esperienze vissute per l’ospedale tolmezzino, e Amedeo Candido di Rigolato, comunista. Storie di vita, lavoro, partito, resistenza, in: www.nonsolocarnia.info).

Terminato il fascismo, nel 1946 le Casse Rurali – ci ha ricordato Briada – parteciparono al prestito per la ricostruzione dell’Italia, diventata Repubblica, e iniziarono un percorso in salita.

Rispondendo quindi ad una ultieriore domanda di Mosanghini, Braida ha precisato che, per quanto riguarda la Regione Friuli Venezia Giulia, essa, sulla base dell’ art. 5 dello Statuto, risulta avere, per quanto riguarda cooperazione e cooperative,  competenza concorrente, cioè deve limitarsi ad applicare le leggi dello Stato in materia, fra le quali Braida ha ricordato la legge Basevi, cioè la legge n. 1577 del 1947.
Ed anche la Costituzione fu a favore delle cooperative, come già detto, anche se non sempre fu applicata con entusiasmo, per usare un eufemismo.
E le cooperative, nella loro storia, hanno dovuto sostenere momenti non facili: quello per esempio in cui furono tolte alle cooperative tutte le agevolazioni di sostegno ai capitali, che vennero tassati come altri.

Ma- ha concluso Braida – non si può dimenticare l’opera meritoria della Regione Fvg a sostegno delle cooperative agricole, sempre deficitarie di capitale, attraverso l’Ersa. In sintesi si può dire che la Regione ha sostenuto la sforzo degli essicatoi e delle cantine e di altre cooperative.
Inoltre, ha sostenuto Braida, non si può certo dimenticare l’apporto delle cooperative nella ricostruzione post- terremoti del 1976, come nel periodo seguente alla prima guerra mondiale.
Pertanto, se durante le guerre, le cooperative hanno sofferto, nelle fasi di ricostruzione sono state in prima linea.

Nel secondo dopoguerra furono ricostruite sia la Lega delle Cooperative, sia la Confederazione delle Cooperative, in Friuli grazie all’interessamento, in particolare, di Faustino Barbina, ex deportato, che rinacque con il nome di Unione Provinciale delle Cooperative Friulane.  Faustino Barbina, commercialista di Mortegliano, fu un patriota osovano, nel cui studio si riunivano gli antifascisti. Fu scoperto ed inviato a Dachau. Dopo la liberazione, si dette da fare per la sua terra sia sul piano politico che su quello economico, con la ricostruzione di Confcooperative.

È importante pure ricordare, secondo Braida,  che, nel secondo dopoguerra si aprì in Friuli, fra i cooperatori, il dibattito sull’unità. E vi furono sostenitori dell’unità, e no, e fra quelli che avrebbero preferito due organizzazioni divise vi fu anche Agostino Candolini, che sosteneva che ognuno si doveva associare sulla base delle proprie idee, delle proprie opinioni. E il dibattito sull’unirsi o meno, nonostante la formazione di due associazioni diverse, una di ispirazione socialista comunista ed una cattolica, andò avanti. Infatti nel 1947 la sezione friulana della Lega delle Cooperative, allora presieduta da Pascolo, riaprì il dibattito su questo tema, ed all’ interno dell’ Unione provinciale delle Cooperative Friulane, Faustino Barbina fu messo in minoranza sull’argomento da una votazione fra i soci di un o.d.g. presentato da Zefferino Tomè, partigiano osovano, cattolico, senatore democristiano ed amico di Pier Paolo Pasolini. (https://it.wikipedia.org/wiki/Zefferino_Tomè).

Così, sempre dal racconto di Paolo Braida, la trattativa per unirsi andò avanti, e stava per giungere a conclusione, essendo stata creata l’Associazione Cooperative Friulane, quando intervenne la Lega delle Cooperative Nazionale che non approvò tale scelta. Quindi fu nominato commissario della sezione friulana della Lega l’ing. Francovich, comunista, che bloccò il processo di unificazione.. Rimase però alla struttura cooperativa cattolica il nome Associazione, che prese il posto di “Unione” provinciale delle Cooperative Friulane.

Il secondo episodio riguarda la sede dell’Associazione delle Cooperative Friulane.

Ad Udine, lungo viale Ledra, si vede ancor oggi un edificio- ha continuato Briada – denominato “casa della  cooperazione”, che era stato costruito da una cooperativa formatasi circa nel 1930-1935.
Le autorità fasciste avevano preteso, precedentemente, che questo immobile passasse all’ Enfc, Ente Nazionale Fascista della Cooperazione.  Allora i membri della cooperativa che lo aveva costruito, decisero di vincolarlo nella destinazione, piuttosto di lasciarsi semplicemente espropriare l’immobile dai fascisti. E così la cooperativa si sciolse e donò l’immobile all’Enfc, che poi ne fece la sua sede provinciale.

Dopo la seconda guerra mondiale, Lorenzo Biasutti, in qualità di presidente dell’Associazione  Cooperative Friulane,  tentò di recuperare, per l’associazione l’immobile, ricostituendo con i membri sopravvissuti la cooperativa che l’aveva donata, mentre sia l’Associazione delle Cooperative Friulane sia la sezione della Lega Nazionale delle Cooperative avevano già sede nell’edificio, Ma l’allora Ministro del Lavoro, forse Amintore Fanfani, sempre secondo Paolo Braida, oppose un netto rifiuto a questa operazione, dicendo che la cooperativa, ricostituita, prima avrebbe dovuto pagare i debiti, e poi riprendersi la sede. Questa linea fu adottata anche dal tribunale di Roma, che nel 1954 decise che l’edificio sarebbe stato utilizzato a scopo commerciale. Dopo di che ognuno andò per la sua strada.

E con questa storia del tentativo friulano di unificare le associazioni cooperativistiche friulane, Paolo Braida terminava il suo intervento.

Laura Matelda Puppini.

L’immagine che presenta l’articolo ritrae la prima latteria cooperativa d’Italia, costruita a Forno di Canale d’Asolo, ed è tratta da: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Latteria_Cooperativa_d%27Italia.jpg. 

Si notino, sulle pareti dell’ edificio, le scritte: “Prima latteria cooperativa istituita in Italia” – “Sistema svedese” – “L’associazione moltiplica le forze” – “Plauso alla concordia”. Laura Matelda Puppini 

https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2019/11/765px-Latteria_Cooperativa_dItalia.jpg?fit=765%2C599&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2019/11/765px-Latteria_Cooperativa_dItalia.jpg?resize=150%2C150&ssl=1Laura Matelda PuppiniECONOMIA, SERVIZI, SANITÀRiporto qui un altro intervento, quello di Paolo Braida, dall'incontro del 18 novembre 2019, che riguarda in particolare aspetti storici legati alla creazione di latterie cooperative sia sociali che turnarie e di casse rurali ed all'Associazione Cooperative Friulane. Ho integrato alcune informazioni date da Paolo Braida per arricchire il...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI