«Il viadotto sul Polcevera non ce l’ha fatta più ed è crollato miseramente sotto il peso di ignobili complicità, vittima di un male incurabile e dei postumi di Tangentopoli. Ne danno il ferale annuncio frotte di giornalisti e di politici diventati d’un tratto loquaci e pronti a scagliarsi contro il progettista.

Quando un aereo precipita, prima ancora di accertarne le cause e soprattutto le mancate manutenzioni, è prassi comune addebitare ogni colpa al pilota, il quale per essere deceduto, non potrà mai smentire i suoi detrattori. Ebbene è accaduto anche dopo il crollo del viadotto sul Polcevera cui hanno subito affibbiato il nome del suo progettista. Si sono tuffati in tanti sulla tragedia ed uno in particolare ha voluto far sapere ai microfoni di una rete televisiva nazionale di essergli stato allievo e ciò nonostante di aver sempre obiettato sui criteri impostativi dell’opera.
Nulla di più falso, visto che […] avrebbe dovuto dirlo a tempo debito visto che ne avrebbe avuto tutte le possibilità e l’autorità per farlo. Invece di parlare a beneficio di talune reti televisive che ci sguazzano come i vermi nella merda, lo sciacallo ha trascorso la sua vita incistato nella tangentopoli degli appalti come membro permanente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e come capo bastone di una struttura statale i cui membri, anziché vigilare sulla qualità delle opere pubbliche, si spartivano le relative progettazioni e i relativi introiti a suon di ricatti e di colpi bassi.

Ne seppe qualcosa il compianto Willer Bordon nel momento in cui, diventato ministro per le opere pubbliche, su mia istigazione volle fare piazza pulita di quel verminaio e invece ne venne travolto.

Ma andiamo per ordine. Il viadotto sul Polcevera venne costruito in una fase storica seguita a quella della pionieristica Autostrada del Sole, allorquando si vollero realizzare opere d’arte a dir poco ardite e purtroppo ben poco adeguate alle ingiurie del tempo, al decadimento del calcestruzzo, al costante aumento dei carichi stradali ed alle attività manutentorie.
La costruzione del grande viadotto del Polcevera fu quindi affidata alla società Condotte d’Acqua di proprietà del Vaticano e della Bastogi che lo portò a termine nel 1967 in accordo con un modello realizzativo a dir poco geniale per essere basato sull’impiego del calcestruzzo precompresso e di una cantierizzazione che si originava e si completava in modo autonomo a partire da ogni singola pila fatta a forma di cavalletto rovesciato e bilanciato.

Il teorico e l’ideatore di tale modello, già peraltro pienamente collaudato in importanti opere in Italia e all’estero, fu per l’appunto il professor Riccardo Morandi. A vincere le non poche ritrosie rispetto ad una struttura metallica, giovarono non poco le sollecitazioni del potente cartello dei cementieri, cosicché gli ultimi dubbi furono rimossi dopo la realizzazione di un ponte in scala ridotta realizzato lungo un’ansa del fiume Tevere. Un ponte strallato che fa ancora bella mostra di se sulla statale che porta all’aeroporto di Fiumicino: non necessario, ma utile se non altro a mettere a fuoco le fasi e i problemi costruttivi del Polcevera.

All’epoca nessuno mise in luce le perplessità legate agli effetti di lungo termine capaci di far decadere la resistenza del calcestruzzo, né seppero superare il dilemma legato agli stralli. Questi, che in origine avrebbero dovuto essere delle vere e proprie travi precompresse, per l’eccessivo peso che ne sarebbe derivato, furono resi ben più esili, ma tali da permettere una precompressione solo parziale e quindi assai meno efficace.

I nodi non tardarono a venire al pettine e da subito prevalse la consegna del silenzio, tanto più dal momento in cui Condotte passò attraverso le abili mani di Michele Sindona a quelle del gruppo IRI-Italstat. Eravamo nella fase embrionale di tangentopoli e sotto la regia della P2 a capo di Condotte arrivò il piduista Loris Corbi e da quel momento nulla fu in grado di raddrizzare le sorti di un paese allo sbando e privo di antidoti.

Tanto per spiegare il clima che si respirava nelle camere del potere a metà degli anni settanta, capitò che la mia società fosse convocata per una riunione da tenersi in piena estate nella sede romana di Condotte. Mandarono me che per essere un pischello senza esperienza, non avevo paura nemmeno del diavolo. Arrivato ai Parioli, salii all’ultimo piano ma non feci a tempo ad essere ammesso nell’anticamera dove era in paziente attesa una dozzina di professori universitari e capitani d’impresa, che un tale mi si parò innanzi e mi accolse con: “Ma lei è mica impazzito?” Prima di capire l’arcano costui tornò alla carica con un: “penserà mica di andare al cospetto del professor Corbi in maniche di camicia?” E seduta stante mandò un usciere a comperare una giacca ed una cravatta nere.
Ebbene restammo tutti in anticamera per quaranta minuti buoni, per essere poi frettolosamente accolti dal Dio in terra in un qualcosa che ebbe tutta l’aria di essere semplicemente una plateale attestazione di sudditanza.

Passarono gli anni ma non passò la sudditanza degli Italiani e con essa la corruzione galoppante che consentiva di truccare tutte le gare di appalto delle autostrade, finché Bernabei, padre padrone dell’Italstat e della Rai, pensò bene di mettere a capo della società Autostrade un uomo di fiducia che ne capisse di opere pubbliche e che da buon democristiano fosse in grado di contenere la voracità delle imprese legate al carro socialista.

Eravamo alla metà degli anni ottanta e a quel punto fui destinato ad assistere il nuovo corso con una funzione di supervisore dei lavori e dei nuovi progetti, messo alle dirette dipendenze del nuovo Amministratore Delegato. Fra le tante incombenze fu decisiva la presa d’atto che molte delle opere d’arte frettolosamente costruite in passato erano in precarie condizioni e non più in grado di essere manutenute se non a costo di dover interrompere il traffico, quindi di incidere sulla stessa attività economica del Paese.

Fu deciso seduta stante di creare la variante di valico della Firenze Bologna e, analogamente, la variante di Genova. Intanto il viadotto del Polcevera succhiava un sacco di soldi per far fronte ai cedimenti differenziali e quindi al faticoso riallineamento degli impalcati.
In decenni di delittuoso immobilismo nulla era cambiato, se non il pericoloso aumento dei carichi in transito: arrivò quindi il momento di agire. Rimaneva il problema degli stralli che potevano cedere da un momento all’altro, anche perché nulla si sapeva del reale stato dei tiranti
di acciaio immersi negli stralli, ovvero dei fenomeni di corrosione dovuti alla precaria consistenza delle guaine di protezione risalenti all’epoca della costruzione.

In quel mentre la società Italstrade continuava ad agire con costose, quanto epidermiche manutenzioni, quando era chiaro che l’unica cosa da doversi fare era la drastica sostituzione di tutti gli stralli con fasci di nuovi tiranti. La progettazione del by-pass genovese fu terminata in tempi assai brevi, nonostante la complessa morfologia dei luoghi e la caotica urbanizzazione collinare. In tal modo la realizzazione della bretella si sarebbe potuta completare entro gli anni ottanta e intanto si pensò di liberalizzare il tratto bypassato, per lasciarlo alla fruizione libera (senza pedaggio) dei veicoli leggeri e quindi alla possibilità di un più agevole intervento di messa in sicurezza degli stralli del Polcevera.

E il prof Morandi? Il galantuomo voleva essere della partita. Per tenerlo a bada fu messo a capo di una società di progettazione (sempre dell’IRIItalstat) incaricata di realizzare il progetto della nuova tratta autostradale del Lago Maggiore. Ebbene, negli incontri preliminari egli mi riservò un particolare ed affettuoso riguardo, al punto di darmi in dono lo schizzo di uno dei suoi famosi viadotti. Ma al momento della presentazione del progetto il nostro idillio ebbe termine. Io, ligio ai miei doveri, avevo terminato l’istruttoria condensandola in un volumetto di una cinquantina di pagine, ivi comprese le osservazioni del caso ed una motivata critica all’impiego indiscriminato dei viadotti a lui tanto cari: critica legata soprattutto alla sfavorevole morfologia dei luoghi che mal si confaceva con l’inserimento di tali strutture. Fu così che, non abituato al confronto e a scendere dal piedistallo che gli derivava dal clima omertoso creato da tangentopoli, egli se l’ebbe a male al punto di abbandonare la riunione e di togliermi il saluto.

Ma ciò che è peggio è che il direttore tecnico di Autostrade, anziché ringraziarmi per aver fatto gli interessi della Società, gli corse dietro per scusarsi e rinnegare il contenuto delle mie osservazioni. Tutto ciò accadeva quando l’onestà e la professionalità non erano di moda in uno Stato che si era dimesso dalla sua funzione di guardiano delle leggi, del bene comune e della vita dei suoi cittadini. L’Amministratore delegato fu rimosso per lasciare il posto ad uno della banda di Craxi. Io ne seguii la sorte ed oggi posso dire di essere rimasto vittima del crollo che mi hanno impedito di evitare.

 Mi sono rialzato a fatica ma intanto loro avevano continuato a fare mercato delle Concessioni e a regalare la gallina dalle uova d’oro ai Benetton. Risparmiatemi almeno la sorpresa e la retorica di chi ha governato il Paese e di fronte alla immane tragedia ha finto di cadere dal pero, nascondendo le mani insanguinate.

 Tibaldi Aldevis Comitato per la Vita del Friuli Rurale www.facebook.com/comitato.friulirurale – Comunicato stampa 699, 16/8/2018».

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Mi è parso doveroso verso i morti del Polcevera riprendere qui le considerazioni di Tibaldi nel merito, che ci riportano ad un modo di gestire i problemi che non vogliamo più vedere. L’immagine che accompagna l’articolo rappresenta il ponte di Genova dopo il crollo ed è tratta da: https://www.ingenio-web.it/20905-crollo-del-ponte-polcevera-a-rischio-la-parte-di-viadotto-rimasta-in-piedi. Se ci sono problemi per pubblicarla prego avvisare. Laura Matelda Puppini

 

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