NOTA INTRODUTTIVA.

Questa intervista data 23 aprile 1978, e chi parla è Emma Pellegrina in Gussetti, sorella di Elsa, poi maritata Candido, madre di Alido, mio marito, di Elio e di Giacomina Candido. Pertanto quando Emma parla di sua sorella si riferisce ad Elsa, nata nel 1905. Erano presenti all’intervista anche Mirca Gussetti in D’Agaro, figlia di Emma, e Susi D’Agaro, nipote. L’intervista è stata resa in friulano ed è stata tradotta da me, con l’aiuto preziosissimo di Alido. Insomma è una intervista tutta ‘in famiglia’ e ‘gnà’ significa appunto zia. Ho lasciato anche riferimenti a quanto si pensava o si diceva di persone, per far capire quale fosse il mondo in cui si viveva allora, solo ho coperto alcuni nomi, esplicitati però nell’intervista. Laura Matelda Puppini

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GIÀ DA RAGAZZINE SI LAVORAVA ED AD OGNUNA VENIVANO AFFIDATI COMPITI PRECISI.

Alido: «Allora gnà’ Emma, ci vuoi raccontare, come si viveva una volta, tu, che più di me, ne hai passate quattro …»
Emma: «E da dove devo incominciare?»
Laura: «Raccontami, zia, di quando andavate, anche bambine, sui monti, e vi alzavate presto, e raccontami della madre di Alido, che non ho mai conosciuto, di cosa faceva …»

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Emma: «Eravamo bambine, allora, e la giornata incominciava con nonna che ci veniva a chiamare: “Svegliatevi, bambine!”. “Emma, alzati!” E noi eravamo ancora piene di sonno. Per dir la verità però, facevo più fatica ad alzarmi io, di tua madre, e nonna mi doveva chiamare sette od otto volte. Ed io dicevo sempre: “Mi alzo adesso!”, ma poi ritornavo ad addormentarmi. E pensate. Ci alzavamo verso le tre, le quattro del mattino, dipendeva da dove si doveva andare a far fieno, perché si doveva giungere sul luogo quando veniva giorno. Io andavo con mamma, mentre Elsa ci raggiungeva più tardi con la colazione. Ed ero io che dovevo ‘sunalo biel a buinoro!’ (che dovevo alzarmi davvero presto!). E la nostra vita è trascorsa, in gioventù, tra falciare, spandere l’erba falciata e fare i covoni… E quando veniva sera, ci caricavamo di un bel fascio di fieno, e giù a casa, trottando …

E questo era quello che facevamo quando si andava da un prato all’altro correndo, perché se veniva la pioggia … E come se non bastasse, a casa ci attendeva la stalla, prima della cena. Sai Alido, era Elsa, tua madre, che ci preparava la cena. Perché i compiti erano divisi tra noi sorelle: ed Elsa era l’addetta ai servizi familiari, se così si può dire. Elsa lavorava poco in montagna, non falciava e spandeva solo l’erba, e quindi, ben prima di me, ritornava a casa per metter su la cena. E poteva alzarsi dopo di me, raggiungere i prati dopo di me, e ritornare a casa prima di me.  E per tutte era così: quelle che dovevano falciare si alzavano prima, quelle che dovevano raccogliere il fieno con il rastrello poi, ma spesso rientravano anche più tardi, se non dovevano preparare il pasto serale.

Ed allora nessuna aveva tempo per riposare, e, lasciata la falce, si prendeva il rastrello, e se minacciava la pioggia, non ci si fermava neppure per mangiare un boccone. C’era qualcuna che, stremata, faceva un breve sonno, ma proprio breve … E poi giù a trotto, verso casa. Ed Elsa, strada facendo, mentre rientrava, raccoglieva un gerlo di erbe per le mucche, che poi andava ad accudire. Ed infine di corsa allo ‘spolert’ … Almeno noi arrivavamo tardi dai prati, ma trovavamo la cena pronta. E, per esser sincera, lavorava forse più Elsa di me, perché doveva fare tutto di corsa, scendere di corsa, andare alla stalla di corsa, preparare la cena prima che arrivassimo a casa …

E passavamo il nostro tempo, tra metà luglio e la Madonna di agosto, fra prati, montagna, sfalci e ‘mede’. Ma questi non erano i primi lavori che facevamo nel corso dell’anno: il primo era ‘ramondâ’ cioè pulire, nettare prati e campi. Comunque c’era da lavorare tutto l’anno, senza fermarsi.

A questo punto interviene Mirca dicendo che passavano l’inverno (1) facendo legna e, se serviva, spostando fieno da uno stavolo all’altro, mentre in primavera si sbriciolava il letame sulla superficie dei campi, si pulivano i prati, si incominciava a girare la terra ed a seminare. Ed ad un lavoro seguiva l’altro, secondo un calendario definito, e ci si fermava solo per le necessità e quando serviva, per esempio per fare il bucato.
Emma: «Ci si fermava per lavare, nel periodo della fienagione, solo due giorni al mese, e preferibilmente quando pioveva. E, finito il tempo della prima fienagione, cominciava quello dell’’urtigôl’, del secondo taglio del fieno (2).

Vittorio Molinari. Donne addette alla fienagione in posa. Da: archivio Vittorio Molinari.

E, una volta pronto il fieno, lo si doveva portar giù, con le slitte (olgjas), se alla loro portata, e dove le slitte non giungevano, per esempio in ‘Bains’ (3), si doveva portar giù il fieno facendo il fascio. Ed erano fatiche a non finire! Perché i sentieri in montagna non erano allora come sono ora, e erano tutto un su e giù, piccoli piani seguiti da rive, e, dopo cento o duecento metri in piano, dovevi tirar su la slitta e quindi giù, e i pattini della slitta (gjostris), in metallo, si scaldavano talmente che scottavano! Così, perché questo non accadesse, si doveva prendere una cotenna di lardo ed ungerli, altrimenti, sfregando contro tutti quei sassi, si rovinavano. E si giungeva, senza fiato, a valle, ed eravamo scalze. Sì, proprio scalze! Perché andavamo senza scarpe in montagna, ed avevamo le dita dei piedi piene di botte prese lavorando, ed avevamo i talloni sempre infiammati e pieni di colpi. E mica andavamo scalze solo sui prati: andavamo scalze anche a portar giù il fieno … Mica balle! Ed andavamo scalze sui monti da bambine ed anche più grandicelle.

E non portavamo ‘scarpétz’, perché chi te li faceva? Noi non eravamo capaci di farli da sole. Poi, in un secondo tempo, quando ero più grandicella, ho imparato a farli, e li facevo anch’io, ma non quando io ed Elsa eravamo più piccole. Solo ‘garbèdas’ ‘garbedatàs’ e ‘galogjas’, zoccoli di legno e niente di più. E scarpe allora non ne si vedeva. Non ho provato un paio di scarpe in vita mia, finché non mi sono sposata. Forse avranno portato le scarpe i signori, ma eravamo forse noi dei signori, che eravamo povera gente?

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Ma per ritornare al lavoro della fienagione, quando era l’ora buona per alzarci ci si alzava, e poi, a sera, ognuno portava a casa il suo prodotto, ma poteva accadere che qualche ritardatario ti venisse a chiamare perché portassi tu il suo fieno.

Ed allora, dopo qualche ora di sonno, ci si alzava all’una del mattino, e si saliva anche fino in ‘Navo’ (4), che era ancora notte e riluceva la luna, e, giunte sul posto, ci appoggiavamo vicino alla meda e facevamo un breve sonno in attesa che facesse giorno, per poter vedere a fare il fascio. Ed alle sei e mezzo – sette del mattino avevamo già fatto il fascio ed eravamo già scese da sotto il monte a casa, portandolo.
E ci davano venticinque centesimi a viaggio, e potevamo fare anche tre viaggi al giorno, ma non riuscivamo mai a racimolare una lira. E con una lira, allora, non si comperava molto. So però che un fazzoletto da testa di lana costava 2 lire cioè circa tre giorni di lavoro estivo.
E, quando andavamo in montagna a lavorare, prima di partire intonavamo un canto ‘A è ievade la biele stele’ o ‘A cjante il gjal al crice il dì’… Una bella cantata nel paese e poi, via noi, su verso la montagna! Ed eravamo in tante. E si era allegre, quella volta.

ABITI FAI DA TE.

Laura chiede come si vestissero le donne.

Emma: «Vestiti! Si vestiva alla buona. Proprio alla vecchia. Adesso ti racconto questa. C’era qui una vecchia di settanta anni o forse ottanta, che andavo ad aiutare nei prati. Ed ad un certo punto mi ha regalato un giacchettino stretto in vita, e lo mettevo che ero una ragazzina, una ‘poemuto’, che se ci penso anche adesso lo metterei, perché sarebbe di moda. Ma allora i vestiti erano ‘rapez’ erano abiti rattoppati ed alla buona, ah, se ci aveste visto allora, come si andava vestite! Ed in genere le madri confezionavano gli abiti da sole. E li facevano come potevano. E ora vi racconto questa. Nel 1915 è venuta la guerra, e poi è venuta l’invasione austriaca, e non c’erano vestiti di nessun tipo, né da fare né da comperare, e non c’era niente. Ed eravamo andate su, in ‘Sedos’ (5), sui monti abbandonati dai militari in ritirata, per cercare qualche coperta lasciata dai soldati per portarla a casa ed utilizzarla per fare qualche vestito. Insomma, pensate come vivevamo: andavamo a cercare le coperte dimenticate per poi lavarle e trarne vestiti, con cui andare a far legna ed andare a fare la sfilata a Messa!» – E ride Emma al ricordo di quei tempi.
Quindi riprende: «E pensate, questi vestiti fatti di coperta tenevano perfino la piega, però come la tengono le banderuole! E io mi ero fatta fare una gonna di coperta a quindici anni, ma è durata, sapete, tanto che nonna la metteva da anziana. Era una gonna che mi aveva fatto “la rossa di Macion”, in cambio del trasporto di letame, ed era alla moda, ‘strentulino’».

Mirca narra che ad Emma avevano fatto anche un vestito di tela di sacco (6), e volevano che lo indossasse per andare a Messa in una festa grande, ma lei si vergognava. Ed allora sua madre l’aveva rincorsa, per mandarla alla funzione religiosa.

Emma: «E per proteggerci dal freddo non avevamo scialli, ma solo una sciarpa. Non c’erano quella volta scialli! E c’erano pecore, e si trovava lana da comperare, ma si doveva fare tutto da sole, dai calzini alle sciarpe ai maglioni per i bambini. E ai maschietti facevano dei pantaloncini aperti dietro, per permetter loro di fare da soli i bisogni, e facevano indossare sia ai bambini che alle bambine piccoli un grembiulino e quando faceva freddo un golfino e le calze fatte in casa (7). E mettevano loro ai piedi zoccoli di legno, ‘galogias’ e ‘scarpéz’. Ma questo accadeva d’inverno, perché, d’estate, i bimbi andavano scalzi. Inoltre se le donne filavano la lana, potevano anche fare una maglia sotto per i bimbi, ma non era abitudine il farne. Questo però succedeva prima che nascessero i miei figli. Fra l’altro Ivo è stato con noi in Francia, e lì era diverso».

Giuseppe Di Sopra detto Beppo di Marc. Riccardo Pinzan di Givigliana, nato nel 1924.Da archivio Giuseppe di Sopra. (https://www.nonsolocarnia.info/le-95-immagini-di-giuseppe-di-sopra-schedate-per-il-gruppo-gli-ultimi-e-la-fototeca-della-carnia-nel-1990-e -non-schedate-pervenute-da-m-e-j-gussetti-e-da-m-lepre/).

 I GIOVANI ANDAVANO IN FILA, E FINIVA CON IL MATRIMONIO, MEGLIO SE CON UNO RICCO.

«Quando poi si era ragazzine, va da sé che si incominciava a guardare, di storto i ragazzini, ed i ragazzini incominciavano a guardare noi. E poi i maschi si abituavano ad andar e a far la fila, cioè ad andare, in 3 o 4 insieme, la sera, in casa delle ragazze in età da marito, per conoscerle e conoscere meglio la famiglia. E le guardavano, valutando in primo luogo se erano brave e forti per lavorare, se erano brave a falciare, se erano buone portatrici. Ma in particolare guardavano se erano sane, tanto da poter incominciare una vita insieme ed avere figli.

Ma la cosa importante era che la donna scelta sapesse lavorare, fosse una lavoratrice, e non importava molto, allora, se una ragazza era bella o no. Poteva contare qualcosa, ma era forse più importante che fosse simpatica. Ed incominciavano, poi, i genitori ad adocchiare un possibile partito per il figlio, ed incominciavano dicendogli: “Quella ragazza è per te. I suoi genitori hanno vacche, hanno roba…”.
Infatti anche le famiglie dei ragazzi guardavano se la fanciulla aveva una posizione non malvagia, e, se era così, era il futuro marito che la andava a cercare, che andava a proporsi.  E la roba giocava un ruolo importante nel combinare matrimoni, sia dall’ una che dall’altra parte. Ma spesso “la roba sposava la roba”.

Poteva poi accadere che i genitori spingessero una bella ragazza a sposare uno che aveva qualcosa, piuttosto che un poveraccio. Ma era la situazione che richiedeva così. Comunque in genere gli uomini erano tutti operai e le donne contadine, ed era importante trovare un uomo che avesse un lavoro. E più l’uomo lavorava, più ci si riteneva onorate e fortunate, che pareva di andare in Paradiso se si aveva tanto lavoro.

E c’erano ben poche signore qui, e erano quelle che non avevano bisogno di domandare prati in affitto o da lavorare a mezzadria».

DOPO IL MATRIMONIO.

Laura chiede come si viveva dopo il matrimonio.

Emma: «Con il matrimonio, Laura, ci si prendeva su una bella croce. Io mi sono sposata di mercoledì, ed il lunedì seguente ho dovuto andare, io che non ero abituata, nella stalla che si trovava lontano dal paese, a Riciul. E non potevo far a meno di andare, ho dovuto farlo. E io, che da giovane ero dormigliona, ho dovuto metter su la sveglia (lu svejarin), e mi sono ben presto abituata a svegliarmi, ogni giorno, alle quattro del mattino per andare a governare le mucche nella stalla. E fino a che non ho lasciato di tenere vacche, che non è stato tanto tempo fa, mi sono sempre alzata alle quattro per andare a governarle. E tutte le donne, qui, hanno dovuto fare, suppergiù, come me.

Eh gli uomini…  Non si poteva far conto sugli uomini. Due mesi dopo il matrimonio partivano, se ci si sposava in febbraio. Ma era per modo di dire due mesi dopo, perché era abitudine che, a San Giuseppe, gli uomini partissero per l’estero, lasciando vuoto il paese. E qui restavano solo le donne, qualche uomo un po’ malato, e quattro vecchi. E restava pure qualche commerciante, ma erano davvero pochi».

A questo punto interviene Mirca, che ha sposato un commerciante di cui ha portato avanti, dopo la morte, l’attività. Ella dice che nel paese è tradizione che ce l’abbiano nera con i commercianti proprio perché tutti dovevano emigrare tranne loro. E il commerciante veniva visto come ‘il porcello’ il ‘masse pasût’, il troppo sazio, e come un appartenente ad una categoria privilegiata. E conclude: «Insomma qui è tradizione che non vogliano troppo bene ai negozianti».

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A questo punto Alido precisa che non crede che il motivo del poco voler bene dei paesani ai negozianti fosse dato dal fatto che non avevano bisogno di emigrare, ma dal sistema dei libretti e perché vi era qualcuno che praticava l’usura.

Ed Emma conferma e continua: «Avevano queste povere donne l’uomo fuori a lavorare, e non vedevano una lira finché lui non rientrava. E quando rientravano dopo aver lavorato duro una intera stagione, portavano a casa circa duecento lire, non di più. E con quella cifra le donne dovevano fare la spesa per tutto l’inverno. E comperavano uno o due quintali di granoturco, riso, farina… Ma in qualche caso i soldi non bastavano per sfamare la famiglia per un periodo così lungo, e così andava a finire che gli uomini dovevano andare a prestito, se non potevano tornare all’estero subito. Perché anche quanto stavano fuori dipendeva dalle abitudini che avevano. E i primi soldi che guadagnavano, li mandavano poi alla moglie per pagare i debiti. Ma vi erano uomini che non mandavano una lira in tutta la stagione, e le loro donne dovevano arrabattarsi per sopravvivere ed anche chiedere la carità, in qualche caso.

Ed erano costrette, per guadagnare qualcosa, per tirare avanti, a lavorare per uno e per l’altro. E quando venivano a casa, gli uomini riempivano di figli queste povere donne, e quindi se ne andavano nuovamente, e qualcuno doveva ben pensare a tutti.

Giuseppe Di Sopra detto Bepo di Marc. Ferruccio Della Pietra detto “Ferruccio di Soclàp”, nato nel 1910. Silvio Della Pietra, cugino di Ferruccio Della Pietra, nato nel 1909. Elio Durigon detto “Lelo”, nato nel 1911, morto in Russia. Giacomo Durigon detto “Cuz”, emigrato in Francia. Da archivio Giuseppe di Sopra. (https://www.nonsolocarnia.info/le-95-immagini-di-giuseppe-di-sopra-schedate-per-il-gruppo-gli-ultimi-e-la-fototeca-della-carnia-nel-1990-e -non-schedate-pervenute-da-m-e-j-gussetti-e-da-m-lepre/).

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E il rapporto sessuale … non era questione allora di volere o non volere. Quelle povere donne, stanche com’erano, rabbrividivano all’idea che l’uomo venisse loro vicino, e stavano meglio sole (cencio cu paia), perché, che lo si voglia o no, erano stanche sfinite, ben più dell’uomo.  Anche gli uomini lavoravano, ma mai come toccava alle donne, ed erano comunque ‘masse pasuts’ rispetto alle loro mogli.

Ed andavano le donne, povere donne, incontro ai mariti che rientravano dall’emigrazione nei paesi che parlavano tedesco, per prender loro le borse e portarle. E raggiungevano Mieli di Comeglians passando prima dove è rovinato il bosco, poi prendendo un sentiero che le portava fin dove potevano passare il fiume, ed infine si recavano dove arrivava la corriera dei De Antoni.

E gli uomini erano ‘pieni di fame’ (8), e quando si trovavano a Mieli erano in due, e quando arrivavano a casa erano già in tre! Andavano tra i ‘crets’ e … Ed alla più lunga, andavano a letto, la prima notte dopo il ritorno, in due e si alzano in tre. E nove mesi dopo era tutto un battezzare.

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Sapete, a Ludaria nascevano almeno venti bambini in un anno, ma era così anche negli altri paesi.

Ed alle donne, stanche sfinite, ben poco interessava il rapporto sessuale, e secondo me venivano considerate troppo come fossero bestie, come fossero animali da soma, come fossero muli. E gli uomini non avevano invero una grande considerazione delle loro spose e si comportavano come padroni. Ma questo accadeva prima della prima guerra mondiale, ai tempi di mio padre e mia madre, perché dopo le cose sono un po’ cambiate.

Infatti la mia esperienza è stata un po’ diversa. Io non mi sono sposata giovane, mi sono sposata nel 1928, e poi i tempi sono mutati, man mano che si andava avanti. E già nel 1928 e la vita era diversa. Gli uomini tenevano in maggior considerazione le loro donne. E dopo la prima guerra mondiale, le donne hanno incominciato ad emigrare con i mariti. Io, per esempio, sono stata 4 anni in Francia con mio marito. E lì sono stata davvero bene. Ma il rapporto uomo donna, prima di quel periodo, era qui davvero da far pietà.

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ALLORA SI PARTORIVA IN CASA E POI DICEVANO CHE SI AVEVA LA CASSA SOTTO IL LETTO PER 40 GIORNI.

Noi donne, allora, si partoriva tutte in casa, con presente la comare, l’ostetrica, e se non c’era aiutava nel parto una donna, come è accaduto a me (a mi ha reguèta uno femeno). Ed il medico era a Rigolato, mentre la ‘comare’ era di Ludaria. E c’erano paesi vicini e lontani, e finché un paese era vicino andava anche il medico a seguire un parto, ma se era lontano … Ed il giorno che sono nata io, una donna è morta perché non è giunto nessuno ad aiutarla in tempo. Quel giorno, vedendo che era arrivato il momento che io partorissi, mia madre ha chiamato la comare, che era di Ludaria ed abitava sotto la chiesa di Sant’Anna. E mentre stava vedendo di me, è giunto il medico a chiamarla perché aveva avuto una telefonata da Givigliana per un caso urgente. Così ha detto che lui sarebbe rimasto con me, mentre lei doveva andare a Givigliana. Ma l’ostetrica ha detto che ormai stava seguendo il mio parto, e che andasse a Givigliana lui, ed altrimenti che si arrangiasse. E così si sono tirati per i capelli l’uno e l’altra, e la comare non voleva andare, ed il medico voleva fermarsi lì, e così, forse a causa anche di questo ritardo, la donna è morta. Oggi, invece, l’avrebbero salvata.

Ma sai, una volta ne morivano donne di parto, anche per le infezioni, e morivano giovani. A mia madre, per esempio, dopo aver partorito l’ultima bambina, che era nata nel 1910 mi pare, sono venute le febbri puerperali, ed è stata due mesi a letto con la febbre, e questa povera creatura, questa neonata, che allattavamo con il biberon, è cresciuta bene sino ad un anno e mezzo ma poi è morta. Ma conoscevamo anche un’altra povera donna che aveva una bimba che invece cresceva una settimana sì e l’altra no, ma quella era davvero una povera creatura, e non si capiva se avesse fame o che cosa le fosse successo.

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Ma accadevano anche situazioni spiacevoli mentre si era incinte. Per esempio c’era una da Udine che era venuta ad abitare da una mia zia. Ed in quella casa, l’accesso alla scala era chiuso da una porta, perché non salisse il freddo. E mia madre, che era incinta, dopo aver aperto la porta l’ha chiusa, e questa donna aveva il piede o la gamba lì e si è fatta molto male. Ma mia madre non aveva fatto questo apposta. Solo che, dopo quell’episodio, mi diceva che non aveva avuto più pace, né quando doveva partorire né poi. E così, dopo un anno e mezzo, questa sua bimba è morta. (9). Io non so di cosa sia morta, un tempo morivano tanti bambini. Ma dopo che è morta la mia bambina, non ne sono morti più tanti, come prima.

Perché anch’ io ho avuto una bambina che è morta. E mi hanno messa in un camerino, e sono stata in questo camerino finché è morta. Ed ho avuto tanto dispiacere. Ma a mia madre sono morte tre bambine, ed una è morta nascendo. I bambini morivano da piccoli, e in una famiglia ce ne erano anche cinque, sei, sette, e ne restavano quattro, tre, due. Un po’ le madri non avevano tempo di seguirli, perché ne avevano tanti, e così…
E un caso era il mio, che ho perso solo la prima, un caso era dove i bambini erano tanti, perché più ce n’erano più morivano, tanto che le madri si erano anche abituate a non piangerli troppo.  E per consolarle, dicevano loro che li avevano messi subito in Paradiso. (10).

Giuseppe Di Sopra detto Beppo di Marc. Davide D’Agaro, nato nel 1850, morto nel 1928, nonno, con i nipoti figli di Ruggero D’Agaro: a sinistra del nonno: Bruno D’Agaro, nato nel 1915, partigiano nella guerra di liberazione, deceduto, pare suicida, in Francia nel 1954, dove era emigrato dopo la seconda guerra mondiale.  Appoggiato al nonno al centro: Arduino D’Agaro, nato nel 1919. Nel 1990, all’ epoca della schedatura, era vivente ed abitava a Soclàp. A destra del nonno: Luigia D’Agaro, nata nel 1917. Da archivio Giuseppe di Sopra. (https://www.nonsolocarnia.info/le-95-immagini-di-giuseppe-di-sopra-schedate-per-il-gruppo-gli-ultimi-e-la-fototeca-della-carnia-nel-1990-e -non-schedate-pervenute-da-m-e-j-gussetti-e-da-m-lepre/).

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E dopo il parto si doveva riposare, ma la mia vecchia pretendeva che pulissi le scale. E non era per non fare, ma persino un anziano ha detto a mio padre che mia madre doveva vergognarsi a farmi lavorare appena partorito, perché “dopo il parto si ha la cassa sotto il letto per quaranta giorni”.

Ed a me si è bloccato, una volta, anche il latte, ma è accaduto perché dopo il parto mi ero bloccata tutta, ed ero diventata tutta gialla, ed ero allora in Francia. Ed il professore da cui sono andata perché ero esaurita, mi ha detto che se non mi fossi curata sarei andata a remengo. Ed infatti ero ridotta senza sangue. E questo è accaduto in conseguenza dei dispiaceri. Ed insomma ero diventata tutta gialla.

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E le donne, a quei tempi, andavano a lavorare, gravide, fino all’ultimo giorno prima di partorire, e una di Ludaria, Anna di Mondo, ha partorito “tas Codas sore la fornâs”, (11) dietro uno stavolo. E poi ha ripreso il fascio sulla schiena, e, con il bimbo in braccio, è scesa a casa. E dovete credermi, ed anche Mina (12) sa questa storia, forse (13). Ed ha fatto tutto da sola. Magari forse non aveva le mutande, perché le donne, allora, non portavano le mutande. Avevano la biancheria, ma non avevano l’abitudine di mettere le mutande (14).
Mia madre, per esempio, diceva che aveva male alle ginocchia, e mio padre, Giacomo, le aveva portato dalla Baviera due paia di mutande di quelle felpate, perché potesse star calda. Quindi anche le donne potevano avere le mutande, ma erano aperte sotto, e servivano solo per tenere la gamba, ma non per nascondere, per coprire (par platâ).

E questa donna, Anna, ha appoggiato il gerlo, è andata dietro lo stavolo che era nostro (15), che è stato utilizzato, poi, anche dalla tua vecchia, Alido, da Elsa, ed ha partorito da sola, ha fatto tutto da sola. E poi ha preso il fascio ed il bimbo, che almeno poteva lasciare il fascio lì, ed è arrivata a Ricjûl.

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E sai, Laura, allora nessuna madre diceva niente alle figlie, e si imparava tutto così, po’. E non sapevamo neppure che ci dovevano venire le mestruazioni, e più di una si spaventava ed urlava, alla vista del primo sangue. Invece io non sono stata così stupida da gridare, ma, insomma, non ho preso paura solo perché quando ero ragazzina avevo incominciato ad andare a lavorare con altre ragazze: a portare sabbia, ad andare a far fieno, e si parlava tra di noi …

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E dopo partorito si è sfinite, ed era abitudine che le madri dessero alle figlie che avevano partorito, per un paio di giorni, solo ‘panada’ senza condimento, senza burro, per paura che si alzasse la febbre (16). Ma poi, qualche giorno dopo, credo incominciassero a dare loro qualche uovo, ma povere donne, e poveri parti!  E quando sono andata in Francia, mi dicevano: “Madame, ci vogliono polli per superare il parto, non pane e acqua!” – perché io avevo raccontato come si usava fare qui».

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Laura chiede se, magari a causa del portare pesi e dell’uso del gerlo, le donne facessero fatica a partorire. Ma Emma non sa rispondere, sa solo che spesso vi erano difficoltà, anche a causa di come il bambino si presentava.

Emma: «Mia madre, per esempio, ha fatto una bambina che si è presentata con il braccino sopra la testa, e non riusciva a nascere da sola. E così ha dovuto venire il medico e girare la bambina, perché potesse uscire. Ma è morta subito, però dopo esser stata battezzata, in braccio alla mamma. E questa era quella prima di me.
Invece a me è successo questo. Mi trovavo sempre a ‘las Codas’, e, incinta di Mirca, stavo tirando la corda per stringere il fascio. Ma improvvisamente è uscito il pezzo di legno (Clònc), della corda, e, con la spinta, sono caduta giù, andando a finire dietro lo stavolo, e avrò fatto venti metri di caduta in discesa sulla pendenza del sentiero. C’era infatti un sentiero che andava su, in mezzo al prato, e da lì, dove mi trovavo, sono andata a finire giù, dietro lo stavolo! Poi mi sono alzata e sono scesa verso casa, ma non mi è successo niente, non ho perso la bambina.

Ma dipendeva anche dalla donna se poteva avere un aborto naturale o meno, perché, forse, poteva accadere di abortire naturalmente (dispicjâ) alle donne che erano più deboli perché non mangiavano a sufficienza, o perché, facendo un figlio dopo l’altro, si sfinivano».

Laura chiede se vi fossero anche aborti provocati. Emma non dice di no, ma dice che comunque non si sarebbe saputo, perché, anche se fosse accaduto, nessuno avrebbe detto niente, nessuno avrebbe parlato.
E aggiunge che, per sentito dire, una volta chi voleva abortire faceva bollire crauti e ruggine, e poi ne beveva l’acqua, almeno così raccontavano i vecchi.

Giuseppe Di Sopra detto Beppo di Marc. In piedi con il fazzoletto scuro: Elisa Durigon detta “Lisa da Vuezzis”, nata nel 1904, morta nel 1950, moglie di Ettore Durigon. In piedi con il fazzoletto chiaro: Angelina Di Sopra, nata nel 1910, sorella di Cristina. Sedute da sinistra a destra: Amelia Di Sopra, nata nel 1909, figlia del fotografo; Lieta Di Sopra, nata nel 1905; Cristina Di Sopra, nata nel 1906, forse deceduta nel 1987, sorella di Angelina. Da archivio Giuseppe di Sopra. (https://www.nonsolocarnia.info/le-95-immagini-di-giuseppe-di-sopra-schedate-per-il-gruppo-gli-ultimi-e-la-fototeca-della-carnia-nel-1990-e -non-schedate-pervenute-da-m-e-j-gussetti-e-da-m-lepre/).

DONNE TRA FIGLI E FAME.   

E allora c’erano tanti bambini ed alcuni vivevano, altri morivano. Sarà stato il Signore, Dio, che avrà detto: “Qualcosa si prende e qualcosa si lascia”. Ed andava a finire che i bambini morivano perché c’era troppa miseria nelle famiglie, e le donne, facendo un figlio all’ anno, non riuscivano mai a riprendersi bene da un parto, che erano già di nuovo incinte. Pensate: una mia zia ne aveva uno nato nel 1892, uno nel 1894, uno nel Novecento … Ed uno dei suoi figli era stato tirato fuori con il forcipe, e gli era restata la testa un po’ storta. E dopo aveva avuto due bimbe, una all’anno.

E vi era chi aveva la culla per porre il neonato, chi lo metteva su di un piccolo pagliericcio a terra. Ma anche i grandi dormivano nella foglia (17), mica come ora che si ha il Permaflex!

 E dopo il parto e i quaranta giorni di riposo, le donne riprendevano a lavorare, e portavano il bambino in montagna con sé nel gerlo. E andavano sui monti con magari uno in pancia, uno nel gerlo, ed uno per mano! Ma, se c’era una nonna in casa, lasciavano i figlioletti con lei. Ma se le nonne non c’erano … Mica potevano lasciare i bimbi da soli!

Pensa, Laura, che c’erano donne che facevano un figlio all’anno, e come vuoi che avessero la forza di lavorare come asini ed al tempo stesso seguire i bambini? E non avevano neppure finito di allattarne uno, che ne avevano un altro in pancia. Pensa un po’ tu: un bimbo non aveva neppure terminato di poppare, che già ce n’era pronto un altro! E poi questi poveri bimbi (chesta biada canaja) vivevano in famiglia con i vecchi, e non era sempre facile.

E c’era una donna I. (18), che aveva sei o sette bimbi, ed andava in montagna, e, quando ritornava a casa, ai bambini più grandicelli dava da mangiare in una scodelletta ciascuno, mentre doveva pascere i più piccoli nella sua scodella, tanto era povera. E, per fame o sete che avessero ancora, quando avevano finito di mangiare, avevano finito, e non c’era altro. E da mangiare faceva una cognata, mentre lei e le altre donne di casa andavano a lavorare. Sai la cognata faceva la padrona, perché era una donna della famiglia, di buona famiglia, non una nuora, e misurava tutto (19).

Ed i bambini mangiavano quello che mangiavano i grandi, e le famiglie davano loro da mangiare quello che potevano, a seconda della loro disponibilità. E poi, fin dai cinque anni, se erano forti, andavano ad aiutare le madri in montagna. Ed a quell’età andavano già a prendere acqua alla sorgente da portare alle madri che falciavano o facevano i covoni. Ed andavano pure a portare loro il gelo con il pranzo, e facevano tutto quello che comandavano loro di fare. E veniva loro dato anche un piccolo rastrello perché aiutassero a tirar vicino il fieno. Ed i bambini venivano spediti, dalle madri e zie, pure a raccogliere, con un piccolo contenitore di latta, mirtilli (moras) da mangiare con la polenta.
Ma io ed Elsa andavamo, da piccole, anche a portare il letame con il ‘geùt’, con una piccola gerla.

E tante bimbe già a sei anni aiutavano anche in casa: lavavano i piatti, collaboravano a lavare i pavimenti … E io a dieci anni, quando mia madre si è ammalata, ho dovuto andare al suo posto a governare le vacche, ed ho iniziato, pure, ad andare a prendere l’acqua alla fontana che non era vicina alla stalla, con il ‘buvinç’ ed i secchi.

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E c’erano povere donne, che dovevano patire di tutto. E mangiavano polenta e formaggio, e poi davano quello che avevano masticato ai bimbi più piccoli, cosa che non è neanche igienica. Figurati a me, che non posso vedere neppure masticare i gatti, che impressione facevano queste donne, che nutrivano così i loro bimbetti! Povere donne, magre, stanche ed anemiche!

E si usava allora fasciare i neonati, e anch’ io ho fasciato i miei. Ivo però non l’ho fasciato, perché se aveva solo una goccia di pipì piangeva. Gli mettevo solo un maglioncino e dei ‘pangics’, fatti con la tela.

Ed ho abituato i miei figli, fin da quando avevano un anno, a fare i bisogni da soli sopra un foglio di giornale, e poi lo prendevo e lo buttavo nel gabinetto, e così io non dovevo lavare troppo e loro restavano puliti. Ora si usa il vasetto, ed è tutto un altro metodo, ma allora non si aveva vasetto, e così io li avevo abituati con il giornale ed a non sporcarsi.
Invece a casa di A. i bimbi usavano far tutto addosso. E non so se hai conosciuto P., che si è ucciso in Francia: lui faceva anche da ragazzo, i bisogni a letto». (20).

Laura Matelda Puppini. Gnà Emma.Elaborazione in toni di grigio. 

Poi Emma si distrae perché ha messo il pollo a cucinare, e teme che bruci, e mentre Laura le chiede di continuare a raccontare, precisa che lei non ha più tempo da perdere, perché ne ha già perso troppo, perché c’è la cena da preparare, la biancheria da stirare

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Per ora mi fermo qui, perché l’intervista ad Emma è davvero lunga e ricca di informazioni e spunti, che ci riportano ad una vita che accomunava Rigolato ad altri paesi della Carnia.

Laura Matelda Puppini

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  1. Probabilmente però queste attività si riferivano all’autunno, perché d’ inverno una spessa coltre di neve copriva il paese.
  2. Questo ultimo fieno era composto, in genere, da leguminose. Poteva poi seguire un terzo taglio, detto muiart. (Marchetti Romano (a cura di Laura Matelda Puppini), Da Maiaso al Golico, dalla Resistenza a Savona, una vita in viaggio nel Novecento italiano, IFSML e Kappa Vu ed., 2013, nota54, p. 26).
  3. Bains è una località posta lateralmente alla località Piani di Vas, e che si raggiunge con un sentiero che parte dalla stessa.
  4. Località tra Chiampiciulon e Piani di Vas.
  5. Emma pronuncia detta località ‘Sedos’ ma non sono riuscita a capire dove fosse. Ad Ave Lepre pare di aver già sentito dire così, ma pensa che forse sia un luogo non in comune di Rigolato, e fra quelli raggiungibili da Piani di Vas; ‘sedos’ è un animaletto che si trova nelle pozzanghere, che pare un filamento bianco, e che infetta l’acqua tanto da renderla non potabile, anzi da causare la morte, almeno così dicevano ai bambini. Quindi può darsi ci fosse una zona con pozzanghere o terreno umido così chiamato. In alternativa potrebbe trattarsi della località Sierolos’ che si trova sotto Piani di Vas, come suggeritomi da Elio Candido, o ‘Nalnedis’, ‘Nalnedos’ in rigoladotto, come suggeritomi da Daniele Candido, che si trova, anch’ essa, tra Ludaria e Piani di Vas, sopra la fornace ove si cuocevano i mattoni. Ma da quello che si capisce dal contesto, era una località in alto.
  6. Presumibilmente di canapone.
  7. Anche Anna Plozzer Squecco racconta la stessa cosa per Cavazzo Carnico. (Cfr. Anna Squecco Plozzer ‘Frûts a Cjavaç’, in: www.nonsolocarnia.info).
  8. Qui Emma intende che non avevano magari visto donna da mesi.
  9. Pare qui, che la madre di Emma, Virginia Puschiasis in Pellegrina, giustificasse la morte della bimba con una specie di maledizione, di punizione per aver provocato danno ad altra persona anche se non volontario. Qui ritorna un pensiero popolare, che vuole ci siano avvenimenti negativi che ti condizionano la vita, anche se il tuo agire non è stato volontario, che portano con sé una specie di maledizione. Il mondo in particolare femminile, allora, era pieno di interpretazioni che non seguivano quello che oggi chiameremmo un pensiero razionale. Ora ci è molto difficile capire, ma non solo, ci è molto difficile conoscere il mondo di allora.
  10. Intorno a affermazioni di questo tipo, era nata la credenza che, portando il corpicino del bimbo morto alla nascita alla chiesa della Madonna di Trava, ed affidandolo al prete ed ad una donna del luogo, attraverso un miracolo, il neonato potesse resuscitare per esser battezzato ed andare in Paradiso. Naturalmente detta pratica non era gratuita ma era attuata dietro un compenso od una largizione alla chiesa. Questo però non era piaciuto al Vescovo, che aveva posto termine a queste presunte resurrezioni.
  11. La fornace si trovava sopra la località di ‘Ricjûl’, dove ci sono gli stavoli. E sopra la fornace si trovavano anche le località: ‘Las codas’ , per andare verso ‘Miol’, e ‘Nalnedis’.
  12. Mina è Giacomina Candido Lepre, nata il 25 agosto 1937, morta all’ospedale di Udine nel luglio 2014.
  13. Qui Emma usa un modo antico di confermare quanto detto; chiama cioè altro testimone. Ma aggiunge un forse, ad intendere che non è sicura che Mina, fra l’altro della generazione dei suoi figli, fosse stata al corrente del fatto.
  14. Anche mia nonna Anna Squecco Plozzer narrava che le donne, ai tempi in cui sua madre era giovane, non indossavano in genere le mutande.
  15. Qui Emma sottolinea in modo marcato la proprietà dello stavolo, che era di Alfredo Gussetti, suo marito. Ma ognuno, allora marcava la proprietà in modo deciso, basti ricordare quanto narrava Romano Marchetti. Dopo una nevicata, la neve aveva spezzato il ramo di un giovane melo, a Maiaso, ed egli, bambino, guardando dalla finestra, se ne era rammaricato con sua madre. Ma questa gli aveva detto che non doveva essere triste, perché il melo non era loro, ma della zia Dalia.
  16. Qui Emma riporta un pensiero popolare, che non aveva alcun fondamento scientifico, e cioè che il grasso facesse male alle puerpere e che dovesse essere evitato.
  17. Avevano i pagliericci fatti con una sacca di tela riempita da foglie di granoturco secche.
  18. Il nome e la casata della donna sono specificati, ma li ometto perché ha discendenti e per rispetto alla sua persona.
  19. Questo commento riflette una diceria popolare, che poteva aver fondamento come no.
  20. Può darsi che il ragazzo avesse qualche problema di incontinenza fecale, o neurologico, ma allora le conoscenze mediche erano scarse.

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L’immagine che accompagna il testo ritrae gnà Emma, è stata scattata da Laura Matelda Puppini ed è la versione originale di quella elaborata in b/n che si trova all’interno dell’articolo. Laura Matelda Puppini

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