Su Renato Del Din si sono spesi fiumi di inchiostro e di agiografia, ed in questo insieme di parole spesso si è perso il profondo significato del suo sacrificio.
Vorrei, pertanto, per questo 25 aprile, parlavi di come l’ho incontrato e conosciuto, di come ho cercato di capire alcune cose, aiutata pure da un documento fornitomi da mio fratello Marco, e mettendo in secondo piano la letteratura.  

Ero bambina, forse alle elementari, quando, volgendo gli occhi alla targa che riportava il nome della via in cui abitavo, a Tolmezzo, chiesi, per la prima volta, chi fosse stato Renato Del Din, ma da mia madre e da mia nonna non ebbi risposte. Nessuno ne parlava, come nessuno mi parlò mai della seconda guerra mondiale, dei partigiani, dei tedeschi, del fascismo. Pareva, a casa mia e non solo, che un lunghissimo periodo fatto pure di vissuti emotivamente pregnanti fosse stato rimosso, e che ne emergessero solo alcuni frammenti quasi per caso: nel terrore serale e notturno del rumore degli aerei che andavano a bombardare la Germania, che disturbava i sogni non so se di mia madre o di mio zio; nel ricordo del tragitto, in fila, per prendere l’acqua potabile alla sorgente dietro l’Albergo Roma e di una sparatoria da palazzo Garzolini, allora sede del tribunale, poco altro. Mio zio Umberto, sicuramente di sinistra, talvolta, per divertirsi e far arrabbiare mio nonno, cantava in casa, ridacchiando, canzoni fasciste apprese ai tempi della scuola, e da lui, giovanissima, sentii per la prima volta: “Giovinezza, giovinezza”, ‘Faccetta Nera”, “Fuoco di Vesta che fuor dai templi erompe”, quasi a voler parlare di quel periodo che pareva cancellato in casa come in paese e nell’Italia tutta. E so che i miei nonni mi insegnarono a non parlare mai a voce alta, neppure in casa, e men che meno vicino alle finestre, ed a non parlare mai della famiglia pubblicamente, tanto erano stati scioccati dal ventennio fascista e dall’occupazione tedesca.

Adolescente, chiesi un giorno a mio padre chi fosse stato Renato Del Din ed egli mi disse che era stato un giovane morto per la libertà di noi tutti. Ma era troppo poco e continuavo a non capire. Poi piano piano ad informazione si aggiunse informazione, ma il puzzle era ancora lontano dall’esser terminato. Sentii parlare, da liceale, in modo nebuloso della resistenza, e ci capii ben poco; mi si narrò di un grande funerale, quello di Renato Del Din, ma senza grandi particolari. Allora si parlava, sull’onda di certa storiografia malata, solo di risvolti partitici nella resistenza, ed il terrore per il comunismo offuscava ancora menti e conoscenze. Si facevano distinguo sottilissimi fra la linea nazionale del Pci e quella della Dc, come la resistenza fosse stata un agone partitico, e nessuno poteva nominare né i partigiani né i garibaldini. E mi ricordo che mi fu detto che il bidello Damo della scuola media era stato un partigiano garibaldino, quasi fosse stato un malfattore. Ed in questo certamente la chiesa giocò un ruolo importante, quella chiesa locale che voleva l’effige di San Bernardino esposta su ogni portone di cattolici, quale segno distintivo. Almeno così narrava mia nonna, che la mise però nella parte interna del portone. Perfino a Sora Anna, maestra, cattolicissima, timorata di Dio ed ad Emidio Plozzer, cattolicissimo pure lui, quell’immagine discriminante pareva davvero troppo.  E mi ricordo pure che mia nonna, quando stava per giungere il Monsignore a benedire la casa nel periodo post pasquale, metteva via di corsa ogni libro, ogni giornale, ogni cosa che potesse indicare l’esistenza di un pensiero anche minimamente divergente da quello voluto ed imposto dal prete e dai democristiani al potere, mostrando come il ventennio avesse lasciato, come il dopoguerra, più di un segno. Allora la mia impressione fu che il controllo sociale della chiesa e dei democristiani, nel paese, esercitato anche attraverso possibili informatori (ora non più chiamati spie) fosse prassi usuale.

Passò il tempo, misi su famiglia con Alido, ebbi due figli, e di Renato Del Din mi dimenticai. Poi un giorno mi trovavo in cimitero e vidi la sua tomba, e, nel dire per lui una preghiera, mi accorsi della sua giovane età al momento della morte. Aveva solo 22 anni! Che giovane era Renato Del Din per morire, pensai, e non sapevo ancora quanti giovani e giovanissimi fossero morti per donarci la democrazia e riconquistare la Patria occupata dai nazifascisti, immolandosi per lo più senza colore politico alcuno.

Quando ero già adulta, mia madre mi narrò di aver visto il mattino seguente alla morte di Del Din, andando a prendere il latte, una pozza di sangue, che donne della via avevano coperto con segatura, ma sicuramente aveva anche sentito gli spari, abitando a due passi dal luogo ove il giovane era caduto. Ma allora nessuno che avesse un minimo di comprendonio apriva le finestre per vedere cosa stesse accadendo. Quando ormai ero maggiorenne sentii mormorare pure di tale Cescon, fascistissimo, padrone dell’Albergo ‘Alle Alpi’, fuggito subito dopo la morte del giovane ufficiale, che pareva fosse stato implicato, in un modo o nell’ altro, in quanto era accaduto quella notte. Del Din aveva sbagliato il vicolo per la fuga, mi narrò un giorno mia madre, e aveva pagato quell’errore con la vita. Ma anche successivamente vi fu chi, testardamente, forse per difendere i miliziani fascisti, raccontò che Renato era caduto sotto i colpi dei tedeschi, anche se tutti sapevano che l’ex palazzo D’ Orlando era sede della Milizia ed anche che la Milizia era invisa agli ufficiali del Regio Esercito Italiano perchè era stata voluta dal Duce per sostituire l’Esercito Regio con una forza armata al suo servizio personale, senza gran preparazione e disciplina ma composta da fedelissimi.  E forse questo odio radicato aveva portato Del Din, tenente del R.EI.  ad attaccare quella caserma, invece che un altro obiettivo, ma è un mio pensiero personale, senza alcun riscontro. Ma certamente attaccare quel luogo ed attaccare il fascismo era la stessa cosa.

Quindi lessi su più volumi la storia del funerale a Del Din, allora ‘bandito’ senza nome, e me ne parlò anche Dirce Nascimbeni, dicendo che aveva una immagine di quel giovane e che, in occasione della commemorazione della morte, incontrava la sorella di Renato: Paola. Era stato ferito la notte fra il 24 ed il 25 aprile 1944 Del Din, ed era morto all’ospedale, ma molto tempo era passato fra il suo accasciarsi e quel tribolato trasporto, su di una barella al nosocomio. “Era stato pestato a morte ed era un giovane di non più di venti anni”- scrive Lucia Cella. (Lucia Cella, ‘Mira’ sui monti la libertà,  ed. Circolo Ricreativo Sportivo Filodrammatico – Versa, 2014, p. 34). E neppure nel corso del processo intentato dal colonnello Prospero Del Din la verità emerse del tutto, a causa di testimonianze contrastanti delle solite fonti orali. Ma pare che all’ albergo ‘Alle Alpi’ il giovane fosse stato torturato dai fascisti, che, ritardando pure il suo trasporto in ospedale, ne avessero sancito, forse di fatto, la morte, anche se pare che non ci fosse più molto da sperare. Tutto si gioca sul segno che Renato porta sulla fronte, … colpo inferto poi, o da arma da fuoco …  Ma che Renato Del Din fu portato, ferito, all’ Albergo ‘Alle Alpi’ è certo, e che non fu ben trattato, ed immediatamente soccorso pure. E la famiglia Cescon abbandonò poi precipitosamente Tolmezzo. (Cfr. Fabio Verardo, Giovani combattenti per la libertà, Gaspari, 2013, pp. 87-96). Nel merito del testo di Verardo, vorrei sapere poi il nome del Solero che scattò le fotografie al corpo di Del Din (Ivi, p. 89), perchè potrebbe trattarsi di Giacomo Solero, infermiere di idee umanitarie e socialista, e ricordo che lo stesso mi disse che il medico Giuseppe Farello era considerato un fascista, e che i partigiani volevano ucciderlo il 4 maggio 1944. (Cfr. Giacomo Solero. Esperienze vissute per l’ospedale tolmezzino, in: www.nonsolocarnia.info). Infine Verardo scrive che la Corte che aveva esaminato il caso, aveva deciso che, se vi erano state violenze sul giovane, esse erano avvenute durante il trasporto all’ospedale da parte di militi fascisti, come testimoniato da Luigi Longo della tenenza dei carabinieri. (Fabio Verardo, op. cit., p. 95).  

 

È uno dei tanti pomeriggi passati con Romano Marchetti, che mi riempie di informazioni, personaggi, vita di un tempo. Gli parlo di Renato Del Din e di quel funerale che però egli non ha visto di persona, e mi dice che esso segnò l’inizio della resistenza in Carnia, assieme alla morte, circa un mese prima, di Giobatta Candotti. Ha pure scritto quanto gli aveva narrato, nel merito, Sara Menchini, e mi dona lo scritto. Ma sono solo poche righe. «È una domenica sera di dicembre. – racconta Romano Marchetti – Un breve imbarazzo e poi Sara si avvicina: i fianchi, ancora fermi, riecheggiano movimenti leggiadri. Si siede. “Un caffè?” – le domando. Sorride.

“Ecco – dice- proprio da qui, da questo caffè, il Manin, i giovanissimi sono usciti per accorrere al funerale dell’ufficiale alpino bandito senza ancora un nome, altri erano nascosti lungo il marciapiede o dietro “quella porta” in borg da muffe. Così si è ingrossato il funerale, perché da ogni portico sono poi usciti i vecchi, donne e uomini a protezione dei giovani, in qualche modo, credo».

«Rammento improvvisamente – ricorda Romano – le parole di Renzo, l’autista del camion della Cooperativa: “Mi trovavo a passare con il camion della cooperativa carnica. All’incrocio della Caserma dei Carabinieri e della scuola professionale, debbo fermare il camion…ero solo in cabina. Un capitano dei carabinieri, un uomo piccolo e segaligno, (forse Santo Arbitrio ndr.) tenta di portare i cavalli del carro funebre sulla circonvallazione, secondo il minaccioso diktat tedesco: con lui, mi pare ci fosse anche il maresciallo (Argentieri ndr.)  quello che avrà, poi, due figli nella Garibaldi, ma non ne sono certo.  Un gruppo di donne lo contrasta. Gli strappano le briglie di mano, (…) ed indirizzano la carrozza sulla via principale.». E Santo Arbitrio, probabilmente, le lascia andare, non spara, non le ferma. Non spara sulle donne, il catanzarese, poi chiamato a rapporto dai nazisti, che dovrà abbandonare l’Ozak e sparire, e che rimarrà nella memoria popolare come un eroe. Così lo stesso Santo Arbitrio aveva narrato: «[…] non essendomi opposto alle solenni onoranze funebri rese alla Medaglia d’oro Tenente Renato Del Din, morto in seguito a ferite riportate in combattimento con i nazi-fascisti, (funerali della cui organizzazione io ero a conoscenza) fui in un primo tempo fermato dal comando tedesco di Tolmezzo e poi dalla gestapo di Udine. Sottoposto anche ad inchiesta che la legione Trieste esperì a mio carico per ordine del Comando Generale, il 28 maggio 1944 fui espulso dal Litorale Adriatico e trasferito al G.N.R. di Verona». (La storia di Santo Arbitrio, catanzarese, Capitano della Caserma dei Carabinieri a Tolmezzo ai tempi del funerale Del Din, che non ostacolò, perchè resti memoria., in: www.nonsolocarnia.info).

Comunque fonti orali hanno, nel dopoguerra, dato versioni diverse del funerale, anche se alcuni aspetti dello stesso sono certi: fu il funerale ad un ufficiale del Regio Esercito Italiano, allora non identificato, considerato un volgare bandito, che aveva detto, armi in pugno e sparando, il suo no al fascismo, ed a tutti i fascismi, che aveva dato la sua vita per una Italia libera dai nazisti, che era stato omaggiato e sepolto nel cimitero cittadino grazie alle donne del luogo (dietro alle quali, probabilmente, si celavano anche uomini), che avevano fatto colletta per una degna sepoltura, e la cui salma era stata benedetta, in duomo, da Mons. Pietro Ordiner, sacerdote di poche parole ma di chiare idee, facendo inferocire il comando tedesco; che Santo Arbitrio non diede l’ordine di sparare su donne, vecchi, bambini.

Ma cosa fece accorrere tanta folla a quel funerale, all’inizio della Resistenza? L’ odio per i nazifascisti, secondo me, il fatto che si sapeva che il ‘bandito’ era un ufficiale dell’Esercito, e, credo, quello spirito ‘alpino’ e ‘socialista’, che aveva portato Dirce Nascimbeni, di famiglia socialista e che aveva rifiutato la tessera del fascio, a urlare, mentre la bara scendeva nella fossa, ‘ Salute, a te, fratello d’ Italia’ e la folla a rispondere ‘Presente!’.

E così si narrava quel funerale, posto fra le ‘attività ribelli in provincia’, in una informativa indirizzata ‘

Al Ministero Interni – Sicurezza Val Dagno’, datata 3 maggio 1944:

«Con riferimento alla segnalazione N. 09639 del 27 aprile u.s., comunicasi che, in seguito alla morte del capo banda non identificato, per gravi ferite riportate durante l’attacco effettuato il 25.4. u.s. contro la caserma della Milizia Confinaria di Tolmezzo, quel Commissario Prefettizio ordinava il trasporto del cadavere dall’ospedale civile al cimitero per le ore sette del mattino del 27 successivo, senza suono di campane e senza alcuna pompa e che la salma fosse benedetta nella cappella dello stesso ospedale. Sennonché l’indomani, mattina, alle ore sette precise, un migliaio di donne ed alcuni ragazzi si facevano trovare davanti all’ospedale e si accodavano al carro funebre, obbligando ad un certo punto il conducente del carro a deviare l’itinerario prestabilito, e costringendolo a trasportare il cadavere in Chiesa per la benedizione.

Durante il trasporto certa Midolini Lena collocò sulla bara un cappello alpino. Inoltre, nel momento in cui il feretro veniva calato nella fossa la signorina Dirce Nascimbeni salutò il cadavere del ribelle dicendo: “Salute, fratello d’Italia”, al che altre donne, non identificate, avrebbero risposto “Presente”. Certa Sara Menghini, al ritorno dal cimitero, ebbe consegnate circa L.800 raccolte dalle donne che avevano costituito il corteo, allo scopo di ottenere dal comune la concessione di un’ara privilegiata per la sepoltura del capo banda. La predetta accolse l’incarico presentando lo stesso giorno al Municipio di Tolmezzo regolare domanda. È stato accertato che, contrariamente a quanto disposto dal Commissario Prefettizio di Tolmezzo, l’Arcidiacono d. Ordiner fece suonare le campane a morto, fatto, a suo dire, integrante della funzione religiosa, intervenne al funerale facendosi precedere dalla croce seguita da una ventina di ragazzi, benedisse la salma nella Chiesa Parrocchiale adducendo che la cappella dell’ospedale non è officiata né officiabile per esequie presente cadavere. Inoltre l’impresario Vidoni, minacciato di rappresaglia da alcune donne, eseguì il trasporto funebre anziché col carro di III con quello di I classe. Furono notate corone di (parte cancellata ndr)».  (Informativa della reggia prefettura di Udine al ministero dell’interno data 3 maggio 1944, con oggetto: attività ribelli in provincia, Archivio Centrale dello Stato – Roma).

Chi era Lea, e non Lena Midolini? Non era persona notissima, era una donna immigrata dal Friuli per matrimonio, andando sposa a Balilla Vidoni, comunista. Così viene narrata dai dati anagrafici: “Midolini Lea Angela, fu Giovanni e di Caporale Amalia, nata ad Orzano di Remanzacco (Ud), il 24 marzo 1912, trasferitasi a Tolmezzo il 27 dicembre 1936, coniugata con Balilla Vidoni, vedova il 30 maggio 1948, casalinga. Abitò a Tolmezzo prima in via dei Molini n.4., poi in via Vittorio Emanuele n. 49, poi in via della Repubblica n. 49, quindi in via Carducci n. 5 ed infine in via Roma n. 21, in una abitazione che si affacciava sullo stesso cortile, chiuso da un grande portone, condiviso pure dalla famiglia del poi sindaco Dario Zearo, che ringrazio, assieme all’ufficio anagrafe di Tolmezzo per le informazioni datemi.

La storia di Lea Midolini fu triste. Rimasta vedova, aveva perduto pure, a causa di malattia, l’unica figlia, restando da sola ed invecchiando anzitempo.

Aveva lei, secondo l’informativa, sposa a Vidoni Balilla, comunista, di professione macellaio, denunciato al tribunale speciale e radiato, (Archivio Centrale dello Stato, Casellario politico centrale, busta 5405, fascicolo 118885, estremi cronologici 1937- 1942), posto quel cappello di alpino sulla bara del giovane ‘bandito’.

Il marito da che si sa grazie all’ Ufficio anagrafe, era figlio di Anna Menchini ed Antonio Vidoni, era nato a Tolmezzo il 21 febbraio 1908, si era sposato con Lea Angela Midolini il 27 dicembre 1936, ed aveva lavorato anche a Cividale ma poi era rientrato nel luogo di origine. Pare quindi, e neppure tanto pare, che fossero state famiglie socialiste, comuniste, antifasciste, a permettere al ‘ bandito’ un funerale grandioso, sparite poi dalla memoria, per sposare l’agiografia post- bellica.

PER QUESTO 25 APRILE, CHE DEVE ESSERE FESTA DI LIBERAZIONE DA TUTTI I FASCISMI, I NAZISMI, I NAZIONALISMI ESASPERATI, RICORDO QUINDI UN GIOVANE CHE DETTE LA VITA  PER LA LIBERTÀ DI NOI TUTTI E PER LA DEMOCRAZIA NEL NOSTRO PAESE, CHE CADDE COME TANTI ALTRI GIOVANI, GIOVANISSIMI, MENO GIOVANI, UOMINI E DONNE, SENZA MOLTI COLORI POLITICI ESSENDO VISSUTI SOTTO LA DITTATURA, INQUADRATI NELLA GARIBALDI E NELLA OSOPPO, CON L’ARMA IN PUGNO, SPARANDO CONTRO I FASCISTI ED I NAZISTI.

ONORE E GRAZIE A TE, RENATO, FRATELLO D’ITALIA.

E GRAZIE ED ONORE AI TANTI MORTI E TORTURATI PER UN SOGNO, PER UN IDEALE CHE SI AVVERÒ, E CHE NON POSSIAMO LASCIAR MORIRE.

VIVA LA LIBERAZIONE D’ ITALIA – VIVA L’ ITALIA LIBERA – MORTE AL FASCISMO – LIBERTÀ AI POPOLI!

VIVA IL 25 APRILE !!!!!!!!!!!!!!

Laura Matelda Puppini

L’ immagine che accompagna l’articolo, ritrae il tenente del R.E.I. Renato Del Din, nome di battaglia ‘Anselmo’ ed è tratta da: https://phaidra.cab.unipd.it/detail_object/o:5920. Si prega di avvisare se sia coperta da copyright, nel qual caso sarà sostituita. Laura Matelda Puppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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