Sto cercando, non per me perché non posso parteciparvi anche se lo vorrei tantissimo, fra le email giuntemi, un avviso che mi dica quando e come si svolgerà la manifestazione in ricordo della guerra di Liberazione ad Udine il 25 aprile, ed invece mi imbatto in un invito per la strage di Avasinis, il 2 maggio, ed improvvisamente mi viene alla mente di aver già ricercato e scirtto qualcosa nel merito, nel lontano 2013, mai pubblicato.

«Laura, questo è per te» – mi dice mio marito, mentre sta aprendo la porta con mille pacchi in mano. È l’ultimo numero di Storia Contemporanea in Friuli, rivista dell’Ifsml, che, guarda caso, ha pure un interessante articolo di Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi sull’incendio di Forni di sotto, la strage di Lipa e quella di Avasinis, alla ricerca di colpevoli e motivi unificanti, che però non deve prestarsi a fornire giustificazioni per gli accadimenti, anche se fosse possibile dimostrare che furono risposte esagerate ad azioni di guerra partigiane, ove morì qualche tedesco. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, Forni di sotto, – Lipa- Avasinis: nuovi elementi su tre rappresaglie fasciste, in Storia contemporanea in Friuli, n.47, pp. 93-136).

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Lo studio, relativamente alla parte sui mezzi e reparti impiegati è rigoroso, tenendo conto della difficoltà a trovare fonti, ma ha pure il limite di non prendere posizione, se non in nota, su quanto narrano fonti orali (fra cui si comprendono anche diari e memoriali), discriminando le verità oggettive dalle reiscrizioni della realtà in funzione di ‘pararsi e parare il culo’ sancite dall’assioma degli ‘italianissimi sempre buonissimi’. Anche in questo caso vi è tale Roberto Decleva che sostiene, pare solo sul racconto di un milite di nome Dalcich, che truppe italiane non parteciparono al massacro di Lipa, che esso fu totalmente tedesco. Ma purtroppo per lui immagini scattate allora confermano il contrario. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, op. cit., p. 131 e, ibid. note 67-68). Ma Torquato Dalcich, perché pare si tratti di lui, era all’ epoca dei fatti un allievo Ufficiale della G.N.R, e secondo Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, «È evidente la sua intenzione di scagionare italiani dalla partecipazione alla strage, addossandone tutta la responsabilità ai tedeschi». (Ivi, nota 58, p. 127 e p. 116). E nel merito mi ritorna alla mente l’intervista rilasciata dal marò Sergio Denti ad un intervistatore ignoto, che pareva nulla sapesse della Xa Mas. L’ intervistatore gli chiede conferma del fatto che la Xa Mas avesse una regola per cui non doveva mai combattere contro gli italiani, e questi conferma sicuro. (Intervista a Sergio Denti della Decima Flottiglia Mas. Prima parte. In: https://www.youtube.com/watch?v=NweB6qMZz0w 28 dicembre 2017, da me citato in: Laura Matelda Puppini. Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori, in: www.nonsolocarnia.info).

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È un capolavoro la memorialistica orale del dopoguerra – penso fra me e me, chiusa in quell’ ‘alluvione di memoriali, precisazioni, analisi, autobiografie, interviste pubblicati, da cui si deriva “tutto ed il contrario di tutto” o per cautelarsi, in alcuni casi, da una chiamata in correo, o per trasmette una ottima idea di sé, o per visione ideologica o a fini politici. ‘Fiumi di inchiostro’ sono stati spesi, in particolare sul web,  per difendere reali ‘banditi’ ‘assassini’, ‘torturatori’, ‘collaborazionisti’ come quelli della X Mas, della Legione Tagliamento e via dicendo, nascondendo responsabilità tutte o parzialmente nostrane scaricandole magari sui tedeschi, falsando piani e contesti. Pure per questo sono da ringraziare Di Giusto e Chiussi: perché stanno vagliando pure la presenza di forze composte da italiani e repubblichini in eccidi e stragi. Però lo studio ha ancora un limite: quello che per ora i casi presi in considerazione sono solo tre, e per quello di Avasinis ho trovato solo una novità: la possibile attribuzione della strage ad un gruppo comandato da Pjesz (nome non reperito) di cui facevano parte pure 34 italiani. (Stefano Di Giusto e Tommaso Chiussi, op. cit., nota 72, p. 133). I due autori, poi, cercano di evidenziare se le morti di civili e la distruzione di paesi possa essere associata, come nel caso delle fosse Ardeatine, a uccisioni da parte di partigiani di militari tedeschi, ma i casi riportati sono solo tre, e per la strage di Avasinis Di Giusto e Chiussi non portano prove che ciò sia avvenuto. Pertanto il materiale per sostenere che le stragi, nell’ Italia occupata, avvennero come ritorsione per la morte, nel corso di azioni di guerra, di ufficiali o soldati tedeschi per mano partigiana, mi pare, per ora e solo su questo materiale, indimostrabile. Inoltre i tedeschi, affiancati dall’ R.S.I. avevano in Italia una vasta zona di occupazione, e molti paesi vennero dati alle fiamme, presumibilmente, perché ritenuti ‘ covi dei partigiani’, dal Piemonte all’Ozak, che comprendeva pure l’attuale F-vg. (Cfr. nel merito i miei: ‘No alla X Mas nelle sedi istituzionali della Repubblica italiana. Motivi storici’, e ‘Storia della collaborazionista X Mas con i nazisti occupanti, dopo l’8 settembre 1943. Per conoscere e non ripetere errori”, in. www.nonsolocarnia.info. Ma di paesi bruciati e civili uccisi, furti ed angherie per mano fascista parla anche Nuto Revelli nel suo: Le due guerre, Einaudi ed., 2003).

Il ruolo dei fascisti collaborazionisti nelle rappresaglie è ben descritto da Nuto Revelli, partigiano nel cuneese, che così si esprime: «Non sono i fascisti che ci preoccupano. I fascisti – lo grido ben forte, perché li ho visti con i miei occhi – non sono dei combattenti. I fascisti li temiamo e li odiamo, sottolineo ‘li odiamo’, perché arrivano sempre dopo le operazioni di guerra, arrivano sempre dopo i rastrellamenti, al seguito dei tedeschi. I fascisti sono feroci nelle rappresaglie contro la popolazione, contro gli inermi. I fascisti della ‘Muti’ di San Dalmazzo li temiamo perché sono dei torturatori crudeli, spietati, che terrorizzano la popolazione, incolpandola di connivenza, di essere amica dei partigiani. (…). Rientrava nel loro compito quello di terrorizzare la popolazione». (Nuto Revelli, op. cit., p. 148). 

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E nel merito delle rappresaglie sui civili, in territorio poi jugoslavo, così scrivevo in: Laura Matelda Puppini. Per la giornata del ricordo, www.nonsolocarnia.info, 6 febbraio 2017: «E come non ricordare Podhum, con 108 civili trucidati nel 1942 ed il paese distrutto dai fascisti, (http://anpimirano.it/2015/12-luglio-1942-strage-di-podhum/), come non ricordare i 7 villaggi incendiati nei pressi di Villa del Nevoso, sempre nello stesso anno, come non ricordare la distruzione di Lipa, in Istria, il 30 aprile 1944, con il massacro di oltre 269 civili, fra cui 3 bimbe di neanche un anno, e nella casa del vecchio Ivan Celigoi i suoi nipotini tagliati a pezzi? (Ivi, p. 74 e pp. 94-96 e http://www.memoriaeimpegno.org/storia-e-memoria/2d-guerra-mondiale/rappresaglie-nazi-fasciste/50-la-strage-di-lipa, e altri siti)». Per quanto riguarda l’incendio dei villaggi in zona Monte Nevoso, nel 1942, esso avvenne nel contesto della caccia ai partigiani, in particolare alla banda ‘Maslo’ che aveva ucciso militi italiani in una azione di guerra. «La caccia alla “banda Maslo” viene data congiuntamente da esercito, polizia, carabinieri e milizia. Il 5 aprile viene incendiata la casa dei Maslo, in Monforte del Timavo dove i soldati italiani uccidono due contadini e il 7 aprile presso Villa del Nevoso vengono incendiati 7 villaggi e impiccati 5 contadini di lingua slovena (30 secondo fonti jugoslave)». (www.storiaxxisecolo.it/Fortebravetta.rtf, Roma 2000).  

Furono tutte risposte a morti di militi? A sostegno di quanto ipotizzano Di Giusto e Chiussi, sulla politica dell’ “occhio per occhio, dente per dente” all’ ennesima potenza, da parte dei nazifascisti e collaborazionisti, si pone quanto accaduto ad Ovaro il 2 maggio 1945, quando i cosacchi infierirono sul paese ed i suoi abitanti, anche bruciando abitazioni oltre che uccidendo, dopo che Alessandro  Foi, ‘Paolo’,  comandante della Brigata Osoppo – Carnia aveva dato l’ordine al Btg. Canin, osovano, di far saltare la caserma di Chialina, provocando la morte di un certo numero di cosacchi.

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Ma passiamo ora a quanto ho appreso sulla strage di Avasinis, ponendo due punti fermi: gli uomini erano andati in montagna; vi erano sui colli partigiani e qualcuno di loro forse sparò sui tedeschi in ritirata sulla strada Nazionale, facendoli volgere ad Avasinis, tanto da far dire a don Zossi, prete del paese, che si doveva rispettare il detto «Al nemico in fuga, ponti d’oro». Il limite di quanto ho letto è che si basa solo su fonti orali ed assimilate alle stesse.

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Don Francesco Zossi, parroco di Avasinis, così ricostruisce i fatti della fine aprile primi maggio 1945: «Gli italiani con le loro vittorie sul fronte italiano restringevano sempre più lo spazio ricalcato odiosamente dai tedeschi. Essi dicevano di aspettare l’arma segreta […], ma il rimedio non veniva mai ed essi si videro perduti». I bombardamenti alleati venivano fatti sempre con maggior accanimento, la contraerea non esisteva più, lo scalo ferroviario di Gemona era “un cumulo di rovine”. Il ponte di Cornino era stato più volte colpito, così pure il viadotto ferroviario e la strada nazionale per Rivoli Bianchi. «Ad Osoppo, in un terribile bombardamento, furono n. 63 le vittime.». E gli alleati illuminavano il suolo di notte con i loro razzi, mentre i Tedeschi erano massimamente preoccupati di avere «alle loro spalle le porte aperte».

In zona «c’erano Cosacchi, Tedeschi, Partigiani […], c’erano troppi conti da saldare». Quella parte della popolazione che non si preoccupava troppo della situazione “era molto euforica” ma per troppi la fine della guerra non si presentava così semplice.

«Si era giunti verso gli ultimi giorni di aprile e gli Alleati erano già ad Udine. Il Comandante del presidio cosacco mi vuole; ha bisogno di trattare la resa del presidio. Faccio allora chiamare il podestà Rodaro Augusto Rossit e si conviene che essi si metteranno a disposizione dei partigiani alla sola condizione che venga ad essi salvata la vita. Si parla con i partigiani che accettano ed un giorno si partono verso la montagna lasciando libero il paese. (…). Si è saputo dopo che i patti non furono osservati. (…).

Inoltre «La strada Nazionale è una congestione ed ingorgo continuato di tedeschi in fuga. Alcuni partigiani hanno l’infelice idea di compiere un ultimo atto e di andare a disturbare la loro fuga sulla stessa nazionale all’imbocco della nostra strada. Non l’avessero mai fatto. (…). Costoro si buttano contro gli stessi partigiani che inseguono per la strada e vengono in zona. (…)». Poi «pensano che la Nazionale, congestionata, non sia più praticabile e che gli Alleati stiano arrivando da Osoppo e Gemona».

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 Avvisati del fatto che una compagnia di tedeschi si muove verso il paese, molti fuggono. Fuggono gli uomini, come in precedenza, e riparano sui monti.  Anche il prete si prepara alla fuga, ma essendosi troppo soffermato, a suo dire, con persone rimaste in paese che egli definisce: «un centinaio circa di ostinati», non riesce a prendere in tempo la via dei monti. «Questa volta – commenta a posteriori – non ci sarà nulla da fare».

Il giorno 2 maggio a Gemona ed Osoppo le campane suonano a festa per la liberazione avvenuta e ne giunge, anche ad Avasinis, l’eco. Lo stesso giorno i tedeschi da Trasaghis raggiungono Avasinis. Poi «la parola è […] lasciata alle armi. Le pallottole fischiano da ogni parte e si capisce che è meglio ritirarsi in casa». Il parroco è in canonica con alcune donne e bambini ivi rifugiatisi, sotto il tiro di un tedesco che vuol sapere dove si siano nascosti i partigiani. E fuori, da ogni parte si sentono spari. In piazza «giungono ancora soldati, con carri di munizioni e vettovagliamento, ed è tutto un concitato andirivieni di armati, di ordini secchi e di parole forti ed arrabbiate, ed un rifornirsi a quei carri. Evidentemente c’è nell’aria qualcosa di grave». Il prete si salva, accasciandosi come morto, e, dopo averlo ferito alla mano, il tedesco continua a sparare contro donne e bambini. Due donne ed una bimba muoiono, altre donne e bambini sono feriti. A chi, nel paese, è ferito, si dà il colpo di grazia. Vengono uccisi tutti quelli che si fanno sorprendere fuori casa ed alcuni pure nelle loro abitazioni. «e si sparò anche all’impazzata.». Si cercavano partigiani, si cercava dove fossero finiti. «Erano SS, reparti raccogliticci di ogni nazione, la feccia dell’esercito tedesco». Finalmente, alle 12, viene dato l’ordine, ai soldati tedeschi, di terminare di sparare. 

Verso le tre del pomeriggio una cortina fumogena rossastra copre il paese. Alle 10. 30 del 3 maggio 1945, con gli Alleati alle porte, la compagnia della SS lascia Avasinis.

(La descrizione, scritta a mano su dei fogli a quadretti, è datata: Avasinis 3 marzo 1948, ed è firmata dall’allora Parroco di Avasinis, don Francesco Zossi, ed è stata pubbblicata in: “AVASINIS 1940 – 1945. Il diario del Parroco di Avasinis ed altre testimonianze sulla seconda guerra mondiale nel territorio di Trasaghis”, note e ricerche integrative a cura di Pieri Stefanutti, ed. a cura del comune di Trasaghis, Udine 1996, pp. 35-45).

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Quello che narra il sacerdote trova riscontro nella testimonianza riportata da Giovanni Angelo Colonnello, nel suo: Friuli – Venezia Giulia, Zone Jugoslave, Guerra di Liberazione, Ud, 1966, pp. 276 -277, resa da Mario Di Giannantonio, testimone oculare.  dal suo racconto si evince che i fatti si svolsero nel seguente modo. Lungo la strada pedemontana che da Pinzano va a Cavazzo e Tolmezzo, transitavano ancora le truppe tedesche, che avevano ritenuto quel percorso più sicuro, per la ritirata, dai mitragliamenti aerei e dalle molestie dei partigiani. I paesi parevano deserti. «Solo dai costoni delle montagne di Avasinis, nel punto in cui la pedemontana muta versante, fra questo paese e Trasaghis, un gruppo di partigiani, con una mitragliatrice pesante, tentava di ostacolare e di molestare il passaggio delle truppe germaniche.  Non si conosce l’effetto dell’azione partigiana. La reazione del nemico, però, è stata immediata e violenta. Fatta tacere la mitragliatrice […], un reparto in ordine sparso, prese d’assalto il paese.

La popolazione era ormai abituata a questi episodi e, come le altre volte, gli uomini si erano messi al sicuro in montagna e le donne, i vecchi, i bambini, avevano continuato nelle loro faccende. (…). S’ erano sempre comportati così, ogni volta che il paese era stato occupato. (…). Gli uomini in montagna, le donne, i bambini e i vecchi a casa. Ma questa volta i soldati tedeschi parevano invasati da una bestiale follia omicida. La carneficina durò oltre un’ora. (…). Poi l’ordine di un ufficiale trattenne quelle belve scatenate.».  Poche righe prima Colonello così scrive: «Il nemico ha voluto seminare di croci e distruzioni anche le ultime tappe della sua ritirata in terra friulana, e dopo aver colpito, come già si sa, Feletto Umberto, eccolo infierire, mostruosamente, sempre il 2 maggio, sulla borgatella di Avasinis, di appena 700 abitanti. (…). Dopo esser stata attaccata da due battaglioni, un garibaldino e l’altro osovano, una colonna nemica […] riesce a penetrare nell’abitato, operando un eccidio di civili senza precedenti, per rappresaglia».

Del resto se si scorre l’elenco delle vittime si nota come manchino, quasi completamente, gli uomini giovani. (Sull’argomento vedi anche: Pieri Stefanutti, Novocerkass e dintorni, l’occupazione cosacca della Valle del Lago (ottobre 1944 – aprile 1945), ed. I. F.S.M.L.,1995).

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Ed in chiusura di questo mio articolo, preciso che sarebbe interessante sapere se qualcuno, magari del btg. osovano Prealpi, comandato da Dino Ferragotto, Furlan, sparò con una mitraglia sui tedeschi in ritirata sulla nazionale, uccidendone qualcuno, e facendo deviare il gruppo nazista verso Avasinis. Infatti Pieri Stefanutti e Walter Rodaro hanno raccolto l’interessante testimonianza del partigiano osovano Roberto Bellina, Due, che così narra: «Al ponte di Braulins c’era un piccolo posto di blocco nostro, composto da due partigiani che, il primo maggio 1945, sono arrivati tutti spaventati dicendo che le SS avevano fatto saltare il ponte alle loro spalle e poi si erano sistemati a Trasaghis. Si sono resi conto che era gente assai pericolosa (a erin bandîts) e sono scappati subito, senza tirare un colpo. Ad Avasinis erano scesi dalla montagna anche parecchi altri partigiani che non conoscevo: abbiamo deciso di circondare il paese, di fare una specie di frontiera per bloccare l’avanzata tedesca, se avessero deciso di venire avanti.

Al mattino c’era tutta una confusione, con partigiani che giravano da tutte le parti. Si sentivano colpi di mortaio ed ho sentito che era già stato ferito Pizzato. Il comandante Furlan mi ha dato un nastro da cartucciera da portare al poveretto che se ne stava da solo sul Col del Sole a sparare. Lo ho raggiunto e quello mi ha detto sconsolato di non poter fare nulla, sia per i colpi di mortaio sia perché le SS avanzavano in basso protette dalle arcate del ponte. Dal Col del Sole vedevamo queste SS, in divisa grigioverde, avanzare a piedi, nascosti dietro le pile del ponte. Il partigiano alla mitragliatrice diceva che non poteva fare fuoco continuo, perché entrava sovente in azione il mortaio.
Abbiamo cambiato il nastro ma la mitragliatrice si è inceppata, non abbiamo sparato neanche un colpo. Nemmeno un quarto d’ora dopo è passata una squadra, parlavano in tedesco. Li abbiamo visti scendere mentre dall’altra parte della montagna i partigiani salivano. Una mezzoretta dopo siamo scesi, raggiunti i partigiani e c’è stata anche qualche polemica su chi avesse dovuto sparare e perché non era stato dato l’allarme alla popolazione. Non si capisce comunque perché gli SS si siano comportati con tanta ferocia, non c’era alcuna ragione di rappresaglia…» (Intervista a Roberto Bellina, Due, a cura di Pieri Stefanutti e Walter Rodaro, 2005, in: https://blog.libero.it/2diMaj/1846631.html). Per la verità l’intervista è più lunga e dice anche altro, forse ora è inserita, parzialmente, in un film, che ha diritti riservati.

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E per ora mi fermo qui, ricordando quanto si sia coperta la responsabilità osovana per quanto accadde ad Ovaro, della cui strage fu accusato per anni il povero Elio Martinis, garibaldino, combattente ma innocente. Infatti furono gli osovani ad accendere la miccia che provocò la distruzione della caserma di Chialina. Non solo: per anni su è parlato delel due giornate di Ovaro, ma essa fu una sola. Inoltre nessuno si è dato la pena, ritenendolo fatto legato unicamente all’ossessione antipartigiana, di sapere perché, come mi narrava Romano Marchetti, quando egli ed altri partigiani si recavano ad Avasinis per la commemorazione della strage, venissero mal accolti.

Infine, a mio avviso, le rappresaglie contro la popolazione per fatti di guerra o attentati causati da ‘ribelli’ o le stragi e gli incendi nel contesto della ricerca degli stessi, ha la sua origine nella metodologia usata, qui come là, dal colonialismo europeo, spesso grande dimenticato, e non presenta caratteristiche di novità.  Pensiamo solo a cosa hanno fatto gli italiani in A.O.I. ma anche prima e poi, francesi, inglesi, spagnoli, portoghesi ecc. nelle loro colonie.

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il monumento memoriale della strage sito ad Avasinis, Avasinis, ed è tratta da: http://cjalcor.blogspot.it/2014/05/il-programma-della-commemorazione-del-2.html.

Laura Matelda Puppini