Portatrici carniche fra realtà e discutibili ‘rievocazioni’ nel mondo virtuale.
Sento parlare di una mitizzazione delle portatrici carniche, con giovani donne che le rappresentano in abiti tradizionali e che si uniscono, anche cantando, alle feste alpine. E leggo del progetto del Museo della Grande Guerra di Timau “Incontrare le Portatrici Carniche tra musica e storytelling” unito alla inaugurazione di “La Via degli Scarpez”, che, per la prima volta permetterà di «vivere un’esperienza immersiva accompagnati dalla voce narrante di una portatrice immaginaria, che trasformerà la grande Storia in un racconto da scoprire camminando ed emozionandosi tra luoghi fisici, come Timau e Cleulis, e altri digitali come quiz e immagini storiche fruibili da smartphone». (Nasce la “La via degli Scarpez”, tra musica e storytelling, in: https://www.studionord.news/).
Ma vorrei proprio sapere, in una situazione di miseria nera, dove le portatrici salivano cariche al posto dei muli per denaro (e per fortuna che potevano guadagnare qualche centesimo) cosa potevano pensare andando verso il fronte se non “speriamo che me la cavo” o nulla, stremate dalla fatica. Perché almeno le donne carniche, quando andavano a far fieno in montagna o legna, salivano vuote e scendevano piene, ma per le portatrici nella grande guerra accadeva il contrario. E chi sale carico non può cantare, non può parlare, se non vuole perdere del tutto il fiato. Insomma dico io, non “buttiamo tutto in stajare”, per cortesia.
Per cosa indossassero ai piedi le donne salendo le montagne, ricordo che la ‘gnà’ Emma ci narrava che, da giovanette, ai piedi indossavano «‘garbèdas’ ‘garbedatàs’ e ‘galogjas’, zoccoli di legno e niente di più» ((https://www.nonsolocarnia.info/alido-candido-laura-matelda-puppini-intervista-a-gna-emma-in-che-volto-a-rigulat-prima-parte/). E portavano ’scarpets’ fatti con gli stracci solo quando riuscivano a farseli da sole. Inoltre ha raccontato a me e mio marito che nel 1915 era venuta la guerra, e poi l’invasione austriaca, «e non c’erano vestiti di nessun tipo, né da fare né da comperare, e non c’era niente. Ed eravamo andate su, in ‘Sedos’ […], sui monti abbandonati dai militari in ritirata, per cercare qualche coperta lasciata dai soldati per portarla a casa ed utilizzarla per fare qualche vestito. Insomma, pensate come vivevamo: andavamo a cercare le coperte dimenticate per poi lavarle e trarne vestiti, con cui andare a far legna ed andare a fare la sfilata a Messa!». (https://www.nonsolocarnia.info/alido-candido-laura-matelda-puppini-intervista-a-gna-emma-in-che-volto-a-rigulat-prima-parte/). Ed in effetti, guardando le due foto d’epoca che qui pubblico, ci si rende conto che le donne indossavano di tutto e si coprivano anche i piedi come potevano e che utilizzavano gli zoccoli di legno. E non bisogna dimenticare che le portatrici vivevano in un contesto di miseria e di fame.
Inoltre, a mio avviso, progetti come quello proposto ora dal Museo della Grande Guerra di Timau mitizzano ma non portano vera conoscenza neppure su cosa sia vivere in una guerra non virtuale ma reale, non mostrano il dolore di queste donne, prese ora quasi come simbolo glorificatore della guerra insieme ai soldati, che però quella guerra di espansione “per Trento e Trieste” e non difensiva, non volevano proprio combatterla. E, come ogni guerra, anche la prima guerra mondiale interruppe affetti, creò lontananze, pericolo e rischio per la propria vita, orrore e terrore in tutti, profuganza, perdita di beni ed un lungo strascico che portò al fascismo.
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Non dobbiamo poi dimenticare che la prima guerra mondiale fece centinaia di migliaia di morti militari italiani (da 558.000 a 709.000 in: https://www.uniud.it/it/ricerca/divulgazione-scientifica/raccontare-la-scienza/parliamo-di/bottega-del-sapere-201cquanti-soldati-italiani-morirono-nella-prima-guerra-mondiale-anatomia-di-un2019inutile-strage201d-fornasin). E coloro che ne uscirono vivi, lo fecero con molte piaghe nel fisico, nel cuore e nell’anima. E lo dico da nipote del colonnello degli Alpini Emidio Plozzer, decorato per la grande guerra e rimasto pure ferito nel corso della stessa, che mai raccontava quello che aveva visto e vissuto allora, e che cantava spesso, a bassa voce, “Il Capitano della compagnia”, canzone militare di morte e non di vita.
Spiace quindi invero che tutto finisca, almeno pare, in una specie di saga paesana, quando invece la storia reale di certi accadimenti dovrebbe fare riflettere e le portatrici dovrebbero venir ricordate con rispetto, come donne sfruttate che furono inserite in un contesto di guerra come lavoratrici, per guadagnare qualcosa e far giungere armi, munizioni e altro sul fronte, potendo forse così racimolare qualcosa per mangiare un po’ di polenta e forse una scheggia di formaggio. Ricordo inoltre che queste giovani non potevano tenere quanto guadagnavano, che era ben poco, se era presente il marito od il padre se nubili, ma veniva dato all’uomo di famiglia. E non so chi si sia inventato di definirle “Trogarin dell’Alta Carnia” o “Angeli al Fronte” (Al Museo Carnico la presentazione del libro di Marika Brun “Le ragazze con la gerla”, in https://www.studionord.news/, 24 luglio 2025). Inoltre non so da dove salti fuori il termine “trogarin” e cosa voglia dire ma forse dal timavese, però le portatrici non erano mica tutte di Timau. Non solo: ‘Trougar’ da che io so in saurano significa fontana, ‘trog’ in tedesco madia ma anche trogolo.
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Io, per raccontare la prima guerra mondiale vista dalla parte della gente e dei soldati e di chi, ragazzo o ragazza, uomo o donna, lavorò intorno alla stessa, pubblicai il mio: “O Gorizia tu sei maledetta. Noterelle su cosa comportò per l7a popolazione della Carnia, e non solo, la Prima Guerra Mondiale, detta “la Grande Guerra”, Andrea Moro ed. 2016. E approfitto qui per ricordare Andrea Moro, recentemente scomparso, che permise la versione cartacea del lavoro. Che possa riposare in pace e grazie ancora.
Ma voglio qui pure ricordare che la mitizzazione della grande guerra avvenne all’ interno della mistica fascista, cambiando le carte in tavola e tentando di far digerire le centinaia di migliaia di soldati italiani morti nel conflitto, oltre quelli usciti feriti mutilati od impazziti, e la desolazione e disoccupazione successiva. Così venne ribadito quel concetto di ‘eroi per la Patria’ e per la difesa del territorio nazionale che poco si confaceva ad una guerra espansionistica, e fiorirono come funghi i monumenti celebrativi con l’elenco dei caduti, che però secondo me non devono venir dimenticati, perchè sono un ‘memento’ per sposare la pace e non certo la guerra. E ora il fascismo non c’è più.
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Mi dispiace poi aver sentito, che la presentazione del volume di Marika Blum “Le ragazze con la gerla” al Museo Carnico Gortani di Tolmezzo, avvenuta il 25 luglio 2025, è stata utilizzata malamente e impropriamente per un attacco personale al consigliere regionale dott. Massimo Mentil ex- sindaco di Paluzza, assente all’incontro. Infatti mi è stato riportato che un signore, (nome e cognome noto), con un aggancio da volo pindarico, ha fatto un intervento in cui ha detto che proprio uno con il cognome della povera portatrice Maria Plozner Mentil, quando era Sindaco di Paluzza, aveva fatto demolire una parte della caserma dedicata a lei invece di salvarla, pare quindi offendendone la memoria, ma per fortuna poi le è stato dedicato il “Comprensorio Militare del Comina”, alla presenza di Isabella Rauti, senatrice e figlia del notissimo esponente di destra Pino Rauti. (ww.difesa.it/il-ministro/sottosegretari/isabella-rauti/notizie/intitolazione-a-maria-plozner-mentil-comprensorio-militare-la-comina/66727.html).
Però non si capisce cosa leghi donne che portavano armi per avere qualcosa per vincere l’inedia, come per l’appunto fu Maria Plozner Mentil, con 4 figli da sfamare e il marito al fronte, che fu colpita perché si fermò a riposare nel posto sbagliato nel momento sbagliato, ad uno spazio militare di ultima generazione come quello detto ‘La Comina’ sito in San Quintino (Pn). E poi le portatrici carniche non erano ausiliarie volontarie come le crocerossine, ma femmine al lavoro coatto in un certo senso, per portare a casa qualcosa per sé stesse e la famiglia.
Ricordo inoltre che il comprensorio della ex- caserma in Paluzza è ancora dedicato a Maria Plozner Mentil, e vi si svolgono incontri culturali ed attività pacifiche interessanti, e che la dismissione di alcune caserme è stata programmata dal Ministero della Difesa nel quadro di una riorganizzazione in senso moderno dell’Esercito Italiano. Quindi lo stesso Ministero, qualche anno fa, ha passato le caserme dismesse ai comuni. Ed il dott. Massimo Mentil, da me interrogato in proposito un paio di giorni fa, mi ha detto che fu avvisato allora dall’Anas che le due palazzine poi demolite dovevano essere messe in sicurezza perché rappresentavano un pericolo per la statale 52 bis. Ma per salvarle servivano 5 milioni di euro che il comune non aveva, mentre riuscì ad ottenere un contributo per la demolizione dei due edifici pericolanti. Naturalmente se sono stata mal informata su quanto accaduto il 25 luglio 2025 a Tolmezzo, per cortesia scrivetemelo.
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La foto più famosa delle portatrici carniche, scattata nell’ottobre 1915 dal sergente Bendandi (forse) Tullo, 14° Battaglione 2° Reggimento (incomprensibile poi). (Da: https://it.wikipedia.org/wiki/Portatrici_carniche. Uso gratuito e possibile).
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CHI FURONO REALMENTE LE PORTATRICI CARNICHE.
Per ritornare all’argomento delle portatrici carniche, bisogna ricordare che intorno ad ogni guerra fiorisce e fioriva un mercato del lavoro: i proiettili devono venir costruiti, spediti, devono raggiungere il fronte da cui essere sparati: così nella prima guerra mondiale, con i mezzi presenti e con le forze in campo. E la Carnia, non dimentichiamolo, era allora caratterizzata da una fame tremenda, data dal rientro, senza salario e senza speranza, degli emigranti che non potevano più lavorare in Austria e Germania fin dal 1914, e poi essendo stata dichiarata guerra dall’Italia agli imperi centrali il 24 maggio 1915, mentre i giovani andavano a rimpinguare le file dei fanti, degli alpini, degli altri corpi della Forze Armate prote per il fronte. Né si può dimenticare l’invasione austriaca del Friuli dopo la rotta di Caporetto, i profughi che partivano e le famiglie che restavano, i saccheggi e i problemi dati poi, nel marzo 1918, dal fatto che il generale austriaco Von Below ordinò ai comuni di stilare un elenco degli uomini dai 15 ai 60 anni e delle donne dai 16 ai 50 anni con esperienza in lavori agricoli e di lavoro pregresso nelle fabbriche del territorio per poterli utilizzare in lavoro bellico, ma «Poteva accadere […] che i singoli cittadini e le amministrazioni comunali non rispondessero agli appelli, con il risultato che le gendarmerie facevano irruzione nei paesi e nelle case, sequestrando persone apparentemente abili al lavoro, ragazze e fanciulli». (Per il rientro degli emigranti, cfr. Laura Matelda Puppini, O Gorizia tu sei maledetta, op. cit. p. 9-14. Per cosa accadde nel 2018, ivi, p. 26). Queste quindi erano le condizioni di vita, di miseria e di fame in tempo bellico.
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«Nel corso della prima guerra mondiale, giovani e giovanissimi friulani e veneti ma anche pugliesi, calabresi, campani accorsero in massa a cercare lavoro nelle zone di guerra. La fame era grande e chi poteva cercava di occuparsi a qualsiasi condizione. E così le donne carniche andarono a fare le portatrici per il Regio Esercito Italiano invece che per i parenti ed il marito, sobbarcandosi ulteriori fatiche e rischi.
E perde la vita Maria Plozner Mentil, sposa, e con il marito a combattere sul Carso, nonché madre di quattro figli da sfamare, colpita dal fuoco nemico sulla via per malga Promosio, mentre si è fermata per riposare; e si arrampicarono sulle montagne con la gerla pesantissima: Rosalìa di Cleulis che era con Maria quando morì, Alberilla Rupil di Prato Carnico, Virgilia Mazzilis di Tualis, Acerina Durighello di Paularo, Irma Casanova di Ravascletto, giovanissima, Caterina Zozzoli pure di Paularo, e tante altre.
«Caterina Zozzoli ricorda di essersi presentata presso l’Ufficio della Sussistenza di Paularo […] sostenendo: ho forza, so portare la gerla, porto anche pesi», Alberilla Rupil racconta: «Sulla schiena avevo un gran peso, 30, 50 chili. Bisognava riposare ogni tanto. Nei boschi, quando portavamo su tavole di legno, queste ci sbattevano negli alberi e nei rami. Le strade erano brutte, bisognava stare attenti a non scivolare se il terreno non era asciutto».
«D’ inverno andavamo su nonostante la grande quantità di neve – narra Irma Casanova – La strada era impervia e pericolosa […].» e racconta, pure, che ha iniziato a lavorare a 14 anni, come portatrice. «Quando siamo andate a lavorare per i militari eravamo in tre sorelle. Io avevo 14 anni le altre 12 e 13 anni di età. Il peso del materiale ci faceva morire; la salita per le cime Taront, Pezzeit, Crostis era durissima. […]. Portavamo carta catramata, damigiane di vino, tutto quello che serviva ai militari […]. Andavamo su insieme in 8- 10 ragazze […]. A Ravascletto c’erano tantissime giovani che lavoravano per i militari e c’era anche qualche madre di famiglia.
Eravamo tutte donne. Fra noi ragazze ci si aiutava, tutte dovevano arrivare in cima … una fatica da morire. (…). Le ragazze più stanche non potevano tornare indietro, dovevamo andare avanti fino a che non si concludeva il trasporto. (…) Prendevamo bei soldi, 5 centesimi quella volta erano qualcosa!» E prosegue dicendo che, giunte in cima con il carico, dopo 4 o 5 ore di cammino, «i soldati ci sgridavano, controllavano, facevano i pignoli, ci giudicavano, ci osservavano, chi aveva il fisico forte, chi era incerta e gracile… e poi controllavano i materiali per verificare se tutto il materiale arrivava a destinazione. Le ragazze lavoravano guidate, da un uomo, il capo». Ed al controllo militare si univa l’ancor più temuto controllo parentale.
Donne vennero impiegate anche in lavori rischiosi, a causa della mancanza di manodopera maschile. Virgilia Mazzilis ricorda che facevano le portatrici di ghiaia che sarebbe servita per l’allargamento della strada, troppo stretta per far passare le artiglierie; maestranze femminili vennero impiegate come boscaiole, conduttrici di carri, nelle segherie, nella costruzione di strade, ed anche come artificieri nel taglio della roccia per la costruzione di strade, mulattiere, camminamenti.
«Nel corso del 1917 aumentarono notevolmente i reclutamenti di manodopera femminile: se nel dicembre del 1916 le donne e le ragazze arruolate dal Segretariato Generale presso la Zona Carnia erano 1.192, durante l’estate del 1917 superarono le 4.000 unità, costituendo quasi la metà delle maestranze femminili impiegate su tutto il fronte.»
Inoltre nei cantieri, sia per gli uomini che per le donne, mancavano pagliericci e tende, le condizioni igieniche erano precarie, vi erano gravi rischi di epidemie. E si lavorava con ogni condizione climatica: sotto la pioggia, le tormente di neve, esposti al vento ed a temperature ben sotto lo zero, con il pericolo di congelamento o di finire sotto una valanga od in un burrone o di morire, come accadde al povero quindicenne Giacomo Puntel, operaio di Paluzza, colpito al cranio da una pallottola di fucile.
«Non è improprio affermare – scrive Matteo Ermacora – che questo impiego si risolse in un fenomeno di sfruttamento di ampie dimensioni, giustificato da una parte dalle esigenze belliche e dall’altra dalla necessità delle maestranze di percepire un salario di sussistenza che comunque risultava inadeguato al crescente costo della vita».
Ma bambini e bambine, ragazzetti e ragazzette lavorarono anche a fianco di madri, parenti, zie nelle retrovie andando a ritirare la biancheria da lavare, ramazzando le stanze degli ufficiali, rammendando e facendo mille piccoli servigi». (Laura Matelda Puppini, O Gorizia tu sei maledetta. Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia e non solo, la Prima Guerra mondiale, detta “La grande guerra”, Andrea Moro ed., Tolmezzo, 2016, pp. 80-82).
Vittorio Molinari. Donne che fanno presumibilmente trasporto di materiali e quindi portatrici. Forse 1916. (Particolare dalla foto pubblicata in. “Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne Culture, 2007, p. 42).
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Esiste poi online il volumetto di Allerino Delli Zotti “Portatrici e portatori” di Paluzza – Cleulis – Timau sul fronte carnico “Alto But” durante la prima guerra 1915 -1918, in: https://www.taicinvriaul.org/timau/pdf/libri/memorie-ricordi.pdf ove si legge che per due anni le portatrici ed i portatori sostituirono i muli. I carichi venivano elencati sul libretto di servizio, controllati nei punti d’ arrivo in trincea o nelle prossimità di esse, da parte di ufficiali e sottufficiali che apponevano una firma nello spazio apposito del libretto stesso. Il servizio consisteva pure nel trasporto al ritorno di indumenti da lavare o da disinfettare, lavori che venivano eseguiti direttamente dalle “Portatrici” salvo la disinfezione. (Ivi, p. 5).
E «Nell’inverno continuarono le donne a portar viveri e munizioni fino agli avamposti, in tutte le ore notturne sotto ogni inclemenza di tempo, sotto fitta pioggia di proiettili nemici; perché le salmerie non potevano avanzare causa la molta neve caduta e le batterie erano ancora sprovviste di teleferica. Ed altrettanto facevano le donne ed i ragazzi del vicino Cleulis per le batterie del Monte Terzo (chiamato dai soldati austriaci il diavolo infuocato) e del Monte Faas e Lavareit. (Ivi, p.6-7). Quindi si sa da questo testo che durante il lavoro caddero alcuni giovani, ma anche che «Riportarono ferite d’arma da fuoco in prossimità delle trincee le “Portatrici “Maria Silverio maritata Matiz; Maria Muser maritata Olivotto; Rosalia Primus maritata Prodorutti; Morassi Ida ferita nel comune di Cercivento maritata Barbacetto. (Ivi, p. 7-8).
Ed ancora l’autore del libretto ricorda, riprendendo dall’opera di Giuseppe Del Bianco, senza però citare il volume, che «oltre 150 donne, vecchi e bambini si accomunarono con le milizie e non solamente nelle retrovie e nei momenti eccezionali fino a 200, portarono quotidianamente munIzioni ai posti di “Promosio “, al “Pal“, alla “Cima Avostanis“, alla “Creta”; oltre 80 ne fornì la piccola frazione di Cleulis per il “Monte Terzo“ e il “Lavareit“, ed altre ancora in numero non minore di 50 Cercivento per il “Cimone“ ed il “Corvo“. E come a Paluzza, anche a Paularo le donne portarono munizioni fino alla linea del fuoco, ed i vecchi ed i giovanetti raggiunsero più volte le trincee, quando non vi erano muli sufficienti per la Corvèe». (Ivi, pp. 9- 11).
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Per quanto riguarda il tirare su pezzi di artiglieria nel paularino, nel corso della prima guerra mondiale, ricordo la mia intervista a Giacomo Solero di Paularo, pubblicata su www.nonsolocarnia.info con titolo: Storie paularine e carniche, da Giacomo Solero, detto Jacum l’infermîr.
In: https://it.wikipedia.org/wiki/Portatrici_carniche vi è un elenco del numero di portatrici nel corso della prima guerra mondiale in alcuni comuni della Carnia e Canal del Ferro: Arta Terme 84, Cercivento 65, Chiusaforte: 32, Comeglians: 46, Dogna: 1, Enemonzo: 5, Forni Avoltri: 77, Forni di Sotto: 3, Lauco: 1, Ligosullo: 28, Moggio Udinese: 82, Ovaro: 97, Paluzza: 223, Paularo: 229, Pontebba: 50, Prato Carnico: 57, Ravascletto: 60, Raveo: 1, Resia: 5, Rigolato: 153, Sappada: 19, Sutrio: 43, Trasaghis: 1, Tolmezzo: 24, Treppo Carnico: 64, Venzone: 2, Zuglio: 2, per un totale di 1454 portatrici.
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Ricordo in chiusura che il primo che cercò di far avere un riconoscimento alle portatrici carniche fu Tranquillo De Caneva, noto partigiano ed esponente del P.C.I., originario di Trava di Lauco, che scrisse nel merito anche un libello intitolato: “Per la concessione dei riconoscimenti previsti dalla legge 18 marzo 1968 n. 263 alle “portatrici carniche” di Paluzza, Timau e Cleulis, partecipanti alla guerra 1915 – 1918, Udine, 1969. Ma per carità, non menzioniamolo neppure: era comunista!
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Per cercare di far chiarezza sull’argomento e per rendere onore ad una categoria di reali lavoratrici sfruttate questo ho scritto, senza voler offendere alcuno.
P.S. agosto 2025.
Per chiarire alcune cose preciso che con la guerra il mercato del lavoro in Italia era cambiato ed ad un certo punto la Nazione sentì l’esigenza di regolamentare le nuove forze lavoro che ruotavano intorno alla guerra. Così nell’ ottobre 1915 il Comando Superiore dell’Esercito Italiano decise di affidare la gestione di operai e lavoratori per lui al Segretariato Generale per gli Affari Civili. E «questo ebbe il compito di reclutare la manodopera su scala nazionale con l’aiuto di Comuni e Prefetture […]. (…). Il Segretariato Generale faceva da tramite fra le richieste di manodopera del Genio Militare da un lato e la Prefettura ed i Comuni dall’altro, a cui spettava l’onere della selezione». (Laura Matelda Puppini, O Gorizia tu sei maledetta, op. cit., p. 77). Ma forse anche in Carnia, come era possibile, avvenne un utilizzo lavorativo con assunzione senza contratto e senza mediazioni, di personale anche minore, che poteva avere pure meno di 14 anni in quanto la prima legge italiana che regola il lavoro minorile risale al 1919». (Ivi, p. 80). Inoltre, a domanda fattami, rispondo che io non ho trovato citati casi di abusi sessuali su portatrici carniche da parte di militari, e che il lavoro di queste come di ragazzetti alemno carnci, era controllato da adulti di famiglia.
Laura Matelda Puppini
https://www.nonsolocarnia.info/portatrici-carniche-fra-realta-e-discutibili-rievocazioni-nel-mondo-virtuale/https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2025/07/Timau-portatrici.jpg?fit=400%2C570&ssl=1https://i0.wp.com/www.nonsolocarnia.info/wordpress/wp-content/uploads/2025/07/Timau-portatrici.jpg?resize=150%2C150&ssl=1ETICA, RELIGIONI, SOCIETÀSTORIASento parlare di una mitizzazione delle portatrici carniche, con giovani donne che le rappresentano in abiti tradizionali e che si uniscono, anche cantando, alle feste alpine. E leggo del progetto del Museo della Grande Guerra di Timau “Incontrare le Portatrici Carniche tra musica e storytelling” unito alla inaugurazione di...Laura Matelda PuppiniLaura Matelda Puppinilauramatelda@libero.itAdministratorLaura Matelda Puppini, è nata ad Udine il 23 agosto 1951. Dopo aver frequentato il liceo scientifico statale a Tolmezzo, ove anche ora risiede, si è laureata, nel 1975, in filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trieste con 110/110 e quindi ha acquisito, come privatista, la maturità magistrale. E’ coautrice di "AA.VV. La Carnia di Antonelli, Centro Editoriale Friulano, 1980", ed autrice di "Carnia: Analisi di alcuni aspetti demografici negli ultimi anni, in: La Carnia, quaderno di pianificazione urbanistica ed architettonica del territorio alpino, Del Bianco 1975", di "Cooperare per vivere, Vittorio Cella e le cooperative carniche, 1906- 1938, Gli Ultimi, 1988", ha curato l’archivio Vittorio Molinari pubblicando" Vittorio Molinari, commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi, Cjargne culture, 2007", ha curato "Romano Marchetti, Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, ed. ifsml, Kappa vu, ed, 2013" e pubblicato: “Rinaldo Cioni – Ciro Nigris: Caro amico ti scrivo… Il carteggio fra il direttore della miniera di Cludinico, personaggio di spicco della Divisione Osoppo Carnia, ed il Capo di Stato Maggiore della Divisione Garibaldi Carnia, 1944-1945, in Storia Contemporanea in Friuli, n.44, 2014". E' pure autrice di "O Gorizia tu sei maledetta … Noterelle su cosa comportò per la popolazione della Carnia, la prima guerra mondiale, detta “la grande guerra”", prima ed. online 2014, edizione cartacea riveduta, A. Moro ed., 2016. Inoltre ha scritto e pubblicato, assieme al fratello Marco, alcuni articoli sempre di argomento storico, ed altri da sola per il periodico Nort. Durante la sua esperienza lavorativa, si è interessata, come psicopedagogista, di problemi legati alla didattica nella scuola dell’infanzia e primaria, e ha svolto, pure, attività di promozione della lettura, e di divulgazione di argomenti di carattere storico presso l’isis F. Solari di Tolmezzo. Ha operato come educatrice presso il Villaggio del Fanciullo di Opicina (Ts) ed in ambito culturale come membro del gruppo “Gli Ultimi”. Ha studiato storia e metodologia della ricerca storica avendo come docenti: Paolo Cammarosano, Giovanni Miccoli, Teodoro Sala.Non solo Carnia

Della (Comina). Femminile, trattasi di brughiera (appunto, femminile) a nord di Pordenone.
Come riportato oggi in fondo all’articolo dopo aver parlato con una persona, riprendo anche qui il ‘post scriptum’. Per chiarire alcune cose preciso che con la guerra il mercato del lavoro in Italia era cambiato ed ad un certo punto la Nazione sentì l’esigenza di regolamentare le nuove forze lavoro che ruotavano intorno alla guerra. Così, nell’ottobre 1915, il Comando Superiore dell’Esercito Italiano decise di affidare la gestione di operai e lavoratori per lui al Segretariato Generale per gli Affari Civili. E «questo ebbe il compito di reclutare la manodopera su scala nazionale con l’aiuto di Comuni e Prefetture […]. (…). Il Segretariato Generale faceva da tramite fra le richieste di manodopera del Genio Militare da un lato e la Prefettura ed i Comuni dall’altro, a cui spettava l’onere della selezione». (Laura Matelda Puppini, O Gorizia tu sei maledetta, op. cit., p. 77). Ma forse anche in Carnia, come era possibile, avvenne un utilizzo lavorativo con assunzione senza contratto e senza mediazioni, di personale anche minore, che poteva avere pure meno di 14 anni in quanto la prima legge italiana che regola il lavoro minorile risale al 1919». (Ivi, p. 80). Inoltre a domanda fattami rispondo che io non ho trovato citati casi di abusi sessuali su portatrici carniche da parte di militari, e che il lavoro di queste, come di ragazzetti almeno carnici era controllato da adulti di famiglia.