Grazie a Matteo Ermacora che mi ha permesso la pubblicazione vi offro questo suo interessantissimo lavoro, che precisa alcuni scenari della seconda guerra mondiale dove anche lo stupro era di casa. Per non dimenticare pure cosa subirono  dai nazisti le popolazioni dell’est e fare chiarezza. L.M.P.

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Titolo originale: I crimini della Wehrmacht sul fronte orientale. Rassegna bibliografica (1999-2010, parte I). a cura di Matteo Ermacora. Da: DEP Deportate, esuli profughi. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, n. 13-14, 2010.

 Introduzione.

Pubblichiamo in questo numero la prima parte di una rassegna bibliografica sui crimini commessi dall’esercito tedesco in Polonia in Unione Sovietica tra il 1939 e il 1945. Sin dalla metà degli anni Novanta la storiografia tedesca e internazionale ha dedicato una crescente attenzione al ruolo della Wehrmacht sul fronte orientale.

Obbiettivo di questa rassegna è la presentazione dei nodi storiografici affrontati, delle fonti e delle metodologie adottate nell’analisi della violenza commessa contro la popolazione civile; verranno esaminate le seguenti tematiche: le violenze sessuali perpetrate dai soldati tedeschi, i crimini commessi durante la guerra antipartigiana, il ruolo dell’esercito tedesco nello sterminio della popolazione ebraica, le politiche di occupazione attuate nei territori orientali. Data la vastità della produzione storiografica, questa rassegna, lungi da essere esaustiva, si propone di illustrare le acquisizioni storiografiche di partenza e di indicare gli studi principali – articoli, saggi – che hanno segnato questo ultimo decennio di ricerca.

Inizieremo la rassegna bibliografica da uno dei temi meno indagati dalla storiografia, ovvero le violenze sessuali perpetrate dai soldati della Wehrmacht nei territori orientali occupati; la rassegna costituisce quindi una sorta di speculare integrazione alle schede relative alle violenze sovietiche in Germania, precedentemente pubblicate in questa sezione della rivista. (1). 

La Wehrmacht e le violenze sessuali sul fronte orientale.

Per lungo tempo gli stupri commessi da SS e dai soldati della Wehrmacht in Polonia e in Unione Sovietica sono stati un tema storiografico trascurato; sebbene sin dal 1941 i sovietici avessero sottolineato il singolare carattere del “terrore sessuale” imposto dai tedeschi durante l’“Operazione Barbarossa” e la successiva occupazione, solamente in tempi recenti gli studiosi hanno iniziato ad indagare compiutamente le violenze commesse contro le donne sul fronte orientale (2). Il ritardo con cui la storiografia si occupata di questo tema si spiega con il persistente “mito” della “Wehrmacht pulita”, l’importanza assegnata allo studio della Shoah e la diffusa convinzione che soldati tedeschi avessero rispettato le leggi razziali che impedivano i contatti sessuali tra ariani e non ariani. Le iniziali sollecitazioni delle storiche femministe come Susan Brownmiller e Barbara Johr, sono state raccolte a partire dalla seconda metà degli anni Novanta (3), quando – in seguito alle guerre balcaniche – gli storici hanno iniziato ad interrogarsi sul ruolo degli stupri nei contesti bellici.

I principali filoni di ricerca – che si sono confrontati con la scarsità di fonti disponibili – hanno riguardato la ricostruzione delle dimensioni, delle modalità e dei contesti delle violenze tedesche sulle donne nei territori occupati, l’esame della legislazione nazista, dei bordelli militari e della prostituzione forzata; le ricerche si sono inoltre soffermate sull’intreccio dei concetti di genere, sessualità, razzismo militarismo veicolati dall’ideologia nazista e, in misura minore, invece, sulle esperienze delle donne.

Gli studi hanno via via messo in luce il ruolo centrale della violenza sessuale nelle zone orientali occupate dall’esercito tedesco. Se i soldati della Wehrmacht, sin dalla campagna militare contro la Polonia, furono responsabili di numerosi stupri nelle operazioni di rastrellamento e di rappresaglia conto ebrei e civili polacchi, fu con l’attacco contro l’Unione Sovietica nel giugno del 1941 che la dimensione di tali crimini – ancorché difficilmente quantificabile – assunse una scala rilevante: infermiere, dottoresse, ausiliarie dell’esercito ma anche donne e ragazze lettoni, ucraine, bielorusse, ebree e non, furono vittime di stupri di gruppo da parte dei soldati tedeschi.

L’occupazione militare e la guerra antipartigiana che si sviluppò nel corso del 1942-43 ampliarono i contatti con la popolazione civile e moltiplicarono i contesti per esercitare la violenza; le donne furono inoltre rastrellate e forzate a lavorare nei bordelli militari nelle città occupate o nei campi di concentramento.

Si deve a Brigit Beck la rottura del silenzio sugli stupri commessi dalla Wehrmacht nei territori occupati. In una serie di studi pionieristici collocati nei primi anni Novanta, la storica ha analizzato un corpus di 178 sentenze per crimini sessuali emanate dai tribunali militari tra il 1939 e il 1945. Pur attenta agli aspetti simbolici e antropologici di derivazione socio-antropologica – il corpo femminile come territorio e simbolo della nazione (4), la “mascolinità militare” – l’obbiettivo primario della ricerca di Beck è stato quello di esaminare e storicizzare dati empirici. Gli stupri dei soldati tedeschi sono stati inseriti nel quadro del ruolo della violenza sessuale nelle guerre e contestualizzati alla luce dell’esame della legislazione militare, dei meccanismi processuali (credibilità del teste, modalità delle indagini, percezioni, circostanze) e delle decisioni intraprese dai giudici.

Mentre in Francia i soldati venivano puniti perché avevano “disonorato la Wehrmacht” e pregiudicato il rapporto con i civili, sul fronte orientale gli stupri furono di fatto derubricati, oppure puniti per mezzo di sanzioni disciplinari (5). Ad est, quindi, solo un piccolo numero di sentenze venne registrato e i casi furono puniti solamente quando il morale, la disciplina e la sicurezza dell’esercito potevano risultare compromessi; le autorità giudiziarie militari infatti non concepivano gli stupri contro le donne slave come “offesa morale” e pertanto perseguirono questi crimini sulla base di criteri razziali, come reati di “fraternizzazione” o di “offesa razziale” (Rassenschande) (6).

La levità delle pene comminate era determinata anche dal fatto che i giudici ritenevano che le donne ebree e slave – considerate razzialmente inferiori – avessero un minore “onore sessuale” rispetto alle donne tedesche e che il valore militare, l’assunzione di alcol e le “necessità sessuali” fossero condizioni attenuanti nel più ampio contesto del fronte orientale. Beck sottolinea che gli stupri ad est furono originati dall’interiorizzazione dell’ideologia razzista da parte dei soldati tedeschi e che le autorità militari e giudiziarie furono costrette a cercare di contemperare le necessità della guerra di annientamento con quelle del mantenimento della disciplina interna (7).

La violenza sessuale non era perseguita in quanto tale, ma solamente nel momento in cui metteva in pericolo l’immagine dell’esercito, la virilità, oppure costituiva una potenziale minaccia nei confronti della “comunità nazionale”. Beck dimostra che, nonostante il progressivo inasprimento del sistema giudiziario, sino al 1944 solamente 5.349 soldati furono incriminati per reati di natura sessuale, a fronte di un esercito che contava circa 17 milioni di uomini; tali crimini giocarono dunque un ruolo decisamente “secondario” all’interno del sistema giudiziario e repressivo militare.

Le acquisizioni di Beck sono state contestate da David Raub Snyder (8); quest’ultimo ha analizzato circa 400 processi per crimini sessuali dei soldati della Wehrmacht nei territori occupati e in Germania – stupro, abusi su minori, violazione del paragrafo 175 (divieto di rapporti omosessuali), Rassenschande, incesti – e ha cercato di valutare l’importanza dell’ideologia nazista nella motivazione delle sentenze; lo studio, focalizzato principalmente sul funzionamento del sistema giudiziario più che sull’analisi della particolare tipologia dei crimini, ha dimostrato il forte intreccio tra prassi giudiziaria e il contesto militare; secondo Snyder le sentenze, anche ad est, furono severe, e la difesa degli interessi militari immediati ebbe il sopravvento sull’ideologia.

Secondo lo studioso, le punizioni (dalle pene detentive alle sentenze di morte) avevano una funzione “rieducativa”, sia per ricondurre all’ordine gli indisciplinati, sia per allontanare gli elementi incorreggibili. Beck e Snyder concordano sul fatto che i giudici non provarono alcuna attenzione nei confronti delle vittime, ariane ed ebree, e che la giustizia militare dimostrò una generale tendenza a banalizzare e a minimizzare gli abusi, soprattutto quando le vittime appartenevano a razza considerate “inferiori”.

Il tema delle violenze sessuali ha sollevato anche ad una generale riflessione sul militarismo e il concetto di virilità nel Terzo Reich. In particolare gli studi hanno sottolineato come il regime nazista, nel contesto bellico, promuovesse una visione sessuata della società e una diversa funzionalità dei generi. La “mascolinità militare nazista” – intesa come corrispondenza tra eterosessualità e efficienza bellica – era percepita come diretta conseguenza della gratificazione sessuale, ottenuta anche attraverso l’istituzione dei bordelli militari (9). Virilità e razzismo costituivano dunque gli elementi fondamentali di una ideologia che concepiva stupro come un mezzo/atto repressivo per dimostrare la superiorità del popolo tedesco – impersonato dalla figura del soldato – sugli ebrei e le popolazioni slave. Proprio partendo da questi presupposti, spostando l’analisi sugli aspetti culturali dello stupro, Monika Flaschka – riesaminando la documentazione processuale militare, la terminologia adottata, le motivazioni delle sentenze – ha sostenuto l’importanza dell’ideologia di genere, unitamente a quella razziale, nella determinazione delle condanne per i crimini di natura sessuale.

Secondo tale prospettiva, l’ideologia razziale, durante il conflitto, si rivelò incoerente e instabile, soggetta i capricci dei vertici nazisti e a soluzioni di carattere contingente; tali oscillazioni, pertanto, furono controbilanciate e si intrecciarono strettamente con una ideologia di genere maschilista e misogina. Razza e genere, mascolinità/femminilità e adesione ai ruoli codificati furono altrettanto importanti nella determinazione della punizione così come i concetti di “superiorità” ed “inferiorità razziale”. Proprio per questo in diversi casi i giudici accusarono donne e ragazze di non rispettare ruoli e “norme” assegnate al loro genere; specularmente i soldati furono giudicati in base al rispetto dei valori militari, della dell’onore e della moralità “maschile” (10).

Un secondo filone di studi ha cercato di estendere il campo di indagine anche alle vittime degli stupri; Wendy Jo Gertjejanssen e Regina Mühlhäuser (11), nei loro lavori di più ampio respiro sulle violenze sessuali perpetrate sul fronte orientale, hanno esaminato non solo le forme della violenza – stupri di gruppo, schiavitù sessuale, prostituzione nei campi di concentramento, bordelli militari – ma anche le condizioni delle donne nei territori occupati; è stato così sottolineato come le politiche di sfruttamento attuate dall’esercito tedesco in Unione Sovietica abbiano fortemente contribuito alla diffusione della “prostituzione selvaggia”.
Entrambe le ricerche sottolineano come i divieti di contatto sessuale tra i soldati tedeschi e le donne ebree e slave si rivelarono “lettera morta” per i soldati e persino per le SS.

A dispetto delle proibizioni, aneddoti e resoconti suggeriscono che i soldati tedeschi e i collaboratori spesso ebbero un controllo totale sulle donne e le ragazze ebree, durante i rastrellamenti, le operazioni di liquidazione dei ghetti e le deportazioni; i soldati agirono sotto l’influsso dell’alcool, dell’abbrutimento e la loro violenza trascese l’elemento prettamente “razziale” (12). Nel tentativo di esaminare tutte le forme delle relazioni “intime”, dalla violenza più efferata sino ai rapporti genuini e spontanei, le due studiose intendono – a volte in maniera discutibile e contraddittoria – contestare la visione femminista secondo la quale la violenza sessuale costituisce un elemento strutturale all’interno del contesto bellico e che gli stupri siano motivati non solo dalla volontà di dominio e di sopraffazione.

La parte centrale dello studio di Gertjejanssen è dedicata ai tentativi delle istituzioni militari di frenare la diffusione delle malattie veneree, evitare i “miscugli razziali” e controllare i soldati mediante l’istituzione dei bordelli militari; l’autrice esplora inoltre il tema della prostituzione forzata all’interno dei campi di concentramento.
L’enorme richiesta di prostitute per l’esercito costrinse quest’ultimo a reclutamenti di almeno 50.000 donne polacche, bielorusse e ucraine, accuratamente scelte per le loro sembianze “ariane”. Utilizzando memorialistica, documentazione ufficiale e testimonianze orali la studiosa ricostruisce le drammatiche esperienze femminili, le umiliazioni, le violenze, facendo emergere il problema dei traumi e del silenzio delle vittime.

Il recente studio di Regina Mühlhäuser, inserendosi nel filone degli studi dedicati ai crimini di guerra della Wehrmacht, cerca di dare conto non solo delle violenze nei territori occupati, ma analizza anche la complessità di fenomeni quali la schiavitù sessuale, la prostituzione in cambio di cibo e di protezione, fino alle relazioni consensuali che sfociarono anche in richieste di matrimonio. Questa gamma di relazioni – studiata attraverso la documentazione militare, memorialistica, interviste, diari, lettere dal fronte, sentenze delle corti marziali durante la guerra e nel dopoguerra – è stata riletta alla luce di un contesto di mascolinità e di sessualità asimmetrica ed esasperata, mettendo a confronto i comportamenti dei soldati con quello delle direttive razziste del regime. Si confuta così lo stereotipo della “lealtà” del soldato tedesco alla propria famiglia, del rispetto delle disposizioni razziali e della presunta “integrità” della Wehrmacht.

Ribadendo i risultati di Beck, Mühlhäuser sostiene che i decreti di Hitler e il comportamento permissivo dei singoli comandi crearono le condizioni per violenze diffuse, rafforzate dall’ideologia razzista. In questo contesto l’istituzione dei bordelli militari in Unione Sovietica (20 nel 1943, tra cui Riga, Vilnius, Kharkov, Leopoli e di Smolensk), dovuto alla necessità di salvaguardare la salute dei soldati, finì per incentivare i crimini contro le donne (13).
Mühlhäuser si dimostra attenta non solo agli aspetti razziali dell’ideologia nazista, ma ne mette in evidenza anche la natura profondamente misogina: esplorando l’immagine veicolata dalla propaganda, sottolinea come le donne ebree e slave venissero spesso presentate come prostitute, donne abituate alla promiscuità sessuale; la demonizzazione e la banalizzazione della figura femminile – unita al dilagante fenomeno della prostituzione – favorirono il disprezzo dei soldati per le donne ebree e slave. Ne sono esempi il trattamento riservato alle partigiane e alle ausiliarie dell’esercito sovietico – le cosiddette Flinterweiber, considerate il frutto della degenerazione “giudeo-bolscevica” –, stuprate ed immediatamente uccise, e alle donne e ragazze ebree ritenute dai soldati tedeschi “vogelfrei”, selvaggina, prive di qualsiasi tutela.

Le atrocità di natura sessuale in Unione Sovietica furono quindi determinate dalle modalità della campagna militare, dallo sterminio degli ebrei russi e dalla radicalizzazione della guerra antipartigiana, fattori che incoraggiarono i maltrattamenti e gli abusi. Le testimonianze degli stessi soldati dimostrano come gli ordini e i regolamenti militari venissero adattati agli scopi personali quando questi ultimi rastrellavano i villaggi o perquisivano le case: episodi di sadismo, nudità forzata, voyeurismo, stupri di gruppo non furono infrequenti.
In situazioni in cui i soldati erano stanchi e demoralizzati, gli atti di violenza offrivano loro la possibilità di affermare la loro superiorità, degradare le vittime e ritrovare coesione; si trattava di una sorta di “pratica sociale”, di atti legittimati dall’alto e dal basso: la violenza sessuale divenne quindi una parte accettata e normale della realtà quotidiana della guerra (14).

Gli studi sono concordi nel rigettare l’idea di un piano preordinato e sistematico degli stupri proposto nel 1975 da Brownmiller e poi, in tempi più recenti, da Maiwald e Mischler (15); da questo punto di vista gli stupri non possono essere considerati una strategia militare, sia perché non si ha notizia di documenti che ordinarono ai soldati le violenze, sia perché il codice penale militare, seppure attenuato dai decreti di Hitler del 1941, definiva lo stupro come crimine contro la disciplina e le leggi razziali. Tuttavia, numerosi casi evidenziano che gli stupri si rivelarono uno degli strumenti della violenza nazista e furono utilizzati per terrorizzare le comunità contadine; si configurano quindi come uno degli elementi essenziali e caratteristici della guerra di “rapina”, spietata e criminale condotta dall’esercito tedesco in Unione Sovietica.

Le ricerche sulle violenze sessuali nei territori orientali si ricollegano proficuamente agli studi sull’esperienza delle donne deportate forzatamente all’interno del Reich e inserite nei progetti di germanizzazione forzata; i contatti sessuali con i soldati e con i civili tedeschi durante il conflitto comportarono nuove forme di violenza volte a controllare la popolazione “razzialmente indesiderabile”: circa 2 milioni di “lavoratrici dell’est” deportate in Austria e in Germania furono costrette ad aborti forzati o a procedure di sterilizzazione (16), una pratica che nel corso del 1943 si estese anche in Polonia e in Unione Sovietica, coinvolgendo le donne che avevano avuto relazioni sessuali con soldati tedeschi (17).

Analizzando fonti polacche e delle SS, sentenze di tribunali, Doris Bergen ha esaminato le sorti delle donne dell’Europa orientale – Volkdeutsche, polacche, ucraine – vittime delle politiche naziste; i processi di germanizzazione, attuati attraverso il controllo delle relazioni sessuali, il matrimonio e la riproduzione, di fatto erano funzionali alla creazione di una nuova e “brutale gerarchia” di tipo razziale.

All’interno di questo quadro la studiosa si è posta l’interrogativo se la cosiddetta “inferiorità razziale” influenzò o meno la possibilità di stupro; pur ammettendo la difficoltà del quesito, Bergen ha sottolineato come, dopo il 1942, “persino i tedeschi che avevano contraddetto gli ordini e stuprato donne ebree distrussero immediatamente le prove uccidendo le loro vittime”. In questa direzione, secondo la storica, le vittime che più soffrirono delle violenze sessuali furono in primo luogo i gruppi di popolazione che i nazisti intendevano sottomettere e schiavizzare – in primis le popolazioni slave – piuttosto che altri gruppi destinati allo sterminio; gli stupri perpetrati nei confronti delle donne ebree e zingare ebbero spesso esiti fatali, motivati dalla volontà di “disumanizzazione e distruzione delle vittime” (18).

Inizialmente più attente ai perpetratori, le ricerche si sono gradualmente (ma in maniera ancora insufficiente) spostate sulle vittime. Ancora poche sono le ricerche sulle relazioni tra soldati tedeschi e donne polacche, sia gentili che ebree, così come sui fenomeni di diffamazione pubblica delle donne, sulle gravidanze indesiderate e sui “figli della Wehrmacht”. In questo contesto alcuni studi hanno messo in luce la precarietà della condizione femminile tra occupanti nazisti, sovietici liberatori e partigiani nazionalisti; Jeffrey Burds ha asserito che con il collasso dell’autorità tedesca e l’avanzata dell’Armata Rossa, nell’Europa centrale ed orientale si moltiplicarono le zona prive di autorità, dove “crimine, banditismo, e guerre civili su base etnica si giocarono anche sulla violenza sessuale”.

Il caos postbellico, i conflitti interetnici e gli odi sopiti riemersero proprio contro le donne baltiche ed ucraine, spesso accusate di tradimento perché, pur di non essere deportate nel Reich, nel corso della guerra avevano contratto matrimoni ed ebbero figli con collaborazionisti o soldati tedeschi, divenendo in seguito vittime dei soldati sovietici e dei reparti della Nkvd (19).

La questione delle violenze durante l’occupazione nazista si intreccia con quella dei bambini “figli del nemico”. Gli storici hanno cominciato a considerare, in un quadro di comparazione europeo ed internazionale, le eredità di tali violenze, seguendo diversi approcci di indagine, da quello storico-sociale a quello antropologico. Si deve di nuovo a Regina Mühlhäuser un importante studio sui bambini nati dalle violenze e dalle relazioni sessuali delle donne sovietiche con membri delle SS, della polizia, soldati ed autorità di occupazione. Questi bambini, considerati un “rischio per l’ordine razziale e sociale tedesco” e pertanto “indesiderabili”, dovettero subire le politiche naziste che oscillarono tra germanizzazione forzata, sfruttamento a fini economici e sterminio (20). Molti “figli della Wehrmacht” vennero uccisi alla nascita e coloro che sopravvissero ebbero un’infanzia estremamente difficile; questi bambini, “contesi” e “contestati”, dovettero loro malgrado portare su se stessi la violenza che li aveva generati, uno status che determinò non solo dolorose conseguenze ma anche una loro difficile collocazione entro le storie e le memorie nazionali (21).

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Stupri e violenze nei territori orientali

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I “figli” della Whermacht.

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Muth K., Versteckte Kinder. Trauma und überleben der “Hidden children” im nationalsozialismus, Psichosozial verlag, Giessen 2004.

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Note.

(1). 1 Si veda M. Ermacora-S. Tiepolato, Stupri sovietici in Germania (1944-45). Schede bibliografiche, in DEP. Deportate, esuli profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile, 10, 2009, pp. 229- 268.

(2) Non esamineremo dettagliatamente in questa sede il tema della prostituzione forzata nei campi di concentramento.

(3) Si veda S. Brownmiller, Against our Will. Women and Rape, Simon and Schuster, New York 1975 e H.Sander-B. Johr, BeFreier und Befreite. Krieg, Vergewaltigungen, Kinder, Fischer, Frankfurt am Main 1992. Omer Bartov è stato fra i primi a segnalare la ricorrenza degli stupri sul fronte orientale, sia pure non focalizzando specificatamente tale tema. Cfr. O. Bartov, Soldiers, Nazis, and War in the Third Reich, in “The Journal of Modern History”, 63, 1, 1991, p.53; Idem, The Conduct of War: Soldiers and the Barbarization of Warfare, in “The Journal of Modern History”, 64, 1992, pp.32-45; Idem, Kitsch and Sadism in Ka-Tzetnick’s Other Plan et Israeli Youth Imagine the Holocaust, in “Jewish Social Studies” 3, 2, 1997, pp. 42-76.

(4) Si veda a questo proposito, R. Seifert, War and Rape. A preliminary Analysis, in A. Stiglmayer (ed.), Mass Rape: The War against Women in Bosnia-Herzegovina, University of Nebraska Press, Lincoln 1994, pp. 54-72; Idem, Il corpo femminile come corpo politico: lo stupro, la guerra e la nazione, in “Difesa sociale”, 2, 2007, pp. 55-70. Nel complesso gli studi sembrano avere recepito anche le suggestioni di K. Theweleit, Fantasie virili. Donne, flussi, corpi, storia, Il Saggiatore, Milano 1997 [ed.or. 1987-1989].

(5).  Quest’ultimo fattore rende difficilmente documentabile il fenomeno e rende difficile trarre delle conclusioni di carattere univoco. B. Beck, Rape: The Military Trials of Sexual Crimes Committed by Soldiers in the Wehrmacht, 1939-44, in K. Hagemann-S. Schiller-Springorum (eds.), Home/Front: The Military, War and Gender in Twentieth-Century Germany, Berg, London 2002, pp. 255-273, qui p.258 e 262.

(6). Ivi, p. 268. Si veda anche B. Beck, Sexual Violence and its Prosecution by Courts Martial of the Wehrmacht, in R. Chickering-S.Förster-B. Greiner (eds.), A World at Total War: Global Conflict and the Politics of Destruction, 1937-1940, German Historical Institute-Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 317-332, qui pp. 324-326. Gli studi sono poi rifluiti in Beck B., Wehrmacht und sexuelle Gewalt: Sexualverbrechen vor deutschen Militärgerichten, 1939-1945, Ferdinand Schöningh, Paderborn 2004.

(7) Ivi, p. 265.

(8) D. Raub Snyder, Sex Crimes under the Wehrmacht, University of Nebraska Press, Lincoln-London 2007. Sui pochi casi di ufficiali condannati per Rassenschande, cfr. Y. R.Bücler, “Unwhorty Behaviour”: The Case of SS Officer Max Täubner, in “Holocaust and genocide Studies”, 17, 3, 2003, 409-429.

(9) A. F. Timm, Sex with a Propose: Prostitution, Venereal disease and Militarized Masculinity in the Third Reich, in D. Herzog (ed.), Sexuality and German Fascism, Berghahn Books, New York-Oxford 2005, pp. 223-255, qui. pp. 224-227.

(10) M. J. Flaschka, Race, rape and gender in nazi-occupied territories, Ph.D. Dissertation, Kent State University, 2009, reperibile all’indirizzo internet: http://etd.ohiolink.edu/sendpdf. cgi/Flaschka%20Monika%20J.pdf?kent1258726022 (qui pp. 91-92).

(11) W. J. Gertjejanssen, Victims, Heroes, Survivors. Sexual Violence on the Eastern Front during World War II, Ph.D. Dissertation, University of Minnesota, 2004, reperibile all’indirizzo internet: http://www.nostalgictreasures.com/World_War_II/Victims_Heroes_Survivor_full.html., e R. Mühlhäuser, Eroberungen, Sexuelle Gewalttaten und intime Beziehungen deutscher Soldaten in der Sowjetunion 1941–1945, Hamburger Edition, Hamburg 2010.

(12) Sul tema della prostituzione forzata in bordelli e campi di concentramento ci limitiamo a segnalare alcuni studi fondamentali: I. Meinen, Wehrmacht und Prostitution in besetzten Frankreich, Edition Temmen, Bremen 2002; C. Paul, Zwangsprostitution: staatliche bordelle im Nationalsozialismus, Edition Hentrich, Berlin 1994; M. Plassmann, Wehrmachtbordelle. Anmerkungen zu einem Quellenfund im Universitätsarch iv Düsseldorf, in “MilitärgeschichtlicheZeitschrift”, 62, 2003. Sulla creazione di bordelli militari e la prostituzione regolarizzata e controllata dalle forze armate e dallo stato, cfr. J. Roos, Backlash against Prostitutes’ Rights: Origins and Dynamics of Nazi Prostitution Policies, in “Journal of the History of Sexuality”, 11, 1-2, 2002, pp. 67-94. Sulla prostituzione nei campi di concentramento: C. Füllberg-Stolberg (hrsg.) Frauen in Konzentrationslagern, Temmen, Bremen 1994; Amesberger, H.-K. Auer-B. Halbmayr, Sexualisierte Gewalt. Weibliche Erfahrungen in NS-Konzentrationslagern, Mendelbaum Verlag, Wien 2004. B. Alakus.-K. Kniefacz-R. Vorberg, Sex-Zwangsarbeit in nationalsozialistischen Konzentrationslagern, Mandelbaum Verlag, Wien 2006 e i saggi contenuti in D. Herzog-H.Lundtofte-A. Warring (eds.), Brutality and Desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2009 e in I. Eschebach-R. Mühlhäuser (hrsg.), Krieg und Geschlecht: Sexuelle Gewalt im Krieg und Sex-Zwangsarbeit in NSKonzentrationslagern, Metropol Verlag, Berlin 2008. Sul tema è in corso di pubblicazione (novembre 2010) un’importante raccolta di saggi curata da S.M. Hedgepeth-G. Seidel Rochelle, Sexual violence against Jewish Women during the Holocaust, Brandeis University Press/University Press of New England, http://www.upne.com/1-58465-903-3.html; l’indice del volume è consultabile all’indirizzo internet: http://www.rememberwomen.org/Projects/current.html#abuse.

(13). R. Mühlhäuser, Eroberungen, cit.

(14) Tali aspettative di “conquista” – presa di possesso, cattura, sottomisisone e distruzione – erano peraltro ben presenti prima dell’inizio della guerra e divennero una possibilità concreta durante la campagna sul fronte orientale. Cfr. Anche R. Mühlhäuser, Between “Racial Awareness” and Fantasies of Potency. Nazi Sexual Politics in the Occupied Territories of the Soviet Union, 1942-1945, in D. Herzog-H.Lundtofte-A. Warring (eds.), Brutality and Desire. War and Sexuality in Europe’s Twentieth Century, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2009, pp. 197-220.

(15) S. Maiwald-G. Mischler, Sexualitat unter dem Hakenkreutz. Manipulation und Vernichtung der Intimsphare im NS-Staat, Europa Verlag, Hamburg-Wien 1999. Fondano il loro assunto sugli ordini emanati da Keitel.

(16) G. Bock, Racism and Sexism in Nazi Germany: Motherhood, Compulsory Sterilization and the State, in C. A. Ritter-J.K. Roth (eds.), Different Voices: Women and the Holocaust, Paragon House, New York 1993, pp. 161-186.

(17) I. Heinemann, Rasse, Sieldung, deutsches Blut: das Rasse-und Sieldungshauptamt der SS un die rassenpolitische neuordnung Europas, Wallstein, Göttingen 2003.

(18) D. Bergen, Sex, Blood, and Vulnerability: Women Outsiders in German-Occupied Europe, in R. Gellately-N.Stolzfus (ed.), Social Outsiders in Nazi Germany, Princeton University Press, Princeton- Oxford 2001, citazioni da p. 274, 277 e 278.

(19) J. Burds, Sexual violence in Europe in World war II, 1939-1945, in “Politics & Society”, vol. 37, 1, 2009, pp. 35-74; qui 37-38; 40-41 e 56-59. Si veda anche Idem, Gender and policing in Soviet West Ucraine, 1944-1948, in “Cahiers du Monde russe”, 42, 2-4, 2001, pp. 279-320.

(20)  R. Mühlhäuser, Between Extermination and Germanization: Children of German Men in the “Occupied Eastern Territories”, 1942-1945, in K. Ericsson-E. Simonsen (eds.), Children of World War II: The Hidden Enemy Legacy, Berg, Oxford-New York 2005, pp. 67-189, qui p. 167-168; 179.

(21) K. Ericcson-E. Simonsen, On the Border. The Contested Children of the Second World War, in “Childhood”, 15, 3, 2008, pp. 397-414.

Matteo Ermacora.

L’immagine che accompagna l’articolo è tratta da: https://www.unive.it/pag/31505/?L=1, e correda la presentazione del numero monografico di DEP (n.10 del 5/2009) che contiene gli atti del Convegno tenutosi a Venezia il 23-24 ottobre 2008, dal titolo Genere, nazione, militarismo. Gli stupri di massa nella storia del Novecento e nella riflessione femminista, organizzato da DEP e dall’unità veneziana del progetto PRIN 2005 coordinato da Marcello Flores. L. M. P.

 

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