INTRODUZIONE.

Ho ascoltato ieri a Tolmezzo, con altri 2 gatti, si fa per dire, l’interessantissimo incontro intitolato “Una montagna da (ri)costruire: due domande fondamentali” – Paesaggi e vivibilità: percezione, progettazione, governance – e voglio riportare, su più articoli, alcune considerazioni ed alcuni input a me derivati dai relatori: Ugo Morelli,  (1) Cristiana Compagno, (2) Cesare Micheletti (3).

Ringrazio subito il dott. Zanchetta presente per la Regione Fvg, servizio biodiversità e per la Fondazione Dolomiti Unesco, e la dott. Mariagrazia Santoro, mentre mi chiedo come mai non ci fosse alcun politico locale, tranne, mi dicono, un assessore alla cultura di un comune carnico, ma forse erano tutti a plaudere a Ivan Buzzi a Pontebba, riconfermato presidente Uncem (Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani) Fvg, che è il sindaco, p. i., imprenditore e amministratore di imprese commerciali, eletto con lista unica, che deliberava, seguendo uno strano concetto di tutela del bene pubblico, con la sua giunta comunale,  il 23 marzo 2020, di ricorrere in giudizio al TAR FVG contro il ricorso promosso dal Consorzio Vicinale di San Leopoldo, per la costruzione dell’impianto idroelettrico S. Leopoldo – Pontebba, con un progetto la cui pubblica utilità era già decaduta e che avrebbe comportato l’esproprio  i beni inalienabili del Consorzio. Non solo: il comune di Pontebba si sarebbe poi fatto pagare le spese di giudizio dalla ditta che vuole costruire la centralina, in uno strano connubio tra pubblico e privato. (https://www.nonsolocarnia.info/idroelettrico-lassalto-al-fiume-fella/).

Ma andiamo avanti con quanto è stato detto a questo incontro.

UGO MORELLI. PROBLEMI CHE FRENANO IL CAMBIAMENTO ANCHE DAVANTI AD UNA CRISI GLOBALE DEL PIANETA DI CUI SIAMO PARTE NON DOMINATORI.

I mutamenti climatici e le ferite all’ambiente date dall’utilizzo sfrenato delle risorse, ci impongono di cambiare mentalità anche nella progettazione, ove si devono avere come capisaldi e premesse il rispetto dell’uomo e dell’ambiente e l’operare anche su situazioni di fatto già esistenti, in una ottica nuova.  L’ipotesi posta ai relatori era quella di un intervento su di una tabula rasa e senza limiti economici, cioè senza tener conto degli aspetti i che vengono sempre enumerati per non fare nulla di nuovo, per vedere se siano proprio questi gli unici elementi di freno. (8.01).

Per primo ha preso per primo la parola il prof. Ugo Morelli, che ha parlato dei fattori psicologici che frenano il cambiamento negli esseri umani.

La nostra specie, quella dell’homo sapiens, come reagisce davanti ad una svolta epocale sul pianeta terra come quella che stiamo vivendo, che richiede un cambio di paradigma? In primo luogo non c’è più aspetto alcuno che si possa leggere, affrontare od analizzare con un approccio localistico, come se il resto non ci fosse, senza contestualizzare in uno scenario più ampio e globale.

Nella maggior parte dei casi, però, – ha detto Morelli, problemi di importanza generale vengono affrontati per sinteticità, con un atteggiamento psicologico e collettivo che corrisponde a quello che viene riportato nel proverbio cinese: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Cioè siamo sempre fortemente concentrati sul particolare, su ciò che notiamo vicino a noi, e la globalizzazione dei termini di un problema ci fa paura. Così ci chiudiamo nei localismi mentre avremmo bisogno di uno sguardo generale, che non consideri solo la condizione della specie homus sul pianeta terra, ma consideri la vivibilità come aspetto primario.

E la vivibilità non è una questione che si possa analizzare solo avendo come riferimento la condizione umana – ha continuato Morelli, perché dobbiamo porci in un’ottica non antropocentrica ma che consideri l’uomo come un terrestre, semplicemente perché l’uomo non domina il pianeta, anche se si è illuso di farlo, di considerare il pianeta una sua proprietà.
Ma invece siamo parte di un tutto e da quel tutto dipendiamo, ed il coronavirus ci ha insegnato che possiamo essere tranquillamente dominati. Ma accettare questo aspetto è costosissimo per l’homo sapiens, perché implica una ferita narcisistica pesante, ed il frantumarsi dell’idea, giuntaci anche attraverso le grandi narrazioni della Bibbia e di altri testi storico – religiosi, che tutto ciò che è stato creato è stato fatto per l’uomo.

Ed il modo di porsi rispetto ad un problema, anche quello di conservare qualcosa e tutelare qualcos’altro,  è aspetto fondamentale, ha continuato Morelli, e in questo caso, davanti ad una crisi globale del pianeta, dobbiamo vedere tutto ciò che analizziamo in un’ottica diversa da quella che abbiamo seguito sinora, e questo è per noi umani difficilissimo, anche perché  le resistenze al cambiamento rispetto alle problematiche poste dalla crisi globale della terra sono fortissime, ed il mutamento prospettico implica non solo il cambiare idea ma anche comportamenti usuali.

Inoltre, parlando di vivibilità e cioè possibilità di sopravvivenza, non dobbiamo più considerare il paesaggio come uno sfondo alla nostra esistenza – ha detto Morelli – ma come lo spazio della nostra vita, da cui la nostra vita dipende in vario modo, anche nella significazione. E l’uomo esiste perché è inserito in un contesto con cui ha un rapporto di reciproca interdipendenza.

Ma purtroppo l’uomo ha invece inteso il rapporto con la terra come un rapporto di dominio, fino a rendere questo rapporto distruttivo anche per sé stesso. E ha presunto che le scelte imposte dallo spirito razionale dominante, volto al di più e meglio, sfruttando tutte le risorse disponibili, fossero la via da percorrere, con il consenso dei più. E così abbiamo portato questo modello su tutto il pianeta, violando molto spesso i principi primari della sostenibilità, ed utilizzando senza porsi alcun problema, risorse vitali non riproducibili, come per esempio l’acqua.

Claude Levi – Strauss, a Parigi ha raccontato un aneddoto per spiegare questo tipo di situazione, ci ha detto Morelli. Vi è un vaso sigillato con della farina, ed all’interno ci sono due vermi. Ma questo è in un momento dato. Ma poi, nel tempo i vermi mangeranno farina, e si accoppieranno e tutti i vermi presenti mangeranno farina, e si accoppieranno, fino a che esisteranno moltissimi vermi ma sempre meno farina, e via via sempre più vermi morti ed escrementi. Ma pensiamo a quel vaso come la nostra biosfera, come il pianeta terra, alla farina come l’insieme delle risorse per vivere, a noi umani come i vermi e capiremo verso dove stiamo andando a finire.
Ma per fortuna noi siamo diversi dai vermi, come siamo diversi dai colibrì, non migliori o peggiori, e ci siamo presentati sulla faccia della terra un attimo fa. Ma l’uomo sa pensare e fare, a differenza dell’animale, e sa fare cose importanti ma anche distruttive, e sa distruggere scientemente il pianeta in cui vive e che gli permette di vivere. Ma ora siamo davanti ad un bivio, che non possiamo ignorare.

E come stiamo affrontando questo bivio? Negando il limite e celebrando la tradizione, aspetti che non portano verso alcun rinnovamento. Ma il limite ed il vincolo, in questo caso, non è un ostacolo da abolire, ma è la condizione della possibilità di esistere come specie umana, allo stesso modo in cui le sponde sono il limite per giocare a biliardo. Ed anche il limite ha una pazienza, come diceva Totò. Ed il limite a noi umani invia dei segnali.

Ma noi che facciamo? Noi non ce ne accorgiamo, Noi facciamo finta che i limiti alla sopravvivenza della specie umana non esistano, noi rinviamo l’affrontare il problema, noi lo rimuoviamo. Ed invece è questione molto seria, tanto che ormai ci chiediamo, quando ispiriamo, cosa stiamo mettendo nei nostri polmoni.

Ed il limite non è più al di là da venire, è in mezzo a noi. E noi dobbiamo parlare del limite dobbiamo educarci ad esso, perché non è acquisizione spontanea, ma diverso modo di osservare la stessa nostra vita, chiusa nel vaso della biosfera, e bisogna vivere meglio con meno.
E questa non è una questione da affrontare con una progettazione al computer, del tipo: qui questo si può si fare, qui no, all’interno dello stesso modo di ragionare di prima, anche perché il paesaggio non è contesto neutro, ed anche noi viviamo in diversi contesti territoriali e situazionali.

Inoltre l’uomo tende ad evitare il limite consegnandosi ad una celebrazione della tradizione, ad un conservatorismo ad oltranza, ad una immobilizzazione nel passato, portando avanti, per dirla con Mahler, l’ingessatura della cenere, invece che alimentare il fuoco. Ma siamo certi che tutto quello che è stato prodotto nella nostra storia debba essere conservato? – si è chiesto Ugo Morelli.

Inoltre l’uomo sapiens tenta di neutralizzare la variabile ‘tempo’. Ma il tempo non si può neutralizzare perché esiste a prescindere dall’uomo. Noi uomini siamo tempo e siamo finiti. E- ha continuato il noto psicologo –  la memoria è una cosa, la tutela è un’altra, l’ossessione conservativa una terza, e ciò che riteniamo come venuto dai nostri padri potrebbe esser anche frutto di una tradizione inventata: basta vedere cosa promuovono il turismo e l’enogastronomia.
Quindi- ha terminato Morelli –  si impone il problema di progettare tenendo conto delle risorse disponibili, e non di vivere con la testa rivolta all’indietro.
E se per forza di inerzia, e questo lo dico io, ci lasciamo trascinare dai modelli di sfruttamento del pianeta del passato, andiamo inesorabilmente verso la fine della specie umana.

MA COSA FA INVECE LA NOSTRA CLASSE POLITICA LOCALE?

Le parole di Morelli ci portano a riflettere sui beni comuni inalienabili, in Inglese definiti primary necessity for life, come per esempio l’acqua. Però credo che spesso i politici locali o gran parte degli stessi, abbiano confuso la finalità del loro ruolo, magari condizionati dai modelli sociali esistenti. I rappresentanti del popolo hanno il compito di agire per l’interesse pubblico ed a tutela dello stesso, investendo denaro dei cittadini, invece qui pare che il sostenere l’interesse di privati abbia talvolta preso il sopravvento, oltre l’applicare la politica del ‘becjùt’ che implica che, pur di avere un soldo, tutto sia progresso, sposando la svendita del territorio e del paesaggio e praticando una specie di politica della questua e dell’accattonaggio. Ma può darsi si chiami politica neoliberista, invece che coloniale, anche se pare la stessa cosa.

Così a Tolmezzo Igino Piutti, allora sindaco, ci ha regalato il supercarcere senza nulla in cambio e togliendo spazi verdi anche se privati, così Tolmezzo si è dotata di una palestra addestrativa per auto e moto, detta anche, per l’uso che ne veniva fatto, dallo stesso settore motoristico ‘l’autodromo della Carnia” che ci stressa da anni, ed è stato costruito, sempre nella piccola conca tolmezzina, un poligono di tiro, perché davano i soldi per realizzarlo, facendo l’uno e l’altro senza barriere antirumore e senza pensare alla qualità dell’aria.

Si è lasciato realizzare da trevisani, per potenziali clienti austriaci, il centro commerciale di Amaro, distruggendo una delle piane più belle della Carnia, per poi accorgersi che andava svuotandosi lentamente per gli affitti troppo alti e perché gli austriaci comperavano in Austria; si è applaudito a centrali e centraline, sia da destra che da sinistra; ci si  è dimenticati di sistemare la statale della Val Degano ma si costruiscono sfregi ambientali come strade in quota che poi verranno regolarmente percorse da moto, che nessuno sa perché lasciamo tranquillamente scorrazzare pure senza targa, sul nostro territorio.

Non solo: come fanno i capitalisti alla Berlusconi e similari, ogni innovazione ed ogni politica che va nel senso di una risposta ai bisogni della gente, alla difesa dei beni comuni e di ciò che è comunitario è stata tacciata di comunismo, quasi che cercare di dare il pane ed un tetto a tutti ed avere cura del creato avesse a che fare con il povero Stalin, visto come la realizzazione terrena di Belzebù, in un confusione incredibile di significati, rappresentazioni, immaginari legati al termine stesso ‘comunismo’ confuso pure con ‘comunitario’ e ‘collettivo’.

Non da ultimo, a me pare che la classe egemone abbia scarse conoscenze e tenda a perpetrare un modo che ritiene consolidato di fare politica, secondo una personalissima visione del mondo che viene definita centrista, cancellando di fatto gli altri che non la pensano come loro e chiudendosi talvolta in un localismo decontestualizzato, nell’hic et nunc’ senza pensare a cosa significhi, per esempio, donare di fatto un bene comune come un tratto di fiume od un ruscello per trent’anni ad un privato.

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D’altro lato come non essere d’accordo con Razmig Keucheyan quando scrive che «Nel corso degli anni 1980 e 1990 si è diffusa l’idea che non ci fosse alcuna soluzione alternativa alle democrazie di mercato, incoraggiando di conseguenza lo sviluppo di una forma di fatalismo? (4). Inoltre, sempre secondo detto autore, la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’economia di mercato non sono più stati contestati dalla metà degli anni settanta, il post sessantotto non è stato un periodo di vittoria della sinistra, ma di restaurazione, il razzismo pare abbia cambiato forma ma esisteva a livello sociale anche in precedenza, (5), in sintesi covava sotto la cenere.

E dagli anni ’70, «il capitalismo ha subito profonde trasformazioni: finanziarizzazione, crollo del blocco dell’est e integrazione della regione nell’economia mondiale, evoluzione capitalista cinese, deindustrializzazione, disfacimento del movimento operaio, costruzione neoliberista dell‘Europa». (6). Ma, continua Razmig Keucheyan «la nuova egemonia liberista è riuscita ad emergere solo in seguito a cambiamenti strutturali che avevano obiettivamente indebolito le forze progressiste». Ed a suo avviso, «Pensare che basti vincere la “battaglia delle idee” per cambiare il sistema, potrebbe esporre a delusioni». (7). Questo articolo è stato pubblicato nel 2018. Ma forse ce la farà, l’inaspettato e prevedibile covid 19 a cambiare qualcosa?

Infine, sempre secondo Razmig Keucheyan non è ancora chiaro chi, di fatto, in assenza della classe operaia, potrà spingere con forza verso il cambiamento. Ora come ora, a suo avviso, una nuova visione del mondo può «diventare politicamente efficace solo se racchiude una coalizione di classi che si oppone ad altre classi. Resta quindi da immaginare la forma di un futuro blocco sociale». (Ivi). Ma è davvero questa la via?

Però il problema posto non è di poco conto: chi riuscirà a spingere definitivamente verso il mutamento? Questo ho scritto senza voler offendere alcuno e ringrazio Ugo Morelli per esser giunto a Tolmezzo e per l’interessante relazione. Riporterò in altro articolo le riflessioni degli altri due relatori, perché altrimenti questo testo sarebbe risultato troppo lungo.

Senza voler offendere alcuno, ma per riportare l’importante pensiero del prof. Morelli con alcune mie considerazioni nel merito.  

Laura Matelda Puppini.

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    1. Saggista e psicologo, professore universitario di psicologia del lavoro e delle organizzazioni, ed ideatore e direttore della Scuola per il governo del territorio e del paesaggio della Provincia Autonoma di Trento.
    2. Docente universitaria di economia e gestione d’impresa presso l’Università di Udine di cui è stata anche rettore.
    3. Architetto e pianificatore territoriale, consulente della Fondazione Dolomiti Unesco.
    4. Razmig Keucheyan, Bastano le idee a cambiare il mondo? Una discutibile battaglia culturale, in Le Monde diplomatique il manifesto marzo 2018, p. 3.
    5. Ivi
    6. Ivi
    7. Ivi.

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L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: arcipelagomilano.org. L.M.P.

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