Avevo scritto anni fa due note sulla storia della fotografia, che vorrei riportare qui. Io mi sono occupata per anni, in quanto membro del gruppo Gli Ultimi, di fotografia d’epoca, e non è possibile, quali cultori di detto settore, trascurare la sua storia ed evoluzione, peraltro interessante.

• 1839: anno zero?

Il 7 gennaio 1839, presso l’Accademia delle Scienze di Parigi, l’astronomo e fisico Louis – Francois Arago, eminente scienziato francese e deputato repubblicano, presentava ai convenuti un nuovo procedimento, senza addentrarsi in particolari tecnici, che, grazie all’uso della camera oscura, permetteva di ottenere immagini della realtà in maniera meccanica, senza “intervento manuale”.
Egli attribuì la sensazionale scoperta a Louis Mandé Daguerre, da cui il termine dagherrotipo ad indicare, successivamente, le riproduzioni ottenute con la tecnica da lui usata.
(Cfr. Quentin Bajac, conservatore del Museo d’Orsay di Parigi, L’image révéléè – L’invention de la photographie, Gallimard/ Réunion des musées nationaux (francaises ), 2001. Imprimerie moderne dell’Est – Paris, France, p.13).

La notizia, in poco tempo, fece, come si suol dire, “il giro del mondo” suscitando lo stupore generale: non sarebbero serviti più abili ritrattisti e paesaggisti insigni: ancora una volta la tecnica sostituiva la mano, persone ed ambienti sarebbero potuti restare impressi con i loro pregi e difetti, nella loro cruda realtà.

L’iniziale deliberata assenza di informazioni, da parte di Daguerre, sulle modalità tecniche di produzione dell’immagine, poi fornite, sempre tramite Arago, nell’agosto dello stesso anno, autorizzarono, all’epoca, ogni genere di supposizione.
Alcuni parlarono subito di “magia”, (e del resto non avevano il sapore della magia gli spettacoli “Diorama” di Daguerre, che trascinavano folle di parigini e turisti in piazza Repubblica a Parigi?), altri di giochi d’ombra; altri ancora protestarono affermando che loro personali sperimentazioni avevano già sortito i risultati a cui era giunto Daguerre.
Per quanto riguarda il “Diorama”, questo era il nome che Daguerre e Bouton avevano dato ad uno spettacolo da loro ideato, che si svolgeva a Parigi , in prossimità della piazza della Repubblica, e che attirava, già nel 1822, parigini e viaggiatori di passaggio. Grazie ad un macchinario complesso ed ad un sapiente gioco di luci ed ombre, venivano proiettate, su di un telo di 22 metri per 14, teso davanti agli spettatori, immagini diverse che lentamente apparivano e lentamente svanivano. Lo spettacolo durava una quindicina di minuti: in quel lasso di tempo montagne, o rovine gotiche, oppure paesaggi italiani, e grandi temi artistici del romanticismo, venivano reinterpretati. (Ivi, p. 14).

Dal punto di vista tecnico, comunque, la fotografia ci appare, oggi, come il frutto di un lungo processo che ebbe origine nel XVIII° secolo con gli studi relativi alla sensibilità alla luce di sali d’argento (in particolare nitrato e cloruro d’argento ) svolti da Allemands Schultze ed altri scienziati. (Ivi, p.16).

«L’aspetto più curioso della corsa all’invenzione della fotografia – scrive Peter Galassi – è forse questo: si constatò che vi era stata competizione solo a gara conclusa. Ad eccezione di Daguerre e Niépce (…) nessuno dei quattro o cinque che erano in lizza, ebbe sentore dell’esistenza degli altri. Ciò nonostante i concorrenti raggiunsero il traguardo quasi allineati. (…). Questa apparente coincidenza è tanto più sorprendente in quanto, pur essendo l’invenzione di carattere tecnico, non siamo in grado di individuare una qualche innovazione tecnica che abbia agito da catalizzatore». (Peter Galassi, Prima della fotografia. La pittura e l’invenzione della fotografia, Bolatti – Boringhieri ed., 1981, p.15).

Nel 1816, per esempio, Joseph Nicéphore Niépce, francese, inventore, tecnico, studioso, nato nel 1765, iniziò ad interessarsi ai fenomeni della luce ed alla camera oscura.
L’interesse per la produzione di immagini senza l’intervento dell’uomo era venuta a Niépce dalla pratica della litografia: sperimentando diverse tecniche, egli riuscì, infine, ad ottenere, nel 1827, la sua prima immagine disegnata dalla luce. Egli procedette in questo modo: preparato uno strato di bitume di Giudea, ridotto in polvere e disciolto in essenza di lavanda, lo pennellò su una lamina di rame ricoperta d’argento e quindi la pose ad asciugare, creando così uno strato di “vernice fotosensibile”. Detto strato fu da lui esposto, per qualche ora, sul fondo di una camera oscura.
Quindi egli immerse la lamina in un bagno di lavanda per dissolvere i frammenti che non avevano ricevuto la luce e così ottenne l’immagine in negativo.
Per procedere alla creazione del positivo, egli si servì di una bacinella con cristalli di iodio, che formavano depositi di ioduro d’argento, ove pose la lastra. Eliminando, quindi, con l’alcool, lo strato di vernice, gli apparve l’immagine fotografica, che egli definì eliografia, scrittura del sole.
Ma l’immagine non risultava sufficientemente fissata e, quindi, si anneriva progressivamente al contatto con la luce. Pertanto Niépce si impegnò, successivamente, per risolvere detto problema. (https://it.wikipedia.org/wiki/Joseph Nicéphore Niépce).

Nel 1827, durante un viaggio a Parigi, conobbe Dauguerre e Lemaitre che in seguito diventarono suoi collaboratori. Nel 1829 fondò, con Daguerre un’associazione per il perfezionamento dei materiali fotosensibili. Ma nel 1833, morì, prima di vedere riconosciuta l’importanza delle sue ricerche. Così il padre della fotografia fu convenzionalmente definito Daguerre.

La primogenitura della scoperta fu contestata a Louis Mandé Daguerre, dopo la presentazione del procedimento all’Accademia delle Scienze di Parigi, da chi sosteneva che il primo esempio di fotografia fosse stato quello di Thomas Wegdwood, che, nel 1790, aveva prodotto delle immagini chimiche di vegetali ed oggetti ponendoli direttamente su carta sensibilizzata, (Quentin Bajac, op. cit., p. 16) ed, anche in questo caso invano, dal figlio di Joseph Nicéphore Niépce.

Secondo Quentin Bajac, però, pur essendo i primi esempi di immagine fotografica le eliografie di Niépce, che risolse, pure, il problema della fissazione dell’immagine, bisogna riconoscere a Dauguerre, che lavorò in associazione con Eugéne Hubert, giovane architetto, il valore della sua camera oscura, il miglioramento della fissazione dell’immagine, utilizzando vapori di mercurio, e la qualità della stessa. Egli, infatti, riuscì ad ottenere un’immagine di grande finezza, soprattutto nella riproduzione dei particolari. (Quentin Bajac, op. cit., p. 17).

Pertanto sarebbe davvero difficile affermare che l’invenzione della fotografia sia nata da un errore o da un isolato lampo di genio. Anzi, sempre secondo Galassi, resta un mistero come mai la fotografia non sia stata inventata prima. (Ivi, p. 21 e p.16).

Comunque alcuni, che “giunsero al traguardo” contemporaneamente o forse prima di Daguerre, oltre Niépce, meritano di essere citati.

Tra questi, non si può dimenticare lo sfortunato Hippolyte Bayard, semplice funzionario del Ministero delle Finanze francese che, invano, mise in mostra, all’indomani dell’annuncio di Arago, i risultati autonomamente raggiunti nel campo della riproduzione fotografica: egli, infatti, era riuscito a mettere a punto un procedimento originale di fotografia diretta, su carta. Ma venne letteralmente zittito dagli “Accademici di Francia” con la scusa che la fotografia su carta aveva scarso valore e fu rimandato a casa con una “mancia” di seicento franchi “perché si acquistasse una bella camera oscura”. (Ando Gilardi, Storia sociale della fotografia, B. Mondadori ed., seconda edizione riveduta, 2000, p. 2).
Comunque – conclude Gilardi,che pare un acceso sostenitore di Bayard – quest’ultimo «fu solo il primo di “molti affogati “ della fotografia, in nome di vantaggi economici e propagandistici.» (Ivi).

Né si può dimenticare Henry Fox Talbot, un Inglese che, un mese dopo la presentazione del dagherrotipo all’Accademia di Francia, presentò a Londra, ai membri della Royal Society, il suo procedimento per ottenere immagini fotografiche, chiamato “calotipia”, che avrebbe avuto, in seguito, notevole successo dato che permetteva la riproduzione su carta di più copie di positivi, aprendo la via alla commercializzazione del prodotto su vasta scala. (Cfr.: Quentin Bajac, op. cit., pp. 18-19 e Italo Zannier, Storia della fotografia italiana, Editori Laterza, 1986, pp. 16-18).

Degno di menzione è certamente il pittore francese Hercules Florence, “artista ed avventuriero”, che emigrò in Brasile nel 1820.
Scoperto solo trent’anni fa dagli studiosi di storia della fotografia, potrebbe, secondo alcuni di essi, rivendicare a sé l’invenzione della fotografia. Ma egli lavorò in un piccolo paese dell’entroterra brasiliano e pubblicò il suo procedimento per “rivelare l’immagine” (a cui pare fosse giunto già nel 1833), su un giornale di Sãn Paolo. Dalle note che ci ha lasciato, sembra che Florence fosse riuscito, prima di altri, a produrre un negativo in camera oscura e quindi a passare al positivo. (Quentin Bajac, op. cit., pp. 19-20). Ma non abitava né in Europa né negli “States”,ed i periodici di Sãn Paolo non erano certo i più letti negli ambienti che, all’epoca, contavano.

Ritenuta, ai suoi albori, un frutto di tradizioni tecniche che nulla avevano a che fare con aspetti di carattere estetico, la riproduzione fotografica venne considerata un elemento esterno intervenuto a sconvolgere la pittura che, all’epoca, come altre tecniche di riproduzione dal vero, aveva raggiunto alti livelli qualitativi anche per quanto riguarda gli studi sulla prospettiva e sul “punto di vista” da cui cogliere un’immagine. Di questi aspetti la fotografia è sicuramente debitrice alla pittura.

Il fatto che la fotografia, inizialmente, fosse considerata come sinonimo di realismo rappresentativo, diminuì, allora, la possibilità che venisse vista, pure, come strumento di realizzazione artistica.

Inoltre, quando la tecnica fotografica si diffuse a macchia d’olio raggiungendo i paesi più sperduti e si fece evento commerciale, si vennero codificando regole fisse che definivano i criteri per la riuscita di un bel paesaggio o di un buon ritratto.

Ma, nel corso della storia, idee sociali ed artistiche innovative, nuovi modi di concepire la vita, nonché aspetti pratici uniti ai notevoli progressi tecnici in ambito fotografico, giocarono certamente un ruolo determinante nell’uso del nuovo “medium” tra uomo ed ambiente che dette una svolta decisiva a tutto il ventesimo secolo.

• Ed in Italia?

Anche in Italia, come in altri paesi europei, fin dal 1839 vennero svolti esperimenti di dagherrotipia e calcotipia.
Studiosi legati a diverse Università, non ultima quella di Padova, nobili curiosi come Augusto Agricola, famoso calotipista, che godette di notevole prestigio durante il suo soggiorno ad Udine, e che morì in giovane età, pare a causa di un progressivo avvelenamento dovuto alle sostanze chimiche che manipolava, (Cfr.: Italo Zannier, op. cit, p. 20 e Gianfranco Ellero, Agricola ed i pionieri, Ed. Ribis, 1994), meccanici ed ottici, che producevano e vendevano la strumentazione adatta, ma anche farmacisti, medici, ingegneri, ecclesiastici, si occuparono, in un progressivo e velocissimo crescendo, di fotografia. (Cfr. Italo Zannier, op. cit., pp. 55 – 64).

Accanto a loro si pose una schiera, che andava man mano ingrossandosi, di avventurosi fotografi ambulanti che, più degli altri, diffusero, inizialmente, la dagherrotipia e successivamente altre tecniche dovunque andassero, durante i loro continui viaggi lungo la penisola, seguendo “curiosi itinerari” che toccarono città ma anche piccoli e periferici villaggi. (Ivi, p. 12).
Italiani, se così si può dire prima dell’Unità d’Italia, o, più spesso, stranieri, essi furono coloro che riuscirono ad avvicinare alla fotografia anche le classi meno agiate.

Uno degli ambulanti più noti fu il prussiano Ferdinand Brosy che, intorno alla metà dell’Ottocento, percorse l’Italia settentrionale fermandosi a Bolzano, Trieste, Udine, Trento, Feltre, Verona, Rovigo, Padova.
Pare che sia proprio sua l’invenzione di fondali di fortuna, che consistevano in un semplice lenzuolo od in un tappeto appeso ad una parete, creando improvvisati atelier all’aperto. (Ivi, p. 15
Adesso possiamo capire chi iniziò ad utilizzare alcuni escamotage, ripresi, successivamente da altri, per esempio da Giuseppe Di Sopra, fotografo inedito e capo cantiere di Stalis di Rigolato, che nei primi Novecento immortalò gruppi, persone e paesaggi del suo territorio.

Il fenomeno degli ambulanti raggiunse però proporzioni notevoli alla fine del XX o secolo.
Scrive Ando Gilardi che allora: «i fotografi ambulanti erano, nel nostro paese, circa diecimila.»
A questi, sempre secondo le sue stime, se ne dovevano aggiungere «altrettanti semiambulanti: erano quelli che, durante la buona stagione, i giorni feriali, rastrellavano un territorio più o meno vasto, alla ricerca del cliente. Nei giorni festivi lo aspettavano nel loro modesto studio». (Ando Gilardi, op. cit., p.259). Però per fotografare “all’interno” esistevano, all’epoca problemi tecnici di illuminazione, e così si doveva ricorrere alla luce naturale proveniente da finestre aperte ed altri accorgimenti.

Al numero di ambulanti con regolare permesso per svolgere la loro attività, si doveva aggiungere, poi, un numero imprecisato di fotografi itineranti “abusivi”, senza licenza. «Venti, trentamila fotografi – continua Gilardi – di cosiddetta “bassa levatura” nel nostro paese, centinaia di migliaia nel mondo, lavorarono per oltre mezzo secolo […] con ogni attrezzatura immaginabile, in ogni condizione possibile ed impossibile, con soggetti di ogni tipo: instancabilmente. (…). I “magnifici randagi” della fotografia […] penetrarono fra la gente del popolo come […] gocce d’acqua nella sabbia e non vi fu atomo sociale vivente, genuino, proletario, che non fosse riflesso nel prodotto del loro lavoro.» (Ivi, pp. 259 – 260).

Nei primi tempi, per la verità, farsi fare un ritratto fotografico, che richiedeva tempi di posa piuttosto lunghi e costava parecchio, fu un lusso che solo pochi poterono permettersi. Da quanto si sa la clientela apparteneva al ceto alto – borghese e i militari erano coloro che amavano maggiormente farsi ritrarre. (Italo Zannier, op. cit., p.15).

Solo alla fine dell’Ottocento, quando le tecniche di riproduzione subirono una drastica svolta ed il costo di una fotografia si abbassò notevolmente, il ritratto fotografico divenne alla portata dei meno abbienti.
Così la fotografia – scrive Italo Zannier – divenne accessibile pure agli strati sociali più emarginati anche se i poveri ricorsero alla fotografia soprattutto per apporla sul passaporto per poter emigrare, quando non finirono, loro malgrado, in una fotografia “segnaletica “ come si definiva, allora, con un eufemismo, una fotografia “criminologica” scattata a fini di schedatura da parte della polizia. (Ivi).
Così ricercati, galeotti, ladruncoli, oppositori politici, contrabbandieri, “beccati” ad emigrare senza documenti, ed altri ancora furono bellamente ritratti, protagonisti, loro malgrado, di un nuovo uso del mezzo fotografico.
Ando Gilardi intitola un capitolo del suo testo, non si sa quanto ironicamente, “Il fotoritratto: dall’atelier alla galera – dallo schedario al computer”.  (Ando Gilardi, op. cit., p.227).

Successivamente, verso la fine del secolo, oggetto delle riproduzioni fotografiche divennero, pure, i paesaggi ed i monumenti più significativi del territorio, ripresi, quasi sempre, dalla stessa angolazione.

Intorno al 1880 si moltiplicò, soprattutto a Napoli e nel Sud – Italia, la produzione di vedute del Golfo e della costa Amalfitana.
La fotografia di Napoli con il Vesuvio ed il pino marittimo in primo piano era, per esempio, un “classico”, per non parlare di quella “tipica” di Venezia, con, al posto del pino, la gondola, e sullo sfondo il campanile di San Marco. In questo caso, però, la scelta era obbligata non potendo riprendere immagini dal mare.
Di tali riproduzioni fotografiche venivano fatte più copie che erano vendute ad uso propagandistico e turistico.
«Venne così alimentata e ribadita un’iconografia che, da allora, giungerà sino ai nostri tempi nelle cartoline illustrate, tramite le quali si è addirittura costruito un paesaggio mitico» – scrive Zannier, dando il via ad una fruttuosa attività commerciale. (Ando Gilardi, op. cit., p.227 e Italo Zannier, op. cit, p. 53).

Comunque non si può dimenticare altri campi in cui la fotografia, piano piano, prese piede: fra questi basti ricordare la possibilità che essa offrì alle scienze naturali ed a quelle cosiddette “occulte”.
«Armati di macchina fotografica, uomini assai diversi tra loro vollero usarla per esplorare il “loro” mondo invisibile: scienziati, (…) spiritisti e ciarlatani.
Gli scienziati resero via via visibili quelle cose che, prima, non riuscivano a scrutare perché troppo piccole o troppo grandi, o troppo lontane […]. Gli altri fotografarono spettri ed ectoplasmi. (…).
«Dalle prime esplorazioni scientifiche con il nuovo mezzo, nacquero le grandi specializzazioni ed i grandi meriti della microfotografia, della fotografia aerea, della telefotografia, della cronografia o fotografia del movimento, poi chiamata, popolarmente, “istantanea”» – scrive Ando Gilardi. (Ando Gilardi, op. cit., p. 289).
E per ora mi fermo qui, auguro ai lettori buona lettura, e preannuncio un secondo capitolo, dal titolo “ Il fotografo un mestiere accreditato”.

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo, ripresa solo a questo fine, è un’opera di William Henry Fox Talbot, che scriveva che fiori e foglie erano stati i primi oggetti che aveva cercato di riprodurre. (Da: Quentin Bajac,  L’image révéléè, op. cit., p. 18).

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