Tommaso Piffer (a cura di), Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2012.

Chi affronta per la prima volta questo recente libro curato da Tommaso Piffer, si aspetta l’ennesima rilettura dei fatti di Porzûs e dei problemi del confine orientale d’Italia durante la Resistenza.

In realtà si scopre subito che il libro ha intenti molto più ambiziosi, che vuole delegittimare la Resistenza comunista in tutta Europa, in quanto portatrice di un progetto dittatoriale e rivoluzionario che i vari partiti comunisti tentarono di realizzare eliminando i possibili “concorrenti”.

Porzûs (sarebbe però meglio dire Topli Uork, il nome reale delle malghe in cui avvenne l’eccidio) diviene così emblema, simbolo di una situazione molto più ampia.

Pare che la nuova storiografia del dopo guerra fredda abbia toni più manichei in senso anticomunista della precedente. Tommaso Piffer, che ha curato il volume, esprime con molta chiarezza gli scopi del suo lavoro. Il PCI, secondo Piffer, in linea con gli altri partiti comunisti europei, ha tentato di monopolizzare la Resistenza a suo vantaggio. Prima della guerra il partito sarebbe stato “uno sparuto gruppo clandestino isolato all’interno dello stesso fronte antifascista” (p. 17). In realtà non è così: il PCI era il partito più organizzato e maggioritario all’interno del fronte, aveva stipulato nel 1934 un patto di unità d’azione con il PSI ed era passato attraverso l’esperienza unitaria della guerra di Spagna.

Questa volontà di monopolio, secondo Piffer, ha causato in alcuni paesi europei un conflitto tra Resistenza comunista e non comunista. Nel nostro paese invece: “i comunisti italiani si presentarono come i più decisi sostenitori di una politica unitaria con tutte le altre componenti dell’antifascismo” (p. 23) e pure “In Italia non si arrivò mai a uno scontro generalizzato con gli avversari” (cioè, nel linguaggio di Piffer, tra formazioni comuniste e no).

Ma anche questo per il nostro non va bene, perché secondo lui il PCI avrebbe giocato la carta dell’unità per acquisire un’egemonia in seno al fronte antifascista. Cita in proposito alcune righe scritte nel settembre del 1943 da Longo (p.25). Righe che in realtà fanno parte di un documento molto lungo volto a mettere in guardia contro la possibilità che ambienti ex – fascisti vicini a Badoglio potessero spezzare l’unità del CLN attirando a sé alcuni partiti moderati e creando in tal modo conflitto tra le forze antifasciste ( si può leggere in: L. Longo, I centri direttivi del PCI nella Resistenza, Roma, Editori Riuniti 1973 pp. 47 – 55). Forse Piffer suggerisce che l’unica politica corretta per il PCI era quella del suicidio? In realtà non è difficile vedere nella politica unitaria, maturata nei lunghi anni di opposizione al fascismo, proprio l’elemento che limitò in Italia gli scontri interni al fronte resistenziale anche sul confine orientale.

Piffer, per essere convincente, dovrebbe inoltre citare almeno un partito, di quanti esistevano allora dalla destra al centro alla sinistra, che non cercasse di conquistare un’egemonia e di affermare la sua visione della società. Infine, la Resistenza doveva essere un’azione solo militare contro l’occupazione tedesca o anche reazione al fascismo che aveva portato l’Italia alla rovina, e tentativo di prefigurare una nuova organizzazione sociale? Doveva portare alla Costituzione del 1948 o a qualcosa d’altro patteggiato magari tra partiti antifascisti moderati ed ambienti che erano stati vicini al fascismo? Per me la risposta è scontata, sarebbe utile sapere la sua opinione.

Piffer fa pure alcune considerazioni sulla condotta di guerra. Per lui il PCI avrebbe imposto una stategia aggressiva vista con sfavore dalle altre forze, fautrici evidentemente – pare di capire – di una “guerriglia non aggressiva”, o forse di un accordo di non – belligeranza con i nazisti in attesa della fine della guerra, o ancora di una vagheggiata insurrezione finale da preparare nell’ombra. Critica la politica garibaldina di creazione di comandi unici come aveva criticato l’unita politica del CLN (p. 30). In realtà i comandi unici, sollecitati spesso dalle missioni Alleate, erano un’ovvia esigenza militare, per evitare situazioni caotiche e conflittuali in cui formazioni diverse agivano ciascuna per conto proprio sullo stesso territorio. Per lui, ma anche per Paolo Pezzino, sarebbe stata auspicabile l’opera di piccoli gruppi di militari “professionali”, impegnati in limitate operazioni di sabotaggio, rispetto alla guerriglia tesa a coinvolgere una parte ampia della popolazione perché quest’ultima riduceva l’efficacia militare delle azioni ed esponeva la popolazione stessa a rappresaglie (p.28).

Non vengono portate molte prove a sostegno di questa tesi, forse dimenticando che le formazioni sia garibaldine che osovane erano composte da partigiani giovani che però aveva già avuto esperienza militare sui fronti russo, greco – albanese e jugoslavo, dove lo stato italiano li aveva mandati a combattere, volenti o nolenti, e dove avevano imparato a loro spese le tecniche di guerriglia. Alcuni ufficiali di carriera, invece, chiamati a dirigere le formazioni partigiane dimostrarono, in una situazione non prevista dai manuali di allora, scarsissima capacità militare. Infine, l’idea che limitare l’azione a piccoli gruppi di resistenti potesse evitare le rappresaglie naziste, mi pare un illusione. Quanto accaduto nel sud Italia mostra come qualunque azione militare con un minimo di efficacia, ma anche la semplice reazione della popolazione a soprusi o requisizioni – come è accaduto ad esempio a Caiazzo, Bellona, Barletta ed in tanti altri centri in Campania, Puglia, Basilicata – avrebbe scatenato rappresaglie naziste. Rappresaglie di cui furono responsabili le formazioni tedesche che le effettuarono e non i partigiani, i reparti dell’esercito, le popolazioni, che ne subirono il ricatto e la violenza.

Venendo agli altri contributi presenti, Orietta Moscarda descrive bene il mosaico di forze che si trovò ad agire nella Jugoslavia occupata. Sarebbe interessante discutere ampiamente di questi temi, capire ad esempio perché consideri la condanna a morte nel dopoguerra di collaborazionisti come Stepinac, Rupnik, il vescovo Rožman o lo stesso Mihailović “una resa dei conti contro nemici passati e presenti” (p.47) mettendo queste persone implicitamente sullo stesso piano di coloro che avevano combattuto fascisti e nazisti. Critica il monopolio sulla Resistenza slovena realizzato dal partito comunista dopo la “dichiarazione delle Dolomiti”. Ma se i partigiani italiani si fossero trovati di fronte sul confine orientale una Resistenza non comunista, o non solo comunista, le cose sarebbero andate meglio? In realtà le rivendicazioni dei nazionalisti sloveni e jugoslavi, di quanti facevano riferimento al re Pietro o dei vecchi combattenti della TIGR contattati a suo tempo dai servizi inglesi, erano ancora più severe verso l’Italia rispetto a quelle di Tito, che essi accusavano di svendere terra slovena in nome dell’internazionalismo.

Raoul Pupo ribadisce le sue tesi consuete sulle foibe (ma riconosce che la maggioranza degli arrestati non morì nelle foibe bensì nei campi di internamento jugoslavi, vedi p.61). Foibe che sarebbero violenza di stato e momento fondante, inteso ad ipotecare il dopoguerra, più che reazione slava agli eccidi subiti negli anni precedenti. Certo, è difficile definire nel maggio 1945 la Repubblica di Jugoslavia, che ancora non esisteva ed era di fatto rappresentata da un esercito partigiano appena uscito da una lotta durissima, uno stato al pari di altri da tempo formati e consolidati. D’altro canto, Pupo riconosce che nella situazione giuliana giocò un ruolo, sul cui peso “la discussione (…) è apertissima” (p.57) anche la reazione alle violenze naziste (e fasciste, circostanza cui Pupo non mi pare dia il peso che merita). Ricorda i conflitti che sorsero tra dirigenti comunisti sloveni da un lato e OZNA dall’altro durante i quaranta giorni di occupazione jugoslava di Trieste, quando i primi si impegnarono a salvare esponenti dell’antifascismo italiano non comunista dagli arresti operati dai secondi, ma non dà loro grande importanza.

Quanto alla “violenza fondante” volta ad ipotecare il dopoguerra, essa non fu esclusiva comunista, si potrebbero dare a questo proposito degli esempi illuminanti. Infine, Patrick Karlsen interviene sul ruolo del PCI togliattiano diviso nella Venezia Giulia fra via nazionale e modello jugoslavo. Si tratta anche in questo caso di argomenti su cui è stato scritto moltissimo. L’impressione è ancora una volta che si leggano in modo semplificato queste vicende, limitandosi alla storia politica, letta esclusivamente su base nazionale e nazionalista.

Quanto alle posizioni del PCI Alta Italia, e quelle espresse da Togliatti, uomo politico navigatissimo e prudente, nella contestata lettera a Bianco del 19 ottobre 1944, non resta che rifarsi alla letteratura in merito. A mio, e non solo mio, parere Togliatti voleva evitare scontri tra partigiani italiani e jugoslavi (che avevano una netta preminenza sul terreno) ed accelerare la fine della guerra senza mai affermare che i territori occupati dalle formazioni slovene dovessero entrare a far parte della futura Repubblica Jugoslava. D’altro canto, la Direzione PC Alta Italia nella sua lettera al CC del PCJ del 29 gennaio 1945 chiarisce in modo inequivocabile questa posizione (vedi p. 252 di Pierluigi Pallante, La “tragedia” delle foibe, Roma, Editori Riuniti 2006, libro che ha il merito di pubblicare integralmente questa ed altra documentazione).

Non è difficile capire che la pacificazione invocata (giustamente) da ogni parte, si raggiunga sul confine orientale sostenendo le proprie ragioni ma cercando di capire anche quelle degli altri. Questo era il senso del famoso documento comune degli storici sloveni ed italiani che poi fu “censurato” da parte italiana evidentemente perché scomodo per qualche forza politica. I confini italiani usciti dal trattato di Rapallo del 1920 comprendevano, stando alla stessa carta etnica pubblicata da parte italiana nel 1946 (Schiffer) e criticata dalla Jugoslavia perché ritenuto troppo favorevole all’Italia, zone prevalentemente italiane, zone miste italo – croate e zone compattamente slovene. La popolazione censita come italiana era poco più della metà del totale. Il fascismo aveva spostato con la forza nel 1941 questi confini a vantaggio ulteriore dell’Italia annettendo buona parte della Slovenia ed occupando assieme ai tedeschi il resto del paese, mettendo così definitivamente l’Italia (fascista) dalla parte del torto.

I comunisti ritenevano sin dagli anni Trenta che i confini di Rapallo andassero rivisti. A questo proposito Karlsen cita l’accordo fra i partiti italiano, jugoslavo ed austriaco del 1934, considerandolo chissà perché strumento per “esasperare il contraddizioni tra il proletariato e le nazioni maggioritarie e facilitare così lo scoppio della rivoluzione” (p. 75) e non un modo per dare risposta ad un problema nazionale. Considerare quei confini un tabù non mi pare rispondesse ai reali interessi dell’Italia antifascista e democratica, durante e dopo la guerra. Sarebbe però interessante capire quali erano in proposito la linea ed i programmi della Osoppo.

L’intervento di Aga-Rossi sulla memoria dell’eccidio richiede a mio parere alcune precisazioni. Dal suo scritto si è portati a pensare alle Brigate Osoppo come formazioni autonome ed apolitiche, segnate sin dall’inizio da una pregiudiziale anticomunista. Non è così. La Osoppo non era una formazione autonoma, era stata autorizzata dal CLN di Udine e dipendeva dal CVL. Era una formazione politica (non a caso erano stati istituiti i “delegati politici”), con una componente azionista ed una democristiana. Nell’estate del 1944 la componente democristiana aveva scalzato quella azionista a conclusione dello scontro interno seguito ai cosiddetti “fatti di Pielungo”, ed aveva sciolto il comando unico realizzato allora allontanando dalla zona con la forza alcuni comandanti osovani favorevoli alla collaborazione con i garibaldini. È quanto accaduto ad esempio a Romano Zoffo “Barbalivio”, che Aga-Rossi loda perché si è opposto alle richieste degli sloveni nell’inverno 1944 (p.93). Ma che in precedenza era stato accusato dai comandanti osovani usciti vittoriosi dallo scontro interno, di essere un comunista ed era stato allontanato dalla Carnia dopo un grottesco processo politico (democristiano). La Osoppo infatti non era stata anticomunista sin dall’inizio, ma lo era divenuta dopo l’emarginazione di quanti la pensavano diversamente ben prima dei fatti di Porzûs.

Per quanto riguarda i contatti dei comandanti osovani con i tedeschi, la X^ Mas ed altri ancora nell’inverno del 1944, questi contatti ci furono, fatti alle spalle dei garibaldini, li ha ammessi lo stesso don Moretti (la mente strategica della Osoppo) lamentando pure che se ne parlasse troppo in giro. Si può leggere una documentazione interessante in proposito alle pp.156 -164 del libro di Alberto Buvoli (Le formazioni Osoppo – Friuli. Documenti 1944 – 45, Udine, IFSML, 2003) o alle pp. 53 – 65 del recente libro di Irene Bolzon, Repressione antipartigiana in Friuli. La Caserma Piave di Palmanova ed i processi del dopoguerra, Udine, KappaVu, 2012. Qualche episodio lascia intendere che essi non si limitarono ad alcuni colloqui (il presidio di Ravosa, il buon trattamento riservato agli osovani nelle carceri della caserma Piave a Palmanova ed altri). L’impressione che potevano fare notizie di questo genere sui combattenti garibaldini tormentati dalla fame e decimati dalle rappresaglie è una circostanza che non mi pare trascurabile.

Un’ultima osservazione: parrebbe leggendo Aga-Rossi che ANPI ed Istituti Storici della Resistenza del Friuli – Venezia Giulia abbiano monopolizzato per lungo tempo la memoria di questi fatti imponendo una visione comunista e garibaldina che colpevolizzava l’Osoppo per i contatti con il nemico (p.100). Ma dell’ANPI facevano e fanno parte anche partigiani della Osoppo, mentre gli Istituti del Friuli – Venezia Giulia non sono mai stati comunisti e garibaldini. Quello regionale fu fondato da Ercole Miani, noto esponente della Resistenza italiana non comunista, reduce da forti battaglie nel dopoguerra con le autorità jugoslave ma pur sempre antifascista. Quello di Udine uscì da un accordo tra Mario Lizzero e Aldo Moretti, ovvero gli esponenti più in vista della Resistenza garibaldina e osovana, per avviare un dibattito su quegli anni in grado di lasciare alle spalle le precedenti divisioni.

Infine, Paolo Pezzino presenta una serie di episodi di conflitto tra varie componenti della Resistenza. E ricorda una serie di episodi accaduti sia in Toscana che in altre parti d’Italia relativi in maggioranza ad uccisioni di partigiani non comunisti da parte dei comunisti. Il suo obiettivo è sfatare il “mito” di una Resistenza unita. In realtà si possono citare altri episodi, dove invece i comunisti sono state vittime, oltre a quelli ricordati da Pezzino. Due esempi: a Malga Silvagno, nel Vicentino, quattro comandanti partigiani comunisti furono uccisi da uomini di un reparto cattolico per ragioni politiche, ed il fatto fu tenacemente occultato nel dopoguerra come ha bene dimostrato Ugo De Grandis (Ugo De Grandis, Malga Silvagno. Il giorno nero della Resistenza vicentina, Schio, Edizioni Grafiche Marcolin, 2011).
Nel diario del comandante garibaldino – e non comunista – Mario Candotti si legge dell’uccisone nell’agosto 1944 in Carnia di un garibaldino da parte di un reparto osovano. Gli osovani, sorpresi con l’arma dell’ucciso, si giustificano lamentando un errore, Candotti ha molti dubbi ma preferisce soprassedere per le gravi conseguenze che un processo agli osovani avrebbe avuto sugli obiettivi di lotta comune (Mario Candotti, Ricordi di un uomo in divisa. Naia, guerra, resistenza, Udine, IFSLM 1986, pp. 172 – 173). Gli episodi (ma quanti altri ve ne sono?) di cui furono vittime i combattenti comunisti sono stati ignorati dalla storiografia, su di essi è calato il silenzio per responsabilità, mi si passi il linguaggio semplificato, sia della “destra” che della “sinistra”. Da destra per ovvie ragioni, da sinistra perché insistere troppo sugli errori degli altri andava contro la politica unitaria.

Certo Pezzino ha ragione se vuole mettere in rilievo che in seno alla Resistenza vi furono anche conflitti e contrasti che talvolta sfociarono in uccisioni, per responsabilità dell’una e dell’altra parte. L’unità resistenziale fu una linea politico – militare perseguita dai dirigenti e talvolta auspicata “dal basso”, ma che non riuscì sempre ad affermarsi nelle situazioni concrete. L’insistenza della nuova storiografia (ma forse non del tutto nuova se è vero che riprende un filone già sostenuto nel dopoguerra da quanti intendevano denigrare il movimento partigiano) su contrasti e conflitti però rischia di creare una nuova retorica “politicamente corretta” ma falsa o incompleta della Resistenza di cui non mi pare sentiamo il bisogno.

Marco Puppini

Prima pubblicazione sul sito:

Storia Storie Pordenone | Il blog degli Storici del Friuli Occidentale www.storiastoriepn.it/blog/ ‎ in data: 22 agosto 2012.

Laura Matelda PuppiniSTORIAMarco Puppini,Piffer,Porzus,ResistenzaTommaso Piffer (a cura di), Porzûs. Violenza e Resistenza sul confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2012. Chi affronta per la prima volta questo recente libro curato da Tommaso Piffer, si aspetta l'ennesima rilettura dei fatti di Porzûs e dei problemi del confine orientale d'Italia durante la Resistenza. In realtà si...INFO DALLA CARNIA E DINTORNI