Suona il campanello di casa. È il mio gemello Marco, con un fardello di libri che gli avevo intimato di non portarmi, avendo già la casa piena di volumi e non sapendo dove metterli. Davanti alle mie rimostranze egli prende la borsa e me la lascia, dicendo che in caso li regali. Così inizio a guardarli ed uno di questi mi incuriosisce parecchio, per l’importanza dei suoi contenuti. Si tratta del volume Sandro Fabbro: “La ricostruzione del Friuli” 3 Ires, Cooperativa editoriale Il Campo, Udine, 1985, che riporta una lunga ricerca pubblicata  9 anni dopo i sismi friulani. Inizio a leggerlo anche perché ogni volta che sento parlare, per la ricostruzione di zone terremotate, di “modello Friuli” vorrei davvero sapere a che cosa ci si riferisca.  Inoltre penso che allora fossero altri tempi, altre ricchezze, altri contesti non ripetibili. Scorro le righe con gli occhi ed alcuni temi mi paiono di attualità, ed una serie di considerazioni affollano la mia mente.

L’ANALISI DI QUANTO ACCADDE IN FRIULI CI AVREBBE DOVUTO INSEGNARE QULACOSA PER IL FUTURO.

Scriveva allora Luciano Di Sopra che ogni evento dannoso deve essere visto come momento di discontinuità, come qualcosa che rompe con il pregresso. (Luciano di Sopra, Prefazione, dove la ricostruzione viene esaminata come processo di gestione della domanda sociale, in Sandro Fabbro, op. cit., p. 13). Ed anche in Friuli ormai si parla di prima e dopo il terremoto, comprendendo, in detto termine, ambedue le grandi scosse del 1976. Quindi il noto architetto ovarese continua dicendo che il modo in cui si presenta il post- impatto non è avulso da quanto esisteva prima, perché le condizioni di possibile danneggiamento maturano prima che l’evento dannoso, per esempio un sisma, abbia luogo. Inoltre nel periodo seguente ad una calamità, vissuta sempre come un shock dalla popolazione e recante un profondo sconvolgimento nell’ordine strutturale dal territorio, la domanda sociale sale vertiginosamente, creando uno squilibrio iniziale tra questa e la capacità di risposta istituzionale. Pertanto si sarebbe dovuto far tesoro di queste considerazioni per il futuro ed approntare schemi teorico – pratici di intervento coordinato fra le istituzioni competenti. Ma quanto è stato davvero fatto?

Scrive Sandro Fabbro, sempre sullo stesso volume, che «Un paese civile ed economicamente avanzato deve prevedere […], tra i sistemi di sicurezza sociale, anche l’intervento di assistenza pubblica alle popolazioni colpite da calamità», trasformando ogni evento calamitoso e le risposte date allo stesso nel periodo seguente in “laboratorio”, da cui acquisire conoscenze ed iniziative utili sia per la prevenzione, sia per completare la ricostruzione degli insediamenti sia per affrontare possibili squilibri prodottisi tra parti di territorio e tra parti di società». (Sandro Fabbro, Introduzione metodologico- teorica sulla natura delle ricostruzioni e risultati dell’indagine nei comuni colpiti dal terremoto del 1976, in: Sandro Fabbro, op. cit., pp. 25-26). E, sempre secondo Fabbro, molto si potrebbe imparare anche dai bilanci consuntivi relativamente all’efficacia delle spese sostenute, per semmai tarare al meglio quelle possibili, qualora calamità si ripetessero. (Ivi, p. 26). 
L’esperienza del Friuli ricostruito può quindi esser studiata per valutare ove ed in che condizioni sia avvenuto il maggior danno per limitarlo nel futuro; per identificare ed interpretare la nuova società ricostruita; per progettare in altre situazioni future; per valutare l’intervento statale in funzione dei risultati sulla ricostruzione materiale dei centri paesani; per analizzare la tempestività degli interventi di soccorso, primo intervento e ricostruzione. In sintesi si dovrebbe imparare dal pregresso ad analizzare lo scandaglio degli intrecci relazionali e causali che possono portare sia ad evitare danni ingenti sia a intervenire tempestivamente. (Ivi, pp. 26-27). Lo si è fatto? Basta vedere L’Aquila, Amatrice e dintorni. Pare che non abbiamo imparato questo grande insegnamento, e le istituzioni abbiano continuato e continuino ad andare avanti come si trovassero ogni volta, vergini, davanti ad una calamità naturale, senza aver tesaurizzato l’esperienza pregressa, senza aver vincolato una cifra per le emergenze di questo tipo, senza aver approntato adeguati strumenti di prevenzione, per esempio interventi sugli edifici a rischio posti in zona altamente sismica.

CHI HA AVUTO, IN FRIULI, I DANNI MAGGIORI?

Per valutare l’effetto di un sisma su un edificio, un centro urbano, un territorio, si deve introdurre il concetto di vulnerabilità. Il terremoto del Friuli, attraverso la valutazione dei danni, ha messo in luce come gli edifici più vetusti che costituiscono i centri storici siano i più vulnerabili. Pertanto si dovrebbe intervenire mettendo in sicurezza con tecniche di consolidamento ed antisismiche tali costruzioni nelle aree a rischio. (Ivi, p. 29). Inoltre il termine “ricostruzione” non può esser applicato al mero ambito urbanistico, ma implica anche la ricostruzione del tessuto socio-economico lacerato, e prevede la presa di coscienza, da parte della popolazione, dei danni provocati e provocabili dal degrado edilizio ed ambientale e dall’abusivismo. (Ivi, pp. 29 e 34).
 Dallo studio dell’Ires, presentato nel volume del Fabbro, emerge che le deformazioni plastiche degli edifici, causate dai terremoti del 1976, possono esser classificate sulla base dei materiali utilizzati per la loro costruzione e delle tecnologie e tecniche edilizie adottate. (Ivi, p. 47). 
«Il danno che una determinata intensità di stress provoca su un sistema di edifici – scrive Fabbro –  è la risultante dell’accumularsi dei diversi livelli di vulnerabilità contenuti nel tipo di materiale costruttivo adoperato, nella tecnica di assemblaggio dei materiali, nelle caratteristiche strutturali dell’edificio, nella frequenza e nella qualità con cui, nel corso del tempo, sono stati apportati consolidamenti e interventi di manutenzione alle strutture, nella stessa distribuzione spaziale degli edifici». (Ivi, p. 47).

I centri più colpiti in Friuli avevano il 70% di edifici di origine medioevale, edificati con tecniche costruttive del passato, i tre/quarti dei quali erano adibiti ad attività agricole, e locati, assieme a stalle, fienili, depositi, in centri ristretti, anche posti sotto-monte, per lasciare lo spazio circostante all’agricoltura. Questi agglomerati erano costituiti da un continuum di unità: case agricole, strade, piazze, cortili, orti, fondi agricoli. (Ivi, p. 48).
Il materiale costruttivo risultava povero, per esempio sasso smussato, che non permetteva una buona tenuta dei leganti, mentre le malte, una miscela di inerti e calce, risultavano spesso di non buona qualità, ed avevano subito, nel tempo, un deterioramento a causa degli agenti atmosferici, trasformandosi in materiale friabile. Infine le case non avevano una struttura a gabbia che le sostenesse. (Ivi, p. 49).
E nel merito Fabbro segnala che, mentre negli antichi abitati e centri storici fu distrutto il 72% degli edifici, nelle zone viciniori di nuova edificazione fu distrutto solo il 7% dei fabbricati anche se vi furono pure  casi di strutture nuove lesionate irrimediabilmente, come per esempio il nuovo ospedale di Gemona ed il palazzo a struttura pensile di Majano. (Ivi, p. 52). Quindi secondo Fabbro, sulla base dei dati elaborati, il 85% degli edifici vetusti non ha offerto alcuna garanzia di resistere al sisma, mentre solo il 7,2% delle costruzioni erette dopo il 1960 è stato abbattuto. (ivi, p. 50).  
«Da ciò sembra di poter dire – scrive Fabbro – che un determinato stress è più distruttivo su un sistema insediativo e sociale sottosviluppato posto anche ad elevate distanze dalla sorgente che su un sistema posto nelle sue immediate vicinanze (quindi con le più elevate intensità) ma sviluppato e socialmente attrezzato» (Ivi, p. 52).

Cosa abbiamo imparato da queste analisi sul terremoto del Friuli, quando altri eventi sismici hanno funestato l’Italia, dall’Irpinia e Basilicata all’Abruzzo e a L’Aquila, dalla Sicilia all’Umbria fino ad Amatrice?  Nulla di nulla. E quanto si è parlato di questi problemi?
Renzi gira in treno in carrozza di lusso con il suo staff, non certo da pendolare per lavoro, sperando in improbabili bagni di folla, Gentiloni e c. sono impelagati in una legge elettorale che porta dritta al potere di una ristretta cerchia e nei giochetti su Visco, a cui la popolazione italiana non credo sia molto interessata, se non per consolidare il pensiero, non certo populista, su certi politici, mentre Amatrice ed isola d’Ischia sono sparite dai giornali dopo la fase di scoop. E che ne è stato dei progetti di ricostruzione, per gli abitati colpiti dai precedenti sismi, se mai sono esistiti, e della loro realizzazione? Per quanto riguarda L’Aquila, quello che si sa da servizi televisivi non recenti è lungi dal fa ben sperare. 
Infine che dire della speculazione sulle disgrazie altrui, fenomeno contro il quale si batté Monsignor Alfredo Battisti, mai dimenticato? Fra un po’ forse parrà normale, perché ormai il concetto di normale sta cambiando, e non indignano più comportamenti che gridano vendetta contro Dio, davanti ai quali ci si approccia, sempre più, facendo finta di non vedere, e con un eh, mah…

Ma per ritornare al terremoto del Friuli ed alla ricostruzione che ne seguì, si nota come i danni variarono in funzione del reddito familiare, e solo il 20% delle famiglie con reddito elevato ebbe danni rilevanti a fronte del 43% delle famiglie a basso reddito (Luciano Di Sopra, op. cit., p. 19), forse perché quelle più ricche avevano già apportato degli ammodernamenti alle loro dimore.
Ed infine lo studio Ires fa notare come pare evidenziarsi, dai dati acquisiti, una correlazione tra livello di danno e condizioni bio- sociali delle famiglie, essendo più colpita la fascia povera ed anziana, fra l’altro più bisognosa di aiuto ed anche meno capace di avere iniziativa personale, rischiando una ricostruzione a due velocità. (Sandro Fabbro, op. cit., p. 54).

LA RICOSTRUZIONE IN FRIULI.

Luciano Di Sopra divide in tre fasi (da lui definite onde) il post terremoto: la fase dell’emergenza; la fase del reinsediamento provvisorio, la fase della ricostruzione, fino a giungere, da una situazione in entrata, ad una in uscita. (Luciano Di Sopra, op. cit., p. 17). La fase iniziale contempla la creazione di strumenti giuridici, procedurali, operativi e di controllo per poter affrontare i problemi sorti, la fase finale comporta una lunga onda terminale, dovuta anche alle diverse capacità di ripresa di alcune realtà marginali. (Ivi, pp. 17-18). Inoltre nella ricostruzione del Friuli si è superato il modello tradizionale di ricostruzione ove un progettista solo decideva il da farsi ed i contenuti da imporre al territorio, come è accaduto nel Belice, e come volevano fare alcuni urbanisti anche in Friuli, spostando gli abitati verso l’asse Udine Pordenone, e si è passati ad un concetto di ricostruzione come “laboratorio” (Ivi, pp. 12-13) scegliendo di ricostruire com’era, dov’era, il più possibile, e rigettando idee utopistiche e razionalistico-costruttivistiche. (Sandro Fabbro, op. cit., p. 77). Altro principio seguito è stato quello di “ricostruire almeno quanto prima”. 

Dal punto di vista finanziario la ricostruzione del Friuli ha sfruttato il momento congiunturale positivo, in sintesi non sarebbe potuta avvenire nei modi in cui è avvenuta allora, ora, e se metà del costo della stessa è stato a carico dello Stato tramite la concessione di contributi, l’altra metà è stata a carico dei privati, con una mobilitazione di risorse familiari a carattere “straordinario”, attraverso il ricorso ai risparmi, alle rimesse aggiuntive da parte dei lavoratori all’estero, alla vendita di terreni, all’aumento del lavoro e quindi del reddito familiare, ed al ricorso al credito bancario, con il fine di non perdere l’opportunità di realizzare una casa finalmente nuova, grande, strutturalmente protetta, di elevata qualità costruttiva nei materiali e nelle finiture. (Ivi, p. 98). 
Quello che non fu previsto allora, è il modello attualmente accentrato, che penalizza la montagna e la pedemontana ove più si è investito a livello abitativo, e che porta popolazione giovane ad andarsene, abbandonando i centri ricostruiti, ed a vendere o svendere le abitazioni antisismiche. A fronte quindi di un investimento enorme di denaro, pare che la ricostruzione sia finita perché non si è pensato a supportare in modo intelligente la popolazione stanziale, e si è proceduto, all’opposto, togliendo servizi e non occupandosi della possibilità di impiego in loco.
E questo investire in abitazioni da parte dei nuclei familiari ha avuto il risultato di una sovraesposizione di spesa in beni esclusivamente immobiliari a svantaggio dell’investimento in altri settori sociali, culturali, produttivi, ed ha prosciugato risorse finanziarie, tanto che alcune famiglie furono costrette ad interrompere il completamento delle opere per esaurimento dei fondi. (Ivi, p. 98).

Inoltre i centri maggiori sono riusciti a ricostruirsi prima di quelli minori e svantaggiati, fattore che ha influito sulle dinamiche di rientro (Ivi, p. 65), ed in alcuni casi la salute e l’età o problemi di carattere normativo urbanistico, hanno impedito ad alcuni terremotati di ricostruire in modo autonomo e di accedere ai contributi. (Ivi, pp. 56-57).
Il fatto poi di dover impiegare denari propri unitamente al sogno della casa nuova vista come status symbol (Ivi,p. 87), hanno portato molti nuclei a cercare nuove tipologie abitative locate fuori dai ristretti centri storici, come i villini unifamiliari, le ville a schiera, o l’appartamento in piccolo condominio. Ed è anche accaduto che l’assenza di qualsiasi indirizzo normativo sia sul piano estetico che sul piano strutturale, nel ricostruire, si sia tradotta «in una sostanziale corruzione dei segni e delle forme compositive ereditate dal passato senza apportare peraltro validi correttivi dal punto di vista statico-strutturale». (Ivi, p. 49).

Secondo me, poi, l’espansione abitativa fuori dai centri antichi e preesistenti è stata in alcuni casi notevole, svuotando parzialmente gli stessi di abitanti, si è sprecato, successivamente, molto suolo per capannoni e centri commerciali, enormemente sovradimensionati rispetto alla popolazione residente ed anche ai possibili acquirenti, e si sono create zone artigianali ed industriali in eccesso, continuando una tendenza, per esempio in Carnia, i cui limiti erano già presenti a Tiziano Miccoli nel 1972. (Carnia, problemi di oggi problemi di ieri. L’intervento di Tiziano Miccoli al I° convegno sul tema: “La cooperazione nella nuova Comunità Montana”. Tolmezzo il 26 febbraio 1972, in: www.nonsolocarnia.info).
La politica degli sprechi non è solo quella delle opere non completate o dismesse ma anche quella dell’uso non razionale delle risorse di un territorio, penso fra me e me.
Infine il sogno della bella casa e la foga della ricostruzione, insieme alle distruzioni, hanno portato alla perdita sia di documentazione familiare che di archivi documentari e fotografici, di volumi anche di pregio, di edifici di un certo valore, almeno nella loro strutturazione d’epoca.
Nel caso del Friuli si dimentica di dire, poi, che per abbattere i costi a carico dello Stato, i lavori di consolidamento perimetrale furono appaltati a grosse ditte, come, per esempio e se non erro la “Cosma” che operò a Tolmezzo, che non conoscevano il territorio ed agirono con una metodologia similare su ogni edificio. Quindi quando si parla di “modello Friuli” con riferimento alla gestione preminentemente comunale e regionale della ricostruzione, si sbaglia, perché lo Stato intervenne direttamente e massicciamente nelle scelte con il Commissario Straordinario Zamberletti.  
Inoltre i comuni meno colpiti, cioè i sistemi meno collassati, come prevedibile, riuscirono a reagire in modo più tempestivo, ed ad appropriarsi di mezzi e risorse maggiormente degli altri. Ciò potrebbe aver «dato luogo ad un processo di trasferimento di risorse più accelerato e proporzionalmente superiore al danno subito nelle aree meno danneggiate, a tutto svantaggio di quelle che esprimevano fabbisogni più radicali ed urgenti». (Sandro Fabbro, op. cit., p. 64).

La ricostruzione portò, dal punto di vista urbanistico, spesso ad una mobilità localizzativa degli edifici, a modificazioni più o meno radicali del modello abitativo, tanto che solo il 12% di coloro che dovettero ricostruire l’abitazione la fecero simile a quella precedente. E di fatto solo il 57% del tessuto urbano tradizionale ricostruito venne a trovarsi nell’antico sito, mentre il 43% si frantumò in localizzazioni diverse (Ivi, p. 83), ed alla socialità del cortile si sostituì la solitudine della casa isolata unifamiliare.
Il sisma e la ricostruzione generarono, quindi, un Friuli completamente diverso da quello precedente, con tanti sogni ma anche con una netta perdita valoriale e sociale.
Io credo che le istituzioni dovrebbero far tesoro di queste considerazioni di Luciano Di Sopra e di Sandro Fabbro basate sui dati dell’Ires, privilegiando una chiave di lettura di un evento così grave non solo per rievocarlo e retoricamente celebrarlo, ma formativa e conoscitiva, proiettata verso il futuro. (Ivi, p. 26). Ma pare che questo non sia accaduto, e così siamo ad Amatrice, ed alla desolazione di alcune esperienze discutibili come quella abruzzese. Inoltre cosa significa, alla luce di quanto sopra esposto, «Modello Friuli», di ricostruzione?

Laura Matelda Puppini

L’immagine che correda l’articolo rappresenta il rischio sismico delel varie regioni italiane, ed è tratta, solo per questo uso, da: http://tg.la7.it/cronaca/esperto-italia-a-forte-rischio-sismico-le-regioni-pi%C3%B9-pericolose-25-08-2016-107194. Laura Matelda Puppini

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